di Giovanni Cecini

Nel giorno in cui cade il 18° anniversario del primo arresto di Mani Pulite, sembra che l’Italia possa rivivere giorni come quelli, nei quali una classe politica collassava per effetto della montagna di illeciti commessi in ogni comparto della scena pubblica del Paese. Gli scandali sessuali condiscono con un po’ di pepe l’appetito dei gossippari, ma la realtà è ben diversa per chi sa osservare il fenomeno tale e quale è: il persistere di attività illecite nel comparto della pubblica amministrazione, dove concussione, corruzione, abuso d’ufficio e favoritismi di ogni specie sono solo i più lampanti tra i reati mai spariti tra i capi d’imputazione degli amministratori e dei politici italici.

Si sperava che Tangentopoli avesse insegnato qualcosa o quanto meno avesse permesso agli italiani di comprendere a fondo quanto di rivoltante ci sia nell’approfittarsi della cosa pubblica. Per fortuna - e forse anche cosa palese - gli onesti sono sempre maggioranza, anche perché altrimenti i disonesti non saprebbero a chi rubare. Tuttavia, attanagliata in ciascuno di noi c’è sempre l’ombra di una possibile attività illegale. A urlarne la presenza sono due fonti abbastanza autorevoli e differenti tra loro, tanto da dover far suonare più di un campanello d’allarme per coloro che si ostinano a credere che in fondo in fondo quella telefonata al potente di turno è fatta a fin di bene, senza nuocere a nessuno.

Sulle colonne del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia invita a meditare sull’attitudine disonesta dei connazionale, imbevuti di un familismo amorale che si accresce di generazione in generazione, senza scampo a possibili ripensamenti o pentimenti. Da un pulpito diverso, questa volta da un ente censore per antonomasia, come quello della Corte dei Conti, proprio in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario il grido di allarme tocca le stesse corde. Anche qui lo scenario è tutt’altro che rassicurante, se viene indicata come manchevole la stessa Pubblica Amministrazione perché impreparata a combattere le tante piaghe insite nel suo tessuto connettivo.

Forse anche per effetto della gigantesca burocrazia interna ed esterna il cittadino onesto perisce nel mare magno di bolli e scartoffie, mentre il disonesto alla fine non ha troppi problemi a raggiungere il suo basso scopo, perché sa oliare le ruote giuste del farraginoso congegno statale o parastatale. Al cospetto del furfante lo Stato non sa essere inflessibile e drastico, mentre il cittadino perbene, che segue le tortuose regole molto spesso ne è vittima, perché le trova ostiche e illogiche. Va da sé che il cerchio si chiude, proprio perché la morale della favola è che solo seguendo l’illecito si vive e si procede nel proprio cammino, tanto che la raccomandazione, la spintarella e ogni altra possibile diavoleria, per dare corso alla propria attività, diviene cosa quotidiana, normale o addirittura corretta, perché svolta per necessità di sopravvivenza.

Ecco quindi il proliferare di atti o fatti quotidiani dell’italiano qualunque che solo apparentemente non danno adito a irregolarità, ma che sommati tra di loro rendono le casse dello Stato o degli Enti locali più povere e mettono in soffitta il bene pubblico. Chi non ricorre all’amico che lavora in quel determinato ufficio o che intesta la casa al mare alla figlia per un personalissimo e quindi egoistico interesse, è uno sciocco che crede ancora al senso civico e al rispetto per le istituzioni come valori un po’ come i fanciulli con Babbo Natale.

In Italia si vive molto spesso così, non ci si può nascondere dietro un dito; ed è proprio per questo motivo che alcune piaghe congenite nel fare popolare sono immuni da qualsiasi possibile anticorpo, di cui hanno accennato le relazioni alla Corte dei Conti. Quest’ultima ha rivolto l’indice contro tutti quei settori dove si controlla poco e male, fonti prime di guasti all’intero sistema-paese. In risalto è quindi emersa la ricorrente nociva attività dei lavori pubblici e della mala sanità, dove tra sprechi, opere inutili e interventi non necessari, si rosicchia gran parte dei bilanci nazionali, senza un vero perché al di fuori di riempire le tasche dei cacciatori di commesse e di quella fetta di politici spregiudicati, che rappresentano nelle sedi preposte solo il peggio dell’italiano medio.

La risposta a tutto questo non è semplice né immediata, tanto che la rivoluzione dovrebbe partire dal basso, per far tornare nei suoi propri binari la correttezza e la moralità. L’astenersi dal fumare dove non si può, evitare di parcheggiare in doppia fila, fare la raccolta differenziata, non copiare un compito a scuola, sembrano piccoli gesti, ma rappresentano anche il minimo germe che può fare la differenza. Via via offrirebbero senso a quel principio per il quale ci si prepara meglio a un concorso, sperando nelle proprie capacità senza aiuto della grazia ricevuta o nel garantire un progetto impeccabile, utile ed economico sotto ogni punto di vista, rispetto agli scandali colossali di cui siamo pieni.

L’Italia si candida agli Europei del 2016 e Roma alle Olimpiadi del 2020? C’è già chi pregusta le commesse, mentre altri tremano solo all’idea di ripetere gli scempi e le brutture di quel che fu Italia ’90 e i recenti Mondiali di nuoto con le loro colossali mostruosità. La speranza è e rimane sempre che il senso di sdegno venga percepito e possa mutare gli animi, perché altrimenti si continuerà imperterriti nel crogiolarsi di fronte ai vizi altrui, senza dare peso alle tante e pesanti leggerezze di cui siamo, narcotizzati dal sistema, artefici.

di Mariavittoria Orsolato

Che l’Italia sia uno dei campioni del cattolicesimo lo dicono i numeri e lo testimonia al meglio quella Città del Vaticano che da due millenni ci portiamo in seno alla capitale. Che però l’affezione alla chiesa non sia più quella dei tempi d’oro, lo si vede dai banchi vuoti che ogni domenica spogliano le navate di quella che è l’esperienza topica del cristiano, ovvero la messa. Le ragioni di questo fenomeno sono legate all’inevitabile evoluzione della società e dei costumi, alla discordanza di pensiero riguardo a temi civili ed etici o al semplice disinteresse: essere laici, atei o agnostici è sempre stata più che altro una scelta personale, che all’atto pratico non implica conversioni formali come nei casi di affiliazione ad un’altra religione.

Per tutte queste persone i sacramenti impartiti durante l’infanzia sono più che altro ricordi di enormi abbuffate, parenti e regali e non rivestono più il significato originario di missione apostolica e comunione con Dio. Nonostante ciò, tutti coloro che pur non praticando sono stati battezzati, risultano nei registri vescovili, vengono perciò computati in quel 96% di popolazione cattolica e, secondo il Catechismo Ufficiale della Chiesa “non appartengono più a se stessi […] perciò sono chiamati […] a essere obbedienti e sottomessi ai capi della Chiesa”.

Vista da quest’ultima prospettiva, l’appartenenza alla confessione cattolica è un legame inscindibile con un’autorità che per quanto sia di matrice morale ha un’innegabile margine di azione temporale.
Per questo da circa vent’anni l’UAAR (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti, di cui è presidente onorario l’astrofisica Margherita Hack) sta promuovendo iniziative volte a promuovere la non aconfessionalità dello Stato e delle sue istituzioni, arrivando ad ingaggiare una battaglia legale con il Vaticano per il riconoscimento formale della volontà di uscire dalla Chiesa cattolica.

Nel 1995, dopo aver ottenuto solo risposte evasive dalle autorità ecclesiastiche, gli azionisti dell’UAAR lanciavano un appello a Stefano Rodotà, allora garante per la tutela della privacy, in cui chiedevano espressamente di intervenire nei confronti delle parrocchie refrattarie alla cancellazione del battesimo. Dopo 4 anni, nel 1999 arriva la risposta del garante che, pur riconoscendo il fatto che il battesimo è incancellabile in quanto fonte di un fatto storicamente avvenuto, decreta la possibilità di far annotare la personale volontà di apostasia e di non essere quindi più formalmente “figli della chiesa”. Da quel momento in poi, l’UAAR ha mobilitato una campagna permanente per informare sulla pratica dello sbattezzo e combattere quel nicodemismo così diffuso entro i nostri confini geografici.

Il meccanismo codificato dalla giurisprudenza canonica e statale è di una semplicità estrema: è necessario conoscere la parrocchia nella quale si è ricevuto il battesimo ed inoltrarle una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui si esplicita la propria volontà di uscire formalmente dalla Chiesa cattolica - è inoltre possibile scaricare i moduli dal sito http://www.uaar.it/laicita/sbattezzo. Entro 15 giorni il parroco è tenuto per legge a rispondere con una lettera in cui conferma di aver annotato sull'atto di battesimo e/o sul registro dei battezzati quanto richiesto dallo “sbattezzando”. Una volta avvenuto l’atto formale, questo comporta per il richiedente l’esclusione da tutti i sacramenti, l’impossibilità di fungere da padrino o madrina e la privazione delle esequie ecclesiastiche qualora non ci sia stato un pentimento previo alla morte.

Ad oggi non sono ancora disponibili le cifre esatte sulla diffusione del fenomeno e in molti hanno già bollato questa rivendicazione come una goliardata anticlericale-anarchico-comunista ma la pratica dell’apostasia significa soprattutto rivendicare la propria identità. Pensiamo infatti a tutti quei gruppi di persone che vengono ben poco velatamente osteggiati dalle istituzioni vaticane, come gli omosessuali, le donne e il loro corpo, i conviventi, i divorziati: per questi soggetti il battesimo è un’incongruenza riscontrabile in ogni pronunciamento dottrinale e in tutte quelle chiusure dogmatiche che impediscono ogni tipo di partecipazione attiva alla comunità cristiana.

Sbattezzarsi è anche una presa di posizione politica di fronte agli atteggiamenti d’ingerenza cui il papa ed i vescovi ci hanno abituato: dalla condanna del profilattico espressa un anno da fa da Benedetto XVI, alle vere e proprie dichiarazioni di guerra che hanno interessato il referendum sulla legge 40 sono molti gli esempi in cui buona parte della popolazione italiana, pur essendo battezzata, ha intimamente o attivamente dissentito dai dettami di San Pietro.

Qui non si vuol certo fare l’apologia dello sbattezzo, ognuno ha il diritto di credere in ciò che gli è più congeniale e di comportarsi di conseguenza. Certo è, però, che secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 239/84, l’adesione a una qualsiasi comunità religiosa deve essere basata sulla volontà della persona ed è molto difficile che questa possa essere riscontrata nei bambini dai 3 ai 5 mesi; se a questo si aggiunge che per la legge 196/2003, l’appartenenza religiosa è considerata un dato personale sensibile - esattamente come l’appartenenza sindacale e politica, la vita sessuale e l’anamnesi medica - ben si capirà come mai oggi l’apostasia formale sia un esigenza sempre più sentita.


 

di Rosa Ana De Santis

La storia di Stefano Cucchi ha sempre di più i contorni di una vicenda cupa, occultata nell’omertà colpevole delle istituzioni coinvolte. L’indagine per la verità va avanti e dalla vetrina del TG1 è finalmente riapparsa la lettera che era stata sottratta, lettera che Stefano ha scritto la sera prima di morire. A leggerla è Ilaria, la sorella, che con parole misurate e toni pacati lancia argomenti e riflessioni che pesano come pietre. In quelle poche righe, scritte con uno stampatello incerto, c’è una richiesta di aiuto, indirizzata a uno degli operatori della comunità CEIS presso cui era in cura, Stefano racconta lo sconforto e lo smarrimento, fino all’ultima preghiera: “Rispondimi”. Quella lettera non è mai arrivata ed è stata sottratta dalla scatola degli effetti personali consegnata alla famiglia.

Le discordanze tra il primo verbale redatto dalla polizia giudiziaria e la lista apposta sulla scatola ritirata da Regina Coeli, tra mille difficoltà ha portato al riscontro dell’ennesima anomalia. La lettera di Stefano appare e scompare. Perché - questa la paura - con quelle parole diventa impossibile difendere la tesi del paziente silenzioso, del detenuto ribelle, del figlio e del fratello che non vuole e non ha bisogno del conforto e della vicinanza dei propri affetti familiari. E’ stata la testimonianza di una vice sovrintendente della Polizia Penitenziaria ad aver permesso di scoprire che la lettera misteriosa esisteva, che non era mai stata recapitata alla Comunità e che la famiglia - questo dicono i tentativi di farla sparire - non doveva leggerla.

Diventa sempre più grave la posizione dei sanitari dell’Ospedale Pertini. Oltre all’ipotesi accusatoria sulla manomissione delle cartelle cliniche del paziente scomodo, si aggiunge la conferma di un altro tassello finora solo ipotizzato. E’ stato impedito a Stefano Cucchi di avere qualsiasi contatto con l’esterno, di chiedere aiuto e, probabilmente, questo il vero timore del braccio della giustizia che ha dato disposizioni ai medici coinvolti, di poter raccontare chi l’avesse ridotto quasi immobile su un lettino. Così quella famiglia lasciata davanti ad un portone ad attendere autorizzazioni fantasiose non sembra più un’assurdità o un errore di burocrazia e disorganizzazione  di poteri e competenze, come volevano farci credere. Il piano è stato perfetto, il meccanismo degli effetti - raccontati come collaterali - ben congegnato.  Stefano doveva morire. Nulla bisognava tentare per salvarlo.

Presto la commissione presieduta da Ignazio Marino depositerà la propria relazione al Presidente del Senato. Nel frattempo le indagini sugli agenti della polizia penitenziaria vanno avanti e il legale della famiglia si augura che l’accusa di omicidio preterintenzionale tenga. Il ricovero di Stefano è avvenuto per le conseguenze di un pestaggio e i rilievi autoptici dicono che di antecedente al fermo e all’arresto ci sono solo delle ernie. Che le fratture riscontrate sul corpo Stefano fossero mortali oppure no, diventa comunque irrilevante rispetto al fatto che quelle lesioni dolose sono diventate una condanna a morte, grazie al concorso del comportamento negligente avuto dai medici.

L’evidente frammentazione delle responsabilità non dovrebbe tradursi in uno sconto di pena per nessuno dei protagonisti, o ancora peggio in un’assoluzione di fatto. Perché il rischio insidioso è proprio questo. Che le colpe di tanti portino ad una paralisi delle indagini e delle condanne e che alla fine, dopo le violenze subite da Cucchi e il lettino della vergogna dell’ospedale in cui è stato abbandonato, si arrivi alla solita palude giudiziaria.

Sarà più facile credere che Stefano sia morto quasi da sé. Per vulnerabilità personale o meglio ancora per la droga, come aveva già teorizzato il Sottosegretario Giovanardi. Per Gabriele Sandri si parlò del mondo dei tifosi e del calcio, per le violenze di Genova durante il G8 si parlò di black block, per Aldovrandi e Cucchi si parla di droga. E’ comodo deviare l’attenzione dell’opinione pubblica, mentre ogni giorno si perde un pezzetto di verità e il potere immune fa la conta delle proprie vittime, inferiore a quella delle proprie colpe.

di Mario Braconi

A novembre dello scorso anno, Andreas Lebert, direttore del periodico di moda tedesco Brigitte, ha deciso un cambiamento di rotta che nel suo genere può essere considerato epocale: la "sua" rivista si sarebbe presto trasformata in una "zona franca dalle modelle". "Per tanti, troppi anni ci siamo dovuti servire di Photoshop per rendere le ragazze (delle foto) un po' più rotonde, specie sulle cosce e sul décolleté: una cosa perversa e insana, che per di più ci allontanava dalla nostra lettrice-tipo." Nel corso della conferenza stampa che annunciava la singolare decisione, Lebert fece una lucida quanto amara considerazione basata su dati statistici: se è vero che le donne "vere" pesano mediamente quasi un quarto di più delle modelle sulle pagine delle riviste che sfogliano, non resta che concludere che "l'intera industria della moda è anoressica". Alle parole sarebbero seguiti rapidamente i fatti: dal gennaio del 2010, Brigitte avrebbe mostrato foto di "persone vere", meglio ancora  di lettrici del suo giornale, cui veniva anzi chiesto di proporsi inviando una foto accompagnata da una breve nota biografica.

A dispetto dell'ironia che Stephanie Marsh del Times di Londra riserva al modo enfatico con cui i media hanno riportato le decisioni editoriali di Lebert, definendole "coraggiose", la scelta del direttore di Brigitte è felice, sana, politicamente ed esteticamente condivisibile. Si tratta, in fondo, di una battaglia culturale di nicchia, ma non irrilevante, di cui sarebbe ingeneroso disconoscere il valore. Tutti coloro che provano un brivido spiacevole di fronte alla bellezza estrema, fredda e vagamente superomistica dei modelli in intimo Armani sui cartelloni che campeggiano sui palazzi o sugli autobus in città non potranno che plaudire ad iniziative come quella di Lebert. D'accordo: il coraggio - quello vero - è altra cosa, ma è giusto riconoscere il merito di chi combatte anche una piccola battaglia contro l'immagine femminile stucchevole, stereotipata, frustrante ed assurda, tanto insistentemente imposta dai media; la bambola perfetta, seni rotondi, labbra carnose, sorriso ebete o broncio da cane da compagnia - nell'un caso e nell'altro, pura appendice maschile, oggettivazione brutale del suo desiderio sessuale o della sua volontà di potenza.

Certo, la battaglia di Lebert difficilmente riuscirà a superare i confini della Germania, Paese piuttosto impermeabile ai richiami suadenti delle sirene della moda: secondo Sue Evans, redattrice di lungo corso delle passerelle per il sito specializzato Worth Global Style Network, citata dal Times, "non esiste un marchio di abbigliamento tedesco veramente originale. Per lo più si tratta di roba scialba 'da mamma', di capi prodotti per signore di mezza età" - giudizio ingeneroso, su cui indubitabilmente pesa il consolidato pregiudizio che vuole i tedeschi rigorosi, rigidi ed ineleganti. Né si può dire che la voce di Brigitte, un periodico la cui lettrice media ha un'età vicina ai cinquanta, sia una testata femminile presa molto sul serio fuori dai confini del paese in cui viene pubblicata.

Come se non bastasse, l'iniziativa di Brigitte è stata ridicolizzata da Karl Lagerfeld, il “mitico” direttore artistico delle maison Chanel e Fendi: in modo non sorprendente, il settantaseienne stilista e fotografo tedesco, nonché convinto partigiano dello sterminio degli animali "da pelliccia", ha commentato l'iniziativa con una dichiarazione sgradevole quanto qualunquistica: "Brigitte è diventato ostaggio delle sue lettrici - madri grasse sedute davanti alla TV con un pacchetto di patatine fritte che blaterano su quanto siano brutte le modelle". E' quanto meno ironico sentire discettare di bellezza uno come Lagerfeld, una mummia grottesca - oltretutto vestita in modo ridicolo - uno che è stato capace di perdere oltre 40 chili di peso corporeo in poco più di un anno non per motivi di salute, ma per soddisfare la sua irresistibile voglia di "vestire abiti disegnati da Hedi Slimane".

Eppure, a dispetto dello scetticismo se non dell'aperta ostilità del mondo della moda, la scommessa di Lebert sta pagando: il primo numero del "nuovo corso" di Brigitte ha venduto quasi ottocentomila copie (+6,4%); oltre 10.000 lettori si sono fatti vivi con la redazione inviando lettere o email entusiaste. Resta un neo: nonostante i proclami iniziali, anche se le donne di bellezza normale sono finalmente uscite qualche ora da uffici locali ospedali e case per vestire i panni delle fotomodelle, finora sulle pagine di Brigitte non sono state avvistate bellezze “rotonde”. Un esito deludente, che taglia un po' le unghie al claim militante della "vera bellezza": le statistiche, infatti, dicono che la donna media tedesca (come del resto quella inglese) negli ultimi anni ha messo su qualche chiletto.

Da questo punto di vista, la marca di cosmetici Dove del gruppo Unilever (non a caso inserzionista di peso di Brigitte) dimostrò una certa audacia commerciale con una campagna lanciata ormai 5 anni fa, chiamata "per la bellezza autentica". In essa figuravano sei donne normali, alcune gradevolmente soprappeso, in abbigliamento intimo ordinario: un messaggio pubblicitario ironico, intelligente e gradevole, con l'ulteriore vantaggio di contenere i germi di una campagna sociale, il cui fiore all'occhiello è un "Fondo Dove per l'autostima" con l'ambizioso obiettivo di contribuire "a liberare la generazione futura dagli stereotipi di bellezza autolimitanti."

Quando il messaggio commerciale e quello sociale sono così intimamente intrecciati è molto difficile confidare nella buona fede degli estensori. E’ lecito (e doveroso) domandarsi - come fa la Evans - se Brigitte non stia in realtà sostituendo uno stereotipo con un altro, o se la Unilever non stia semplicemente cercando di vendere qualche saponetta in più. Ma è sempre un fatto positivo quando il potere dei media viene usato (anche) per contrastare le perversioni più crasse e mortificanti della società dei consumi.

di Alessandro Iacuelli

C'era una volta un'azienda cinese di elettronica, la Shenzhen Great Loong Brother Industrial, che era però un'azienda un po' diversa dalle centinaia di migliaia di fabbriche cinesi che oramai abbiamo imparato a conoscere. Infatti, mentre queste ultime si dedicano al copiare i prodotti occidentali, da quelli tessili a quelli ad alta tecnologia, e a riprodurli su grande scala a prezzi ridottissimi, la Shenzhen è una delle poche che pensa a prodotti nuovi, realmente innovativi, con i quali tenta d’invadere il mercato mondiale. Certo, sempre d’invasione si tratta, e la politica economica cinese è tutta qui, ma alla Shenzhen non hanno mai voluto copiare i prodotti occidentali e, con il fior fiore d’ingegneri che hanno a disposizione, non molto tempo fa pensarono a qualcosa di assolutamente innovativo. Costruirono un apparecchio, un gioiellino tecnologico, che chiamarono P88. Di certo un nome che è solo una sigla e non uno di quei nomi destinati a rimanere nella memoria degli acquirenti di consumer electronic, affamati di tecnologia.

Così, nel 2009, il capitano dell'azienda, l'ingegnere Huang Xiaofang, presentò il prodotto all'Internationale Funkausstellung, fiera internazionale dell'elettronica di Berlino. Il prodotto piacque a molti e qualcuno si mostrò interessato ad importarlo in Europa, anche perché era la prima volta che i cinesi non proponevano la scopiazzatura di un prodotto occidentale. Nel frattempo, oramai da sei mesi, il P88 è in vendita in tutta la Cina. Con buoni risultati. Ma cosa fa il P88? Cos’é?

Non è un telefono, non è un computer portatile, ma ci si avvicina molto. E' più grande di un palmare, ha all'incirca le dimensioni di un lettore di e-books, ma ha di più: è touch screen, con tanto di tastiera che appare sullo schermo, si connette a internet, permette la navigazione, la visione di filmati, l'ascolto di musica e la lettura di documenti. Insomma, non ha le capacità di calcolo di un computer, non ha le caratteristiche di un I-Phone, poiché non è stato pensato per essere un telefono, ma si tiene in mano, ha uno schermo a colori leggibile e permette di navigare in rete. Mica poco.

Un lettore un po' superficiale potrebbe a questo punto esclamare che questa descrizione assomiglia molto a quella dell'iPad, il tablet presentato a San Francisco da Steve Jobs, come prodotto rivoluzionario di casa Apple. In realtà le differenze ci sono, nel bene e nel male. Anche l'iPad si tiene in mano, ma pesa decisamente meno di un P-88 marchiato Shenzhen, e per un dispositivo portatile il peso è molto importante. La batteria dell'iPad durerebbe, secondo le dichiarazioni di Apple, (forse un po' esagerate perché si tratterebbe di un vero record) 10 ore, contro l'ora e mezza del P88, ed anche questo è una caratteristica cruciale per un prodotto portatile. Di contro, il P88 ha uno schermo più grande, il che è una delle cause del maggiore peso, ha molta più memoria dell'iPad ed è dotato di porte USB, che invece il tablet californiano non ha. Infine c'è il design e, com’è noto, Apple è l'unica azienda elettronica che mette il design tra i suoi principali obiettivi.

Per tutto il resto, software, caratteristiche, e soprattutto per cosa fa il tablet, l'iPad è la copia, migliorata negli aspetti visti sopra, del cinesino P88. La palese copia è stata sottolineata, con spunti umoristici notevoli, dal blog cinese Shanzai.com, dedicato alle copie tecnologiche, che ha ironizzato sulla neo acquisita capacità della Apple: clonare nuovi prodotti già fatti dai cinesi.

In realtà, mettendo da parte le facili ironie, l'iPad della Apple rappresenta una doppia svolta epocale, e sarà ricordato come un momento topico della storia dell'elettronica di consumo. Doppia svolta, perché i cambiamenti di direzione sono due. Il primo nasce dall'ormai decennale confronto nel mondo dell'informatica di consumo. Una vecchia barzelletta metteva a confronto, a bordo di un treno, un gruppo d’ingegneri della Apple con un gruppo di ingegneri di Microsoft. Nella barzelletta, originata da ragionamenti sul come risparmiare sul prezzo del biglietto ferroviario, si va a finire alla morale della favola; cioè che Apple aveva le idee innovative, i veri lampi di genio, e Microsoft si limitava a copiarne le idee e tentare di migliorarle. La storia dell'informatica di consumo è davvero racchiusa in questa barzelletta, con la differenza che nella realtà non sempre Microsoft è davvero riuscita a migliorare le idee di Apple, e i malfunzionamenti di Windows ne sono la prova sotto gli occhi di tutti.

Il cambio epocale è che adesso, per la prima volta, Apple si è allineata con Microsoft: una volta visto il P88 Shenzhen alla fiera internazionale di Berlino, gli ingegneri di Steve Jobs a Cupertino hanno accantonato l'idea di fare un prodotto innovativo: hanno preferito copiare il P88 e migliorarlo nel peso, nelle dimensioni, nel design, e soprattutto contando sul marchio Apple e sul grande numero di suoi estimatori, pronti ad acquistarlo anche per la sola soddisfazione di possedere un nuovo gioiellino tecnlogico. Marchiato Apple naturalmente, perché nell'immaginario dell'acquirente medio non è la stessa cosa se è marchiato Shenzhen.

La seconda svolta epocale è di tipo industriale e potrebbe avere risvolti economici imprevedibili: per la prima volta è l'America che copia un prodotto cinese e, sfruttando la presenza sul mercato, impone il prodotto surclassando la concorrenza, anche se la concorrenza è rappresentata dall'inventore in persona. Scenario già visto, ma di solito sempre al contrario: europei, americani e giapponesi che presentavano nuovi prodotti e, sei mesi dopo, arrivava sul mercato la copia cinese a costo dimezzato. Un'inversione di tendenza mai vista, questa dell'iPad. Una svolta effettivamente epocale, visto che ora sono i cinesi ad essere copiati.

Per il resto, il tablet è per l'appunto un gadget tecnologico. Per cui più che utile è dilettevole. Non è un telefono, non è stato pensato per esserlo, e d'altronde in un'epoca in cui la telefonia è sempre più miniaturizzata non avrebbe senso usare come telefono un tablet così grande. Leggero (appena 680 grammi), con un prezzo a partire da 499 dollari. E' pensato per la multimedialità, per cui è più simile ad un iPod touch che a un telefono. I modelli più costosi dell'iPad dispongono di un dispositivo Umts/Hsdpa: serve solo per navigare sul Web poiché non è previsto alcun supporto per la voce.

Non è un computer. Tanto per capirci, non ha il multitasking, per cui si può fare una sola cosa alla volta, si può aprire una sola applicazione e, per aprirne una seconda, si deve chiudere la prima. Mentre sull'iPhone il multitasking è disabilitato per ragioni di carico di lavoro sul processore e di consumo energetico, l'iPad ha un hardware più potente che permetterebbe il multitasking. Alla presentazione del prodotto, Steve Jobs non ha fornito alcuna spiegazione per questa grave lacuna. Peccato, visto che il P88 cinese permette il multitasking. Anche in questo, si vede la svolta epocale: il prodotto di Apple è migliorabile, ma in perfetto stile Microsoft (o in perfetto stile da copia cinese) è già stato presentato e nell'arco di pochi mesi sarà messo sul mercato.

Sull'utilità, c'è ben poco da dire: l'iPad è bello da vedere, sarà sicuramente divertente da utilizzare come novità, per gli appassionati sarà appagante possederlo, ma è un surrogato semplificato del computer, pertanto sarà davvero utile per chi vuole usare internet ma non vuole un computer.

Già. Usare internet senza computer. Stava in questo l'idea davvero geniale e innovativa di Huang Xiaofang, da Shenzhen. Purtroppo per lui, passerà alla storia come l'ennesima idea geniale e innovativa di Steve Jobs. Uno "scippo" che ci saremmo aspettati più da Bill Gates, a dire il vero. Qualche analista economico d'oltreoceano già dice che è la giusta rivalsa per tutte le volte che i cinesi ci hanno copiati.


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