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di Alessandro Iacuelli
Era un luogo davvero insospettabile, la base dell'organizzazione internazionale dedita al traffico di cocaina appena sgominata dai carabinieri del Comando provinciale di Piacenza: un convento di suore situato nel centro di Milano. L'idea geniale per mascherare deposito di droga e traffico era venuta ad alcuni affiliati alle cosche calabresi Pelle-Vottari e Coco-Trovato, legate a due cartelli colombiani della droga. Per "coprire" gli spostamenti della cocaina, venivano organizzati falsi pellegrinaggi.
A finire in manette sono state 33 persone in tutto, altre 80 denunciate, ed è stata sequestrate una considerevole quantità di stupefacente, circa 30 chili di cocaina purissima. Secondo gli investigatori il custode del convento, un sudamericano incensurato, avrebbe organizzato pellegrinaggi ai quali si univano dei suoi complici che, fingendo di essere dei fedeli, trasportavano la cocaina nei breviari e in altri oggetti nascosti nel bagagli a mano.
Non solo. C'è qualcosa di più grave dietro il traffico di droga. Infatti, dalle indagini è emerso anche che dei fondi FAO, il Fondo Mondiale per l'Alimentazione, fondi destinati allo sviluppo della pesca in aree povere dell'Africa, siano stati "illegalmente percepiti" e usati dalla stessa banda per realizzare una base di stoccaggio della cocaina in Ghana. Con buona pace per la fame nel mondo.
Sempre secondo gli investigatori, era proprio l'insospettabile custode del convento, ad essere uno dei capi della potente organizzazione internazionale di trafficanti di cocaina. Dalle indagini è emerso che utilizzava il convento come base per le sue operazioni e organizzava i viaggi dei corrieri della droga dalla Colombia, mascherandoli come pellegrinaggi. Pellegrinaggi in abito talare, perché i corrieri, fingendosi sacerdoti e religiosi, nascondevano e trasportavano la cocaina eludendo un bel po' di controlli aeroportuali, dove è un po' difficile che perquisiscano un sacerdote. L'uomo è stato arrestato tra lo stupore delle suore, che tra una preghiera ed un'altra hanno anche mormorato che era un brav'uomo e che, naturalmente, non si erano mai accorte di nulla.
E' stato proprio a partire da questi strani pellegrinaggi dall'America Latina all'Italia che i carabinieri di Piacenza, sotto il coordinamento delle DDA di Bologna e Milano, sono riusciti, nell'arco di ben tre anni, a capire come funzionava il meccanismo. Quelli che risultavano come pellegrini, diretti in Italia per un periodo di preghiera, trafficavano la cocaina stoccandola prima in Ghana e trasportandola poi in Italia. Proprio dietro la base africana ci sarebbe nascosta la pericolosa truffa alla FAO: l'organizzazione avrebbe,infatti, mediante dei prestanome, richiesto un finanziamento proprio alla FAO. I prestanome hanno presentato la documentazione di una società di import-export, che avrebbe dovuto sviluppare il mercato ittico in Africa e contribuire a salvare dalla fame chi non ha da mangiare. E, incredibilmente, il finanziamento l'hanno ottenuto.
Come non bastasse, secondo gli inquirenti era "già in fase esecutiva un accordo commerciale tra i trafficanti piacentini e alcuni narcos appartenenti ai cartelli colombiani, per destinare ingenti investimenti in termini di mezzi e capitali" nella costituzione di una nuova base operativa in Ghana, demandata allo stoccaggio di partite di cocaina da introdurre successivamente in Europa. Magari anche questa a spese della FAO. Sempre secondo la DDA, la banda era costituita principalmente non dai "soliti" calabresi, come si usa dire spesso in nord Italia, ma da trafficanti piacentini "dediti al rifornimento di ingenti partite di cocaina attraverso il contatto con elementi appartenenti a dirette articolazioni di 'ndrine calabresi attive sul territorio lombardo".
Sequestrata anche una casa ad Alemanno San Bartolomeo, in provincia di Bergamo: secondo gli inquirenti, ospitava il laboratorio clandestino per la raffinazione della droga, poi smerciata nelle province di Milano, Bergamo, Brescia, Varese, Lecco, Lodi, Parma, Piacenza e La Spezia. Naturale l'imbarazzo manifestato da persone vicine alla FAO: si tratta di uno “smacco” che andava evitato assolutamente.
Tra gli arrestati ci sono anche alcuni rispettabilissimi imprenditori piacentini, primo tra tutti il titolare di una ditta di autotrasporti di Alseno, e altri suoi colleghi della Valdarda che erano riusciti, secondo i carabinieri, ad avere il contatto, tramite un intermediario anche lui arrestato, con le cosche calabresi che gestiscono il traffico di droga in Lombardia. In particolare sono emerse collaborazioni con la famiglia dei Vottari, il cui nome ricorre anche nella strage di Duisburg di due anni fa.
Sembra un'instancabile corsa, quella tra Stato e narcotrafficanti: corsa ai metodi più forti per contrastare i traffici da un lato, e per eludere i controlli dall'altro. E’ con l'inasprirsi di questi ultimi, che la corsa si sposta su piani sempre più fantasioni. Stavolta si è pensato, come copertura, ad un giro di pellegrinaggi, di viaggi di preghiera, di breviari e crocifissi, ad un convento; e si è pensato a estorcere soldi alla FAO, travestendosi da pii aiutanti dei bambini affamati africani. Tanto ingegnoso quanto insospettabile. E la prossima volta? Quale sarà la prossima invenzione?
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di Rosa Ana de Santis
E' stata disposta una "rigorosa attività ispettiva" sul comportamento dei poliziotti la sera del 5 maggio scorso a Roma. L'indagine é stata disposta dal Capo della Polizia Manganelli, dopo la visione di quanto appare su Youtube. Perché stavolta, diversamente da altre, il video c’è. Ci sono molti testimoni dell’accaduto e i genitori hanno potuto far visita nel carcere di Regina Coeli al figlio che è agli arresti dal 5 maggio scorso, dopo la partita Roma-Inter. Tante analogie e importanti differenze con la storia dello sfortunato Cucchi. La storia di Stefano Gugliotta, 25 anni, forse nasce da un banale sbaglio di persona. Viene preso a manganellate mentre è ancora sul motorino e non sa, né i suoi familiari sanno, perché sia finito in carcere. Lui allo stadio nemmeno c’era.
Marco Letizia, segretario nazionale dell'Anfpi (Associazione nazionale dei funzionari di polizia), dichiara subito, appena scoppiato il clamore per il video-denuncia, che bisogna fare chiarezza sulle motivazioni del fermo e sul comportamento dei due prima di fare ipotesi e accostamenti con altre vicende di cronaca. Certo è che Gugliotta è incensurato ed è in carcere senza un motivo, senza che alcuno gli abbia comunicato le ragioni dell’accaduto, ma intanto le botte le ha già prese. Non è grave come è successo ad altri, ha ferite e segni di tumefazioni e percosse sul corpo, sei punti di sutura in testa, un dente rotto. Il suo legale, Cesare Piratino, non dice se abbia denunciato o meno la Polizia, ma ne chiedono l’immediata scarcerazione. E’ provato e spaventato, appare così a suo padre.
Anche il Parlamento, anzi una parte di esso, è entrato nella vicenda con la percezione chiara che un eccesso di potere e di strumenti coercitivi stia caratterizzando sempre di più l’operato della polizia. Una deriva pericolosa, ormai sistematica, che sembra non essersi sedata neppure sotto l’attenzione dei media a seguito dei casi più scabrosi della cronaca. I radicali chiedono un‘indagine sul comportamento della polizia, così sproporzionato rispetto a qualsiasi azione compiuta dai fermati, peraltro incensurati. Soprattutto evidenziano la necessità di rivedere in toto la gestione dell’ordine pubblico affidata a strumenti e modalità assolutamente superati, non da ultimo alla impossibilità di identificare gli agenti - ad esempio con un codice bene in vista sul casco - quando sono in azione. L’anonimato garantisce immunità.
Anche il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, senza entrare nel merito della vicenda e delle responsabilità, si dice perplesso di fronte alla dinamica di tutta la vicenda, al silenzio terribile in cui è stato lasciato un incensurato in carcere e alla modalità con cui è stato fermato. Una normalizzazione della violenza che apre scenari preoccupanti per i cittadini e alcuna rassicurazione di tutela. E’ rimasto soltanto il sindaco di Roma Alemanno a ricordare, e forse ce n’è bisogno, che i poliziotti ci difendono. Paola Frassinetti, vicepresidente della commissione Cultura e Sport della Camera, presenterà un'interrogazione al ministro degli Interni per fare chiarezza. Tutti la vogliono. Il consigliere comunale Athos De Luca chiede al Comune di costituirsi parte civile "qualora si riscontrassero responsabilità e abusi, non accettabili comunque, neanche se il ragazzo avesse partecipato ad eventuali incidenti post-partita".
Stefano Gugliotta non è diffidato, è incensurato e al massimo ha preso qualche multa in motorino. Quale che sia il reato che gli viene contestato, gli abusi ci sono già stati e sono ben evidenti sul video mandato A chi l’ha visto. Mentre lui viene portato in carcere con tanta veemenza, numerosi teppisti da stadio rimangono in libertà per la prossima partita e per popolare la prossima curva. La solerzia delle divise con loro sembra sparire.
Stefano Gugliotta e’ stato obbligato a firmare un foglio in cui rinunciava a cure supplementari, (solo dopo sostituito con uno corretto); nessuna lastra gli è stata fatta per verificare lo stato delle lesioni alla schiena e nessuno sa cosa abbia fatto quella notte. Mentre la Questura promette di fare chiarezza, Stefano va portato fuori da Regina Coeli. Perché possa testimoniare eventuali abusi. Perché se un ragazzo come Cucchi, che aveva commesso un piccolo reato, è morto in quel modo e se l’impunità dei poliziotti in Italia è un confermato dogma di fede, si deve avere paura. La famiglia di Gugliotta ha paura. E quale genitore, o fratello, o sorella, non l’avrebbe guardando quel video?
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di Mario Braconi
Chi lavora per una grande azienda è probabilmente assuefatto allo spettacolo poco edificante delle moderni corti di blasonati consulenti "strategici", tutti presi a sussurrare le loro presunte “ricette miracolose” direttamente nelle orecchie dei vertici direttivi. Talora i loro costosi consigli servono a giustificare a posteriori decisioni già prese in altre sedi, più frequentemente costituiscono una summa di ovvietà ben confezionate.
Nei rari casi in cui aggiungono veramente valore, lo fanno al prezzo di mortificare l'impiego e lo sviluppo di risorse già inquadrate all'interno degli organigrammi aziendali e di un incremento di costi esponenziale. Secondo una stima molto benevola nei confronti dei consulenti, il costo di un'ora del lavoro di una di codeste persone "venute di cielo in terra a miracol mostrare" è 10 volte superiore alla retribuzione oraria di un quadro aziendale responsabile di una funzione.
Una cosa è certa: una volta saldata la fattura, spesso tutto quello che il cliente si ritrova tra le mani è un'interminabile presentazione in PowerPoint, costituita da decine e decine di slide (anche se ai piani alti, dove si è adusi allo sproloquio "in english", talvolta si preferisce parlare, in modo assai civettuolo, di "tavole").
Sembra comunque che il programma comprato da Microsoft dalla Forethought nel 1987, dopo aver saturato il mondo corporate, abbia finito per occupare manu militari anche la Difesa degli Stati Uniti d'America: in un documentato e godibilissimo pezzo pubblicato sul New York Times lo scorso 26 aprile, Elizabeth Bumiller spiega come, se il Segretario alla Difesa Robert Gates riceve i suoi briefing quotidiani in PowerPoint, il generale David Petraeus (delegato per le guerre in Iraq e Afghanistan) ha condotto numerose presentazioni elettroniche usando l'infernale strumento. E anche Richard H. Holbrooke, rappresentante speciale del Governo USA per l'Afghanistan e il Pakistan, quando si è recato nelle zone di guerra si è dovuto sorbire delle presentazioni in PowerPoint. Idem per i militari italiani, spesso assediati, oltre che dai talebani, anche da sconvolgenti presentazioni elettroniche a stelle e strisce cui ogni tanto viene perfino aggiunto un galvanizzante commento musicale…
Tutto andava bene, finché il Generale Stanley A. Mac Chrystal, capo delle forze americane e NATO in Afghanistan, si è visto comparire sullo schermo una slide grottesca che aveva l'ambizione di spiegare in un unico diagramma l'intera gamma delle forze in campo e dei fenomeni da controllare per comprendere e vincere la guerra: di fronte a quel delirio di frasi schematiche interconnesse da centinaia di frecce impossibili da seguire, si dice che il militare abbia rinunciato non si sa se a vincere la guerra o a capire lo specchietto (due obiettivi della stessa difficoltà, in effetti).
Come nota Richard Engel, capo dei Corrispondenti Estero della NBC, che già a dicembre dello scorso aveva messo le mani sulla slide dello scandalo, "mentre per alcuni comandanti militari è geniale - in quanto rappresenta un nuovo approccio alla guerra, che guarda oltre alla semplice eliminazione fisica dei nemici - per altri, essa è il culmine del percorso folle che gli Stati Uniti hanno intrapreso nel nome della sicurezza nazionale.
I suoi detrattori sostengono che lo schema rappresenti una forma di violenza contro ogni logica. Non a torto, infatti, pensano che occupare un paese straniero per garantire sicurezza in patria sia un processo costoso, lungo e che conduca solo ad illogiche aberrazioni a forma di piatto di spaghetti. Questo è quanto accade quando a persone intelligenti viene chiesto di dare una risposta alla domanda errata".
Scorrendo la pagina dei commenti alla redazione del quotidiano newyorkese, si può concludere che, secondo la gran parte dei lettori, il problema non sia tanto lo strumento tecnologico in sé, quanto il modo in cui viene usato. Di questo stesso tenore anche la lettera che al NYT hanno inviato Peter Norvig (capo della ricerca per Google) e Stephen M. Kosslyn (professore di Psicolgia ad Harvard ed autore di un libro sui "trucchi" psicologici da impiegare per rendere le presentazioni elettroniche più efficaci): "Un'immagine digitale che si accende su uno schermo è quanto di meglio vi sia per rappresentare oggetti bidimensionali (statistiche, foto e mappe), ma una realtà complessa viene comunicata molto meglio con un rapporto scritto da distribuire all'uditorio, cui dovrebbe seguire una discussione."
C'è però anche chi, come Edward Tufte, statistico ed esperto di "information design" (ingegneria dell'informazione), la pensa in modo diametralmente opposto: nel suo pamphlet "L'uso cognitivo di PowerPoint" (2003), il professore rilevava che il programma della suite office "costringe le persone a mutilare i dati oltre i livelli utili alla loro comprensione." Ad esempio, obbliga ad esprimere concetti in "bullet point" che contengono fino ad un massimo di circa quaranta parole -leggibili in otto secondi. In realtà, il fatto stesso di disgregare un ragionamento in brevi frasi lascia allo speaker l'onere (e il rischio) di collegare tra loro i vari punti. Inoltre, lo strumento è basato su “un'ossessione medievale per la gerarchia di concetti” - esistono infatti 4 o 5 modi per segnalare l'importanza relativa di un’idea rispetto alle altre: ordine di apparizione, rientro più o meno accentuato, stile e formato dei bullet point.
Le conclusioni di Tufte coincidono con i risultati dell'indagine NASA sull'esplosione dello Shuttle del 1 febbraio del 2003: certo, la schiuma del rivestimento della carlinga è stata la causa dell'incidente, ma una parte della colpa va al prodotto Microsoft: la NASA, infatti, ai tempi dell'incidente, faceva tutte le sue presentazioni in PowerPoint. Secondo la ricostruzione della commissione NASA (sposata anche da Tufte) la confusione ingenerata dal modo in cui il problema tecnico era stato rappresentato ha causato una sua sottovalutazione e, in ultima analisi, ha contribuito alla morte dei sette membri dell'equipaggio. Benché PowerPoint abbia certamente dei difetti ed in fondo incoraggi uno stile cognitivo superficiale e mercantile, non sembra poi del tutto onesto attribuirgli tutto questo potere. In fondo le sue storture sono quelle prodotte da un sistema sempre più commerciale e sempre più nemico della conoscenza autentica.
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di Mariavittoria Orsolato
La prossima domenica cade l’annuale festa della mamma, una festività voluta nel 1870 dalla pacifista Julia Ward Howe ma ufficializzata nel 1914 dal presidente americano Woodrow Wilson. Che questa festa sia appannaggio dei fiorai, e più in generale di quel grande mondo consumistico da cui siamo quotidianamente fagocitati, è una realtà comprovata; ma il Mother’s day nasce soprattutto come giornata per ricordare l’importanza fondamentale della figura materna. “Schiava degli schiavi”, come direbbe John Lennon o, molto più semplicemente, pilastro e collante di quella famiglia tanto celebrata da Chiesa e Governo.
Dove stia quindi la notizia, ce lo spiegano l’undicesimo rapporto su “Lo stato delle madri nel mondo” realizzato da Save the Children e il nuovo rapporto Fondazione Cittalia-Anci Ricerche: essere madri in Italia significa inevitabilmente impoverirsi. I numeri emersi dalle statistiche dicono, infatti, che ben il 15,4% delle coppie con un bambino sotto i 18 anni vive in condizioni di indigenza, percentuale che sale al 16,5% in presenza di 2 figli, di cui almeno uno minorenne, e al 26,1% se i figli - maggiorenni o meno - diventano 3.
La fotografia è quella di un Paese dove esiste un bonus bebè e si organizzano plateali family-day, ma non si è in grado di migliorare le condizioni di vita delle madri e dei bambini: l’Italia infatti scivola dal 16° al 17° posto nella classifica mondiale quanto ad assistenza statale della maternità. La situazione è sicuramente bizzarra se si pensa a quante energie sono state profuse per invogliare alla creazione di nuovi nuclei familiari; ma il bandolo di questa triste matassa è proprio da ricercare nel ruolo delle istituzioni.
Costrette in molti casi ad abbandonare il lavoro al momento della gravidanza, le mamme italiane vengono coccolate e iper-protette al momento del parto, poi dallo Stato più nulla: l’enorme divaricazione tra assistenza sanitaria alla nascita - di per sé considerata comunque ottima a livello internazionale - e l’assenza pressoché completa di servizi che accompagnino il bambino nella crescita, sta infatti alla base del depauperamento di circa 1.678.000 madri.
Partendo dall’impossibilità d’iscrivere il figlio ad un asilo nido (i costi sono solitamente proibitivi per le coppie a basso reddito), fino ad arrivare all’organizzazione del tempo scolastico e domestico, tutto rema contro la possibilità di emancipazione economica della donna, troppo spesso costretta a “fare la mamma a tempo pieno” e di conseguenza impossibilitata a contribuire al reddito familiare.
E’ così che il 16,3% delle mamme in coppia con figlio piccolo paga in ritardo almeno una delle bollette di casa, mentre il 10,3% non riesce a sostenere regolarmente le spese scolastiche dei figli: la povertà relativa, quella che tocca i nuclei con un reddito inferiore ai mille euro al mese, interessa infatti più spesso le famiglie in cui la donna non lavora o rinuncia a lavorare fuori casa.
Quella evidenziata da Save the Children è un’anomalia tutta italiana, la realtà extracomunitaria ne rimane fuori quasi del tutto dal momento che il lavoro femminile, connesso com’è al rinnovo del permesso di soggiorno, ha incidenza quasi totale tra i residenti presi in considerazione dell’indagine. Non è nemmeno un problema delle madri single, solo il 7,5% del totale; ben l’86,3% delle madri costrette a tagliare sul cibo, a trascurare visite mediche e spese scolastiche vive in coppia con il padre dei suoi figli o con un secondo marito.
Inutile dire che nel resto d’Europa le cose sono ben diverse: lì il disagio economico inizia a farsi sentire solo dopo l’arrivo del terzo figlio ma è comunque compensato dagli innumerevoli servizi che le istituzioni mettono a disposizione dei genitori, dal tempo pieno scolastico agli asili aziendali. In Italia il welfare domestico - deputato ufficialmente allo Stato - è invece affidato alla rete familiare composta da nonni, zii e parenti di vario grado (necessariamente in pensione): dove questi sono arzilli, è più probabile che la madre possa dedicarsi al lavoro retribuito.
Insomma, la decisione di diventare madre nel Belpaese non corrisponde tanto ad una realizzazione della propria femminilità, ma corrisponde all’accettazione di una sfida quotidiana, ad una lotta contro il tempo e il conto in banca, ed ad inevitabile frustrazione personale che nessun bonus bebè può alleviare. Non stupiamoci dunque se il nostro Paese è passato dal baby-boom alla crescita zero.
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di Rosa Ana de Santis
Il 9 maggio la pillola anticoncezionale compirà negli Stati Uniti i suoi primi 50 anni. Una rivoluzione culturale dirompente che nel nostro Paese, numeri alla mano, sembra essersi interrotta o non essere mai iniziata. In Italia si abortisce, si ricorre alla pillola del giorno dopo e le donne sono all’ultimo posto per l’uso di contraccettivo orale. Dopo anni di dosaggi sempre più bassi si è arrivati addirittura alla pillola tutta naturale. Segno di una medicina che vuole essere sempre più attenta alla salute delle donne e che esprime una maggiore prudenza, di quanta non ce ne fosse agli inizi, sui rischi degli estrogeni.
La pillola ha comunque rappresentato un’opportunità fondamentale per l’emancipazione delle donne, finalmente libere di autogovernare il desiderio di maternità senza dover mediare qualsiasi decisione con il proprio partner. La solitudine di un gesto che poteva restituire ad ogni singola donna l’autonomia della progettualità, di decidere del proprio corpo e della maternità senza imposizioni che fossero familiari o di autorità pubbliche. Il riconoscimento ufficiale, dopo secoli d’imperio maschile, di un’emancipazione nel letto e nella società.
La trasmissione di questa libertà non è stata però così netta ed efficace come previsto. Qualcosa si è incrinato ed è saltato in parte il patto generazionale tra madri e figlie. Il pensiero femminista era certo che, anche grazie alla pillola, la liberazione della sessualità femminile dalla riproduzione e dall’egemonia del sesso maschile sarebbe stata totale. Eppure, ancora oggi la metà delle gravidanze negli Stati Uniti non è programmata. Un’ingenuità pensare che siano tutte donne disinformate e sprovvedute. Basta arrivare ai dati italiani poi, offerti dalla Sigo - la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia - per rendersi conto ancora meglio di quanto elementi storico-culturali possano intervenire con potere condizionante sulla diffusione della pillola anticoncezionale, anche in un momento in cui notizie e informazioni circolano in abbondanza. Solo il 16% delle donne italiane ha la pillola sul comodino. Numeri bassissimi rispetto agli standard europei. La differenza tra il Nord e il Sud del nostro paese è molto forte.
Ancora più difficile da credere quello che accade nel mondo delle giovani adolescenti alle prime esperienze sessuali. Il resoconto di moltissimi sportelli di assistenza psicologica nelle scuole medie inferiori e superiori della Capitale racconta di penosi rimedi fai da te. Dal bidé di Coca Cola a quello con il dentifricio. Il tam tam di queste ricette, che assomigliano pericolosamente al prontuario del medioevo femminile, circola velocemente tra le giovanissime. Le ragazze la pillola la conoscono, ma non la usano. Vuoi per la sopravvivenza di pregiudizi sul peso e sulla pericolosità, a suo tempo messi in circolo dalla controriforma cattolica e dai medici obiettori, vuoi perché la vivono come un’invasione. Una sorta di medicina obbligata per il semplice fatto di essere donne che proprio non va giù.
Non è stato sufficiente trovare il rimedio farmacologico, peraltro importante anche nella cura di varie patologie femminili, per affrancare in via definitiva la sessualità delle donne dalla riproduzione. La valutazione delle contingenze culturali, sociali ed economiche è passata in secondo piano con la speranza che il farmaco bastasse all’esercizio dell’autodeterminazione femminile. Ma le cose non stavano proprio così e i condizionamenti culturali hanno avuto un’influenza molto forte.
Se il ricorso alla contraccezione di emergenza rimane preferibile all’assunzione quotidiana della pillola e se questo non ha a che vedere solo con donne disinformate e prigioniere dei maschi, è evidente che si tratta di un problema che attiene a un rifiuto della pillola e alla percezione della contraccezione chimica come una medicina per le donne. Se fosse un autentico oscurantismo religioso a impedirne in Italia la diffusione, non avremmo nemmeno la pillola del giorno dopo, né il ricorso alla legge 194. Esiste una variabilità culturale nel modo di sentirsi donne, madri e mogli di cui non si può non tener conto e che non può essere ricondotta al solo criterio valutativo dell’emancipazione o della non emancipazione, della cultura o dell’ignoranza.
Sembra che alle nuove generazioni la pillola sia arrivata come il rimedio prescrittivo di un limite. Quello di essere donne e di poter rimanere incinte. Quello di una donna che se la sbriga da sola. Soprattutto un’alterazione della norma naturale che in una cultura come quella italiana, avvinghiata al dogma della natura come criterio di orientamento morale, non poteva che diventare un’extrema ratio consigliata dal ginecologo, piuttosto che un’abitudine scelta autonomamente dalla donna. Questo forse spiega perché sia accettata la pillola del giorno dopo: una violazione dell’ordine naturale giustificata dall’emergenza.
L’idea di un rimedio che togliesse agli uomini in via definitiva ogni ruolo nella decisione della maternità, non funziona evidentemente come formula di emancipazione per le donne italiane. Rimane da stabilire se sia il mito della famiglia a sopravvivere, un’emancipazione incompleta o soltanto un diverso e rispettabile modo di essere donne libere. Il pensiero femminista oggi ha un tema da mettere sotto la lente: la comunicazione interrotta tra madri e figlie, la rottura di un’alleanza generazionale che non ha trasmesso per intero quel patrimonio che è stata la rivoluzione delle donne.
Oggi le figlie di quelle donne sono liberissime di vivere il sesso, di raccontarlo, soprattutto di esibirlo, ma altrettanto decise a privarsi di qualsiasi difesa contraccettiva. Sono le loro madri dicono le statistiche, donne adulte e sposate, a prendere la pillola. Interrogarsi sul perché di una rivoluzione interrotta è quello che va fatto in occasione di un anniversario simbolico così importante come quello della pillola. E alle donne la responsabilità di trovare le risposte.