- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Rosa Ana de Santis
Il 16 maggio é dedicato ai malati di cancro. Una giornata per parlare di loro e di una malattia che non molti anni fa era innominabile, infarcita di una mistica del male e di un simbolismo che parlava solo di morte, quasi allegoria di una colpa e di una condanna senza scampo. Le storie dei pazienti raccontano invece non di un’esistenza interrotta, ma di una vita capovolta e mutata in profondità.
La malattia oncologica, proprio per la modalità della sorveglianza, per l’incertezza della prognosi e per la variabile altissima della risposta individuale alle terapie, richiede uno sforzo di convivenza con la malattia che può anche durare anni e che può trasformare la patologia clinica, anche quando fosse scomparsa dal corpo, in una condizione dell’animo e in uno stato mentale. Il cancro come un virus dei pensieri, perché è l’incontro eccellente, senza mediazioni e diplomazie, con le domande fondamentali della vita.
La sensazione di precarietà esistenziale che scatena la diagnosi diventa spesso l’origine però di una nuova disponibilità alla vita in cui l’interiorità, le relazioni e i sentimenti diventano la finalità del quotidiano, i primi strumenti di guarigione e gli ingredienti fondamentali del futuro. I percorsi, com’è ovvio, sono diversi. I numeri dello studio realizzato dall'Associazione di volontariato Aiscup-Onlus, dall’Idi-Irccs di Roma e dall'Ospedale Sant'Andrea, dicono che il 54% dei malati di cancro ritiene molto importante la spiritualità nella propria vita. Dove spiritualità non è necessariamente religione o fede confessionale, ma cura di sé, forza della mente, interiorità. La problematizzazione psico-emotiva della nuova condizione di vita, diventa strumento per sopportare meglio la sofferenza e per rivendicare la dignità della malattia.
Il rifiuto dell’estraniazione dalla società e l’ostinazione a recuperare canoni normali di vita hanno bisogno - indica il risultato dello studio - di questo motore spirituale. Lo studio ha riguardato 220 pazienti chemioterapici dell’Idi. Più donne che uomini e molte di loro giovani. La maggior parte ha dichiarato di desiderare una vita serena, una ridotta percentuale ha elaborato un rifiuto della fede e molti di questi pazienti si definivano già credenti prima della malattia. Lo studio ora si spingerà ad analizzare il rapporto tra malattia e spiritualità in paesi caratterizzati da una cultura religiosa che non sia cristiana e sarà esportato ai centri oncologici di Gerusalemme e di Teheran.
Spiritualità nella malattia non significa preghiere: vuol dire piuttosto mettere al centro l’umanizzazione delle cure, l’integrazione tra medicina e psicologia al fianco del paziente e l’attenzione continua alla non esclusione della persona ammalata nel sistema sociale e nel mondo del lavoro. Solo tutti questi elementi aiutano il paziente a elaborare la malattia come un passaggio, una battaglia da vincere, una condizione in cui non si aggiunga all’invalidità fisica la depressione di un’esclusione sociale.
I diritti sul posto di lavoro, lo snellimento della macchina burocratica in cui s’imbatte un paziente quando entra in ospedale, la creazione di corsie di prenotazioni preferenziali, l’esenzione e il riconoscimento dell’invalidità, è tutto quello che la politica deve fare per queste persone. Il cancro è una malattia sempre più diffusa nelle società occidentali, per longevità della popolazione, per diffusione di dannosi stili di vita, cattive abitudini e soprattutto fattori d’inquinamento spesso colpevolmente tollerati. Una sempre più accurata conoscenza inoltre del dna e dell’identità genetica permette ormai di elaborare una mappatura precisa e quasi individuale di rischio e predisposizione ai tumori. Tutto questo impone l’obbligo di trattare il cancro come una malattia certamente grave e seria, ma di normalizzarla. Il cancro è curabile anche quando non è guaribile in modo definitivo. Non è fuori dalla vita e non è la bestia nera.
Le terapie sono sempre più personalizzate e la clinica pone sempre più attenzione allo studio e al contenimento degli effetti collaterali. La percezione di sé - e quindi l’immagine del proprio corpo nella fase chirurgica e in quella delle cure - non sono più considerati dettagli ininfluenti, ma condizioni importanti per la guarigione. L’estetica, ad esempio, nelle patologie oncologiche femminili non è più interpretata come un vezzo o un aspetto coadiuvante, ma è messa al centro della stessa chirurgia. Tantissime testimonianze raccolte dall’AIRC documentano come dopo la diagnosi di cancro si possa, pur con tutta la fatica immaginabile, recuperare normalità.
Spiritualità nel cancro non è necessariamente risposta al perché sia accaduto. Non è necessariamente fede. Né è un percorso risolto di significato e di disegno provvidenziale. Più semplicemente è la trasformazione di un fatto occasionale e grave in un cambiamento anche interiore della vita e, spesso, nel raggiungimento di un’esistenza più raffinata, meno elementare e di maggiore autocoscienza. Nessuna didattica della sofferenza, ma la convinzione che l’esistenza sia naturalmente fatta di questi improvvisi incontri con il dolore e che l’ostinazione di vivere non sia altro che la saggezza della normalità messa accanto alla velleità dei sogni.
Soltanto per questo, per parlare di cancro, di cura e di corpo, non si può non parlare di spirito. Le persone vanno curate tutte intere, il loro mondo, i pensieri, le relazioni e i desideri vivono insieme a loro questo assedio e vivono pensando al giorno in cui saranno liberi. La guarigione inizia anche così, anche quando non può essere scritta su nessuna cartella clinica. Il 16 maggio è dedicato a queste storie di straordinaria normalità.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Fabrizio Casari
Impegnati sulla volata scudetto o sulla nazionale geriatrica in partenza per il Sudafrica, quasi distratti dall’ampliarsi quotidiano della lista della cricca del mattone a buon mercato, ci capita di non riuscire a concentrarci sulla cronaca nera. Succede, del resto, quando il governo e i media vanno d’accordo e quando non c’è bisogno di utilizzare la cronaca dei delitti peggiori in chiave elettorale. Eppure, le ultime settimane sono state ricche, tristemente ricche, di episodi di violenza e di follia, di uomini che uccidono donne.
Eravamo abituati al clima estivo quale ambientazione dell’esplosione di follia familiare. Psicologi televisivi e intrattenitori, improvvisatisi giornalisti, negli ultimi anni avevano sempre scoperto nel clima torrido, nella solitudine delle vacanze fallite o in qualche altra scempiaggine, la molla scatenante delle devianze criminali sopite. Adesso invece, che la bella stagione non è ancora alle porte, quando tutte le concause sono ancora in attesa, la furia omicida, i comportamenti criminali in famiglia sono all’ordine del giorno. Da nord a sud, sposati o separati, con figli o senza, occupati o disoccupati, va in scena ovunque il filmino postmatrimoniale orrido, quello che ha un solo soggetto: la violenza sulle donne.
E non si tratta di violenza sessuale occasionale, di stupro addebitabile al maniaco o all’extracomunitario di turno, che invece di trasudare dolore e indignazione, risulta buono per rimpolpare la dose di xenofobia, questa tutt’altro che latente. Non lo troverete nei titoli dei giornali, ma sono italiani, italianissimi, gli assassini di donne di questa primavera infame. E non assassinano - o tentano di assassinare - incolpevoli quanto ignote donne indifese: sono i loro mariti o ex-mariti, fidanzati o amanti, persino parenti di primo o secondo grado.
La famiglia, dicono quelli che ne hanno almeno due, é sacra e indivisibile. E’ dove si edifica la struttura sociale del paese, il luogo della costruzione identitaria. Proprio per questo detiene diritti che le relazioni prive di timbro nemmeno si sognano. E se al timbro si lega il diritto, proprio per evitare che quei diritti possano averli un domani, si fa in modo che quei timbri non trovino liceità. Probabilmente difettiamo in etica teologica, ci ostiniamo a credere che la famiglia sia solo uno dei luoghi - e non l'unico - dove sia possibile costruire la rete di affetti con la quale si vive. La famiglia, insomma, come una possibilità, non come l'imprescindibile.
D’altra parte gli addetti alla diffusione dei sani valori e all’arricchimento del profilo pedagogico del Paese non brillano. La Chiesa che intima divieti all’amore egualitario mentre permette l’obbrobrio della pedofilia nelle sue chiese, si accompagna ai difensori della famiglia in servizio permanente effettivo, che insultano ed offendono in ogni modo le donne. Una moda oscena e bestiale, una vendetta conclamata contro i diritti che le donne hanno saputo conquistarsi quando ancora tra la società e la politica esisteva un legame. L’odio per l’indipendenza, l’odio per l’orgoglio, sembra essere, in compagnia dell’odio per “l’altro”, il senso compiuto della cristianità d’inizio millennio. Non sarà proprio un caso, quindi, se gli ultimi 3 anni, gli omicidi in Italia sono cresciuti del 16 per cento. Dei seicento omicidi all'anno di cui si "fregia" il Belpaese, circa la metà sono tra gente che si conosce e, la metà di questi, all'interno di nuclei familiari.
Il nord ricco non uccide diversamente dal sud povero. Anzi, colpisce semmai come i peggiori massacri siano avvenuti, in questi ultimi anni, proprio nelle villette monofamiliari, simbolo del benessere conquistato oltre che del gusto pessimo, e nei piccoli centri, spacciati ad ogni piè sospinto come l’alternativa dello spirito alla invivibilità della metropoli tentacolare. Pare proprio, invece, senza voler nemmeno lontanamente proporre una lettura sociologica d’accatto del fenomeno, che proprio nel nord, indicato per la qualità dei servizi, e proprio nei piccoli centri, indicati per la qualità della vita, la furia criminale all’interno delle famiglie si scatena con maggiore efferatezza.
Ci sarebbe bisogno di capire cosa c’è nel nostro modello di società che davvero non funziona più. Ci sarebbe bisogno di correre in soccorso della realtà, di uscire fuori dalle case d’ipotetici grandi fratelli e da quelle delle casalinghe disperate in formato televisivo. Bisognerebbe cacciare la Tv anche dall’urna elettorale, di ricominciare a scrivere e a parlarsi senza cercare il carburante dell’odio. Ricordiamo con nostalgia un paese solidario, dove le lotte per l'uguaglianza e per l'allargamento dei diritti di tutti prevaleva, anche sul piano morale, all'individualismo sfrenato e all'ostentazione del privilegio. Forse da quella nostalgia si dovrebbe ripartire.
Per farlo, servirebbe ricominciare ad indagare la realtà nella quale viviamo, in un sistema arcaico ed iniquo che opprime tutti, chi più chi meno. Per scoprire magari che quest’Italia, che si sveglia sentendosi diversa da tutto e s’addormenta scoprendo di aver paura di tutti, il filo dell’unità e dei valori deve assolutamente recuperarlo. Perché l’ha perso da un pezzo. Da quando cioè, quindici anni fa, scelse di diventare più furba, invece che più giusta.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Alessandro Iacuelli
Era un luogo davvero insospettabile, la base dell'organizzazione internazionale dedita al traffico di cocaina appena sgominata dai carabinieri del Comando provinciale di Piacenza: un convento di suore situato nel centro di Milano. L'idea geniale per mascherare deposito di droga e traffico era venuta ad alcuni affiliati alle cosche calabresi Pelle-Vottari e Coco-Trovato, legate a due cartelli colombiani della droga. Per "coprire" gli spostamenti della cocaina, venivano organizzati falsi pellegrinaggi.
A finire in manette sono state 33 persone in tutto, altre 80 denunciate, ed è stata sequestrate una considerevole quantità di stupefacente, circa 30 chili di cocaina purissima. Secondo gli investigatori il custode del convento, un sudamericano incensurato, avrebbe organizzato pellegrinaggi ai quali si univano dei suoi complici che, fingendo di essere dei fedeli, trasportavano la cocaina nei breviari e in altri oggetti nascosti nel bagagli a mano.
Non solo. C'è qualcosa di più grave dietro il traffico di droga. Infatti, dalle indagini è emerso anche che dei fondi FAO, il Fondo Mondiale per l'Alimentazione, fondi destinati allo sviluppo della pesca in aree povere dell'Africa, siano stati "illegalmente percepiti" e usati dalla stessa banda per realizzare una base di stoccaggio della cocaina in Ghana. Con buona pace per la fame nel mondo.
Sempre secondo gli investigatori, era proprio l'insospettabile custode del convento, ad essere uno dei capi della potente organizzazione internazionale di trafficanti di cocaina. Dalle indagini è emerso che utilizzava il convento come base per le sue operazioni e organizzava i viaggi dei corrieri della droga dalla Colombia, mascherandoli come pellegrinaggi. Pellegrinaggi in abito talare, perché i corrieri, fingendosi sacerdoti e religiosi, nascondevano e trasportavano la cocaina eludendo un bel po' di controlli aeroportuali, dove è un po' difficile che perquisiscano un sacerdote. L'uomo è stato arrestato tra lo stupore delle suore, che tra una preghiera ed un'altra hanno anche mormorato che era un brav'uomo e che, naturalmente, non si erano mai accorte di nulla.
E' stato proprio a partire da questi strani pellegrinaggi dall'America Latina all'Italia che i carabinieri di Piacenza, sotto il coordinamento delle DDA di Bologna e Milano, sono riusciti, nell'arco di ben tre anni, a capire come funzionava il meccanismo. Quelli che risultavano come pellegrini, diretti in Italia per un periodo di preghiera, trafficavano la cocaina stoccandola prima in Ghana e trasportandola poi in Italia. Proprio dietro la base africana ci sarebbe nascosta la pericolosa truffa alla FAO: l'organizzazione avrebbe,infatti, mediante dei prestanome, richiesto un finanziamento proprio alla FAO. I prestanome hanno presentato la documentazione di una società di import-export, che avrebbe dovuto sviluppare il mercato ittico in Africa e contribuire a salvare dalla fame chi non ha da mangiare. E, incredibilmente, il finanziamento l'hanno ottenuto.
Come non bastasse, secondo gli inquirenti era "già in fase esecutiva un accordo commerciale tra i trafficanti piacentini e alcuni narcos appartenenti ai cartelli colombiani, per destinare ingenti investimenti in termini di mezzi e capitali" nella costituzione di una nuova base operativa in Ghana, demandata allo stoccaggio di partite di cocaina da introdurre successivamente in Europa. Magari anche questa a spese della FAO. Sempre secondo la DDA, la banda era costituita principalmente non dai "soliti" calabresi, come si usa dire spesso in nord Italia, ma da trafficanti piacentini "dediti al rifornimento di ingenti partite di cocaina attraverso il contatto con elementi appartenenti a dirette articolazioni di 'ndrine calabresi attive sul territorio lombardo".
Sequestrata anche una casa ad Alemanno San Bartolomeo, in provincia di Bergamo: secondo gli inquirenti, ospitava il laboratorio clandestino per la raffinazione della droga, poi smerciata nelle province di Milano, Bergamo, Brescia, Varese, Lecco, Lodi, Parma, Piacenza e La Spezia. Naturale l'imbarazzo manifestato da persone vicine alla FAO: si tratta di uno “smacco” che andava evitato assolutamente.
Tra gli arrestati ci sono anche alcuni rispettabilissimi imprenditori piacentini, primo tra tutti il titolare di una ditta di autotrasporti di Alseno, e altri suoi colleghi della Valdarda che erano riusciti, secondo i carabinieri, ad avere il contatto, tramite un intermediario anche lui arrestato, con le cosche calabresi che gestiscono il traffico di droga in Lombardia. In particolare sono emerse collaborazioni con la famiglia dei Vottari, il cui nome ricorre anche nella strage di Duisburg di due anni fa.
Sembra un'instancabile corsa, quella tra Stato e narcotrafficanti: corsa ai metodi più forti per contrastare i traffici da un lato, e per eludere i controlli dall'altro. E’ con l'inasprirsi di questi ultimi, che la corsa si sposta su piani sempre più fantasioni. Stavolta si è pensato, come copertura, ad un giro di pellegrinaggi, di viaggi di preghiera, di breviari e crocifissi, ad un convento; e si è pensato a estorcere soldi alla FAO, travestendosi da pii aiutanti dei bambini affamati africani. Tanto ingegnoso quanto insospettabile. E la prossima volta? Quale sarà la prossima invenzione?
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Rosa Ana de Santis
E' stata disposta una "rigorosa attività ispettiva" sul comportamento dei poliziotti la sera del 5 maggio scorso a Roma. L'indagine é stata disposta dal Capo della Polizia Manganelli, dopo la visione di quanto appare su Youtube. Perché stavolta, diversamente da altre, il video c’è. Ci sono molti testimoni dell’accaduto e i genitori hanno potuto far visita nel carcere di Regina Coeli al figlio che è agli arresti dal 5 maggio scorso, dopo la partita Roma-Inter. Tante analogie e importanti differenze con la storia dello sfortunato Cucchi. La storia di Stefano Gugliotta, 25 anni, forse nasce da un banale sbaglio di persona. Viene preso a manganellate mentre è ancora sul motorino e non sa, né i suoi familiari sanno, perché sia finito in carcere. Lui allo stadio nemmeno c’era.
Marco Letizia, segretario nazionale dell'Anfpi (Associazione nazionale dei funzionari di polizia), dichiara subito, appena scoppiato il clamore per il video-denuncia, che bisogna fare chiarezza sulle motivazioni del fermo e sul comportamento dei due prima di fare ipotesi e accostamenti con altre vicende di cronaca. Certo è che Gugliotta è incensurato ed è in carcere senza un motivo, senza che alcuno gli abbia comunicato le ragioni dell’accaduto, ma intanto le botte le ha già prese. Non è grave come è successo ad altri, ha ferite e segni di tumefazioni e percosse sul corpo, sei punti di sutura in testa, un dente rotto. Il suo legale, Cesare Piratino, non dice se abbia denunciato o meno la Polizia, ma ne chiedono l’immediata scarcerazione. E’ provato e spaventato, appare così a suo padre.
Anche il Parlamento, anzi una parte di esso, è entrato nella vicenda con la percezione chiara che un eccesso di potere e di strumenti coercitivi stia caratterizzando sempre di più l’operato della polizia. Una deriva pericolosa, ormai sistematica, che sembra non essersi sedata neppure sotto l’attenzione dei media a seguito dei casi più scabrosi della cronaca. I radicali chiedono un‘indagine sul comportamento della polizia, così sproporzionato rispetto a qualsiasi azione compiuta dai fermati, peraltro incensurati. Soprattutto evidenziano la necessità di rivedere in toto la gestione dell’ordine pubblico affidata a strumenti e modalità assolutamente superati, non da ultimo alla impossibilità di identificare gli agenti - ad esempio con un codice bene in vista sul casco - quando sono in azione. L’anonimato garantisce immunità.
Anche il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, senza entrare nel merito della vicenda e delle responsabilità, si dice perplesso di fronte alla dinamica di tutta la vicenda, al silenzio terribile in cui è stato lasciato un incensurato in carcere e alla modalità con cui è stato fermato. Una normalizzazione della violenza che apre scenari preoccupanti per i cittadini e alcuna rassicurazione di tutela. E’ rimasto soltanto il sindaco di Roma Alemanno a ricordare, e forse ce n’è bisogno, che i poliziotti ci difendono. Paola Frassinetti, vicepresidente della commissione Cultura e Sport della Camera, presenterà un'interrogazione al ministro degli Interni per fare chiarezza. Tutti la vogliono. Il consigliere comunale Athos De Luca chiede al Comune di costituirsi parte civile "qualora si riscontrassero responsabilità e abusi, non accettabili comunque, neanche se il ragazzo avesse partecipato ad eventuali incidenti post-partita".
Stefano Gugliotta non è diffidato, è incensurato e al massimo ha preso qualche multa in motorino. Quale che sia il reato che gli viene contestato, gli abusi ci sono già stati e sono ben evidenti sul video mandato A chi l’ha visto. Mentre lui viene portato in carcere con tanta veemenza, numerosi teppisti da stadio rimangono in libertà per la prossima partita e per popolare la prossima curva. La solerzia delle divise con loro sembra sparire.
Stefano Gugliotta e’ stato obbligato a firmare un foglio in cui rinunciava a cure supplementari, (solo dopo sostituito con uno corretto); nessuna lastra gli è stata fatta per verificare lo stato delle lesioni alla schiena e nessuno sa cosa abbia fatto quella notte. Mentre la Questura promette di fare chiarezza, Stefano va portato fuori da Regina Coeli. Perché possa testimoniare eventuali abusi. Perché se un ragazzo come Cucchi, che aveva commesso un piccolo reato, è morto in quel modo e se l’impunità dei poliziotti in Italia è un confermato dogma di fede, si deve avere paura. La famiglia di Gugliotta ha paura. E quale genitore, o fratello, o sorella, non l’avrebbe guardando quel video?
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Mario Braconi
Chi lavora per una grande azienda è probabilmente assuefatto allo spettacolo poco edificante delle moderni corti di blasonati consulenti "strategici", tutti presi a sussurrare le loro presunte “ricette miracolose” direttamente nelle orecchie dei vertici direttivi. Talora i loro costosi consigli servono a giustificare a posteriori decisioni già prese in altre sedi, più frequentemente costituiscono una summa di ovvietà ben confezionate.
Nei rari casi in cui aggiungono veramente valore, lo fanno al prezzo di mortificare l'impiego e lo sviluppo di risorse già inquadrate all'interno degli organigrammi aziendali e di un incremento di costi esponenziale. Secondo una stima molto benevola nei confronti dei consulenti, il costo di un'ora del lavoro di una di codeste persone "venute di cielo in terra a miracol mostrare" è 10 volte superiore alla retribuzione oraria di un quadro aziendale responsabile di una funzione.
Una cosa è certa: una volta saldata la fattura, spesso tutto quello che il cliente si ritrova tra le mani è un'interminabile presentazione in PowerPoint, costituita da decine e decine di slide (anche se ai piani alti, dove si è adusi allo sproloquio "in english", talvolta si preferisce parlare, in modo assai civettuolo, di "tavole").
Sembra comunque che il programma comprato da Microsoft dalla Forethought nel 1987, dopo aver saturato il mondo corporate, abbia finito per occupare manu militari anche la Difesa degli Stati Uniti d'America: in un documentato e godibilissimo pezzo pubblicato sul New York Times lo scorso 26 aprile, Elizabeth Bumiller spiega come, se il Segretario alla Difesa Robert Gates riceve i suoi briefing quotidiani in PowerPoint, il generale David Petraeus (delegato per le guerre in Iraq e Afghanistan) ha condotto numerose presentazioni elettroniche usando l'infernale strumento. E anche Richard H. Holbrooke, rappresentante speciale del Governo USA per l'Afghanistan e il Pakistan, quando si è recato nelle zone di guerra si è dovuto sorbire delle presentazioni in PowerPoint. Idem per i militari italiani, spesso assediati, oltre che dai talebani, anche da sconvolgenti presentazioni elettroniche a stelle e strisce cui ogni tanto viene perfino aggiunto un galvanizzante commento musicale…
Tutto andava bene, finché il Generale Stanley A. Mac Chrystal, capo delle forze americane e NATO in Afghanistan, si è visto comparire sullo schermo una slide grottesca che aveva l'ambizione di spiegare in un unico diagramma l'intera gamma delle forze in campo e dei fenomeni da controllare per comprendere e vincere la guerra: di fronte a quel delirio di frasi schematiche interconnesse da centinaia di frecce impossibili da seguire, si dice che il militare abbia rinunciato non si sa se a vincere la guerra o a capire lo specchietto (due obiettivi della stessa difficoltà, in effetti).
Come nota Richard Engel, capo dei Corrispondenti Estero della NBC, che già a dicembre dello scorso aveva messo le mani sulla slide dello scandalo, "mentre per alcuni comandanti militari è geniale - in quanto rappresenta un nuovo approccio alla guerra, che guarda oltre alla semplice eliminazione fisica dei nemici - per altri, essa è il culmine del percorso folle che gli Stati Uniti hanno intrapreso nel nome della sicurezza nazionale.
I suoi detrattori sostengono che lo schema rappresenti una forma di violenza contro ogni logica. Non a torto, infatti, pensano che occupare un paese straniero per garantire sicurezza in patria sia un processo costoso, lungo e che conduca solo ad illogiche aberrazioni a forma di piatto di spaghetti. Questo è quanto accade quando a persone intelligenti viene chiesto di dare una risposta alla domanda errata".
Scorrendo la pagina dei commenti alla redazione del quotidiano newyorkese, si può concludere che, secondo la gran parte dei lettori, il problema non sia tanto lo strumento tecnologico in sé, quanto il modo in cui viene usato. Di questo stesso tenore anche la lettera che al NYT hanno inviato Peter Norvig (capo della ricerca per Google) e Stephen M. Kosslyn (professore di Psicolgia ad Harvard ed autore di un libro sui "trucchi" psicologici da impiegare per rendere le presentazioni elettroniche più efficaci): "Un'immagine digitale che si accende su uno schermo è quanto di meglio vi sia per rappresentare oggetti bidimensionali (statistiche, foto e mappe), ma una realtà complessa viene comunicata molto meglio con un rapporto scritto da distribuire all'uditorio, cui dovrebbe seguire una discussione."
C'è però anche chi, come Edward Tufte, statistico ed esperto di "information design" (ingegneria dell'informazione), la pensa in modo diametralmente opposto: nel suo pamphlet "L'uso cognitivo di PowerPoint" (2003), il professore rilevava che il programma della suite office "costringe le persone a mutilare i dati oltre i livelli utili alla loro comprensione." Ad esempio, obbliga ad esprimere concetti in "bullet point" che contengono fino ad un massimo di circa quaranta parole -leggibili in otto secondi. In realtà, il fatto stesso di disgregare un ragionamento in brevi frasi lascia allo speaker l'onere (e il rischio) di collegare tra loro i vari punti. Inoltre, lo strumento è basato su “un'ossessione medievale per la gerarchia di concetti” - esistono infatti 4 o 5 modi per segnalare l'importanza relativa di un’idea rispetto alle altre: ordine di apparizione, rientro più o meno accentuato, stile e formato dei bullet point.
Le conclusioni di Tufte coincidono con i risultati dell'indagine NASA sull'esplosione dello Shuttle del 1 febbraio del 2003: certo, la schiuma del rivestimento della carlinga è stata la causa dell'incidente, ma una parte della colpa va al prodotto Microsoft: la NASA, infatti, ai tempi dell'incidente, faceva tutte le sue presentazioni in PowerPoint. Secondo la ricostruzione della commissione NASA (sposata anche da Tufte) la confusione ingenerata dal modo in cui il problema tecnico era stato rappresentato ha causato una sua sottovalutazione e, in ultima analisi, ha contribuito alla morte dei sette membri dell'equipaggio. Benché PowerPoint abbia certamente dei difetti ed in fondo incoraggi uno stile cognitivo superficiale e mercantile, non sembra poi del tutto onesto attribuirgli tutto questo potere. In fondo le sue storture sono quelle prodotte da un sistema sempre più commerciale e sempre più nemico della conoscenza autentica.