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di Rosa Ana de Santis
Condannata a 26 anni per aver ucciso l’amica e coinquilina Meredith Kercher, ha fatto il giro di quotidiani e tv con il suo viso candido. Strappando l’idea di un’innocenza quasi naturale dipinta sui suoi tratti, ha suscitato dubbi e domande soltanto perché troppo bella e troppo americana per essere inghiottita nella storia dell’eros violento e del sesso di gruppo finito con le coltellate efferate sul corpo di Meredith. Guede, il nigeriano con i suoi 16 anni di colpa grazie al rito abbreviato, ci sta benissimo invece. L’opinione pubblica si convince con facilità della sua colpevolezza. Non fatica a crederlo stupratore e violento. Lui non ha gli occhi azzurri di Amanda, né è figlio di una famiglia perbene come Sollecito, il terzo assassino. Aveva creduto facilmente del resto anche alle accuse che Amanda aveva fatto ai danni dell’altro nero, Lumuba, poi scagionato. Un’autentica mossa diabolica dell’americana.
Dietro all’icona dell’angelo però c’è ben altro. La famiglia Knox - questa l’accusa mossa dalla giornalista di Newsweek, Barbie Latza - si sarebbe mossa scambiando servizi fotografici e interviste esclusive in cambio di viaggi d’oltreoceano e lauti rimborsi. Una miscela di compromesso su una stampa assoldata che racconta abbastanza dei media americani e della loro deontologia delle fonti. Così il fronte degli innocentisti ingrassava e le vendite dei giornali aumentavano sulle ombre e i sospetti di una macchina della giustizia italiana che sembrava voler condannare a tutti i costi la povera cittadina americana incastrata. Si mosse addirittura la Clinton per lei, dopo l’intervento della senatrice Maria Cantwelle, che parlò di “sentenza oltraggiosa e prove insufficienti”. Un’intromissione che rasenta il grottesco a confronto dell’indecenza con cui gli Stati Uniti trattano i loro casi di giustizia quando le vittime non sono americane.
I genitori di Amanda, Edda e Chris, hanno dimostrato di saperci fare con i media. Dal gruppo seguitissimo di Facebook ai commenti costanti inviati ai vari giornalisti dopo la rassegna del giorno, alle corse per l’ultimo talk show, come quello nel popolare salotto di Oprah Winfrey in cui si condannò davanti alle telecamere l’operato dei giudici italiani come viziato dalla “tempesta mediatica”. Un giudizio comico se messo a confronto con la riuscita operazione della famiglia Know, dimostratasi capace di confezionare un vero spot pubblicitario sull’innocenza di Amanda e la cattiva giustizia italiana. Un colpo di successo fuori dalle mura di Perugia e forse non solo.
L’abilità è stata quella d’insinuare un dubbio generale, tramite il ripetersi ossessivo di quelle foto che ritraggono espressioni dolci e capricciose, allegre e indubbiamente belle della studentessa acqua e sapone. Il quadretto della famiglia di Seattle, nel recinto della villetta familiare, ha bucato lo schermo e così gli sguardi di Amanda nell’aula di Tribunale, fino al punto di poter raccontare dall’altra parte dell’oceano la storia di un capro espiatorio e di una condanna “senza prove”. La famiglia di Meredith, che ha sempre mantenuto contegno e che non ha mai sbrodolato nelle apparizioni tv né sui media, ha criticato proprio questo atteggiamento dei familiari di Amanda, tutto teso a portare fuori dall’aula di tribunale la tesi dell’innocenza di Amanda con una indigesta sovraesposizione mediatica. Forse proprio perché, spente le luci dello show, le prove di colpevolezza c’erano tutte ed erano pesantissime.
Oggi Amanda, i capelli sempre più lunghi e gli occhi mai bassi, non si è arresa e pensa al futuro. Studia per la laurea, scrive ad amici e familiari, piange ogni tanto, passa qualche ora in palestra o a strimpellare. Giornate fatte di terribile normalità. Dice di non annoiarsi e di dover andare avanti, senza mollare. Un’ostinazione che rasenta l’ingenuità o che nasconde una spietata consapevolezza. Che lei, a differenza di Guede, non sia fatta per rimanere a lungo dietro le sbarre. Tiene famiglia.
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di Rosa Ana de Santis
Hanno provato a farlo morire di anoressia, di droga, di cadute accidentali dalle scale e di un quasi suicidio. Ma gli esperti di parte civile non hanno dubbi. Stefano è morto di edema polmonare acuto per le percosse violente subite. Il suo cuore, sotto i colpi delle botte, sarebbe diventato sempre più lento. Affaticato dalla frattura in L3, spacciata per troppo tempo come lesione antecedente agli eventi, dall’immobilizzazione forzata e da tutta la “catena di eventi” seguita a quello traumatico, si sarebbe spento piano piano. Con efficiente complicità della negligenza dei sanitari. Dei camici bianchi che hanno finto di non ravvedere l’urgenza e la gravità del caso e che non hanno voluto salvare Stefano.
Appena ricoverato al Pertini i suoi battiti erano già 49, contro i 60-90 normali. Una conseguenza piuttosto scontata e rischiosa per i pazienti che hanno subito lesioni midollari. Il quadro delle ecchimosi e delle lesioni fa il resto. Ci spinge a non voler cadere nella trappola della disinformazione. Quella che vuole circoscrivere il fango alle responsabilità, che pure sono evidenti e gravissime, dei sei medici coinvolti. Per lasciare pulite le tre guardie carcerarie e, insieme a loro, la macchina perfetta della violenza di Stato.
Stefano Cucchi era gracile, ma sano. Praticava sport e sua sorella Ilaria ha da sempre respinto il tentativo di occultare le fratture recenti addebitandole al passato. Oggi ci sono le prove autoptiche e la documentazione dei periti a dare forza alle parole dei suoi familiari. Le fratture non hanno callo osseo e concordano con i segni feroci che abbiamo visto tutti su quel corpo ridotto a uno scheletro di sangue.
Queste ultime perizie, va precisato, non spostano l’attenzione e l’occhio della Procura dalle omissioni dei medici, dall’ingiusta disparità di trattamento e cure tra cittadini liberi e detenuti, dalla disumanità in cui i sanitari hanno lasciato Stefano da solo, agonizzante. Ma strappano i poliziotti indagati dal comodo silenzio in cui erano finiti in questi ultimi mesi. Ricorda all’opinione pubblica che qualcuno ha picchiato, qualcuno in divisa ha dato calci e pugni fino al punto di uccidere il giovane Cucchi.
Per la Commissione d’inchiesta Parlamentare Stefano è morto di disidratazione. Il dottor Albarello, direttore dell'Istituto di medicina legale della Sapienza di Roma, a capo del pool di medici, consulenti del pubblico ministero che conduce l'inchiesta, parla certamente di terapie sbagliate e di responsabilità per i medici che hanno preso in carico il giovane. Ma le evidenzia come responsabilità omissive che non scagionano più, come sarebbe accaduto senza questa perizia, i poliziotti indagati.
Aver parlato di malasanità, d’imperizia medica, di condizioni disumane dei detenuti, avrebbe annebbiato il caso, avrebbe dissolto gli assassini in una riflessione generale sulle carceri e le morti dietro le sbarre. Quelle che suscitano formale tristezza, ma che si dimenticano in fretta. Quelle che quasi sembrano naturali, quando non sono addirittura invocate come meritate, per chi finisce ai ferri.
Questo non si può più dire. O almeno sarà sempre più difficile. I medici avrebbero potuto salvare Stefano Cucchi con una diversa terapia, ma non l’hanno fatto. La loro colpa è di averlo condannato a morte. I poliziotti a calci e pugni gli hanno procurato un trauma che ha iniziato a ucciderlo lentamente, nelle sequenze di una lucida agonia. Lucida fino a quando Stefano è riuscito a chiedere aiuto. Un familiare, un legale.
Questa è la disperazione che ci racconta la sorella di Stefano dall’ultima conferenza stampa alla Camera dei Deputati. Immaginarlo in quegli ultimi attimi di vita. Quando forse avrà creduto di esser stato lasciato da tutti, di esser stato dimenticato lì. Le sue parole obbligano a non scantonare nelle questioni generali e a non cancellare i nomi e i cognomi.
Oggi non parliamo di carceri e di dignità dei malati in carcere. Ma di Stefano e dei suoi assassini. Di un detenuto ucciso, degli uomini in uniforme che l’hanno massacrato di botte e di quelli in camice bianco che non l’hanno salvato. Parliamo dei suoi assassini. Per non dimenticare chi era Stefano e non dimenticare come è stato ucciso.
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di Rosa Ana de Santis
La notizia aveva fatto il giro di tutti i quotidiani suscitando sconcerto. Persino il Ministro della Giustizia era dovuto intervenire di fronte a tanto clamore. Oggi i quotidiani locali raccontano la fine di una vicenda giudiziaria impasticciata di omertà. Il caso è quello del carcere di Teramo e dell’accusa di pestaggi, lesioni e omissioni per tre agenti penitenziari e il loro Comandante Giuseppe Luzi. Quello che dava indicazioni su dove “massacrare” un detenuto. “Meglio al piano di sotto”, diceva lui. L’audio raccontava poi del testimone scomodo, del negro che aveva visto tutto. Una confessione impeccabile. Le violenze ai danni di un detenuto, l’ansia per la rivolta che sembrava bollire nelle celle e la sensazione che la pratica ordinaria di quel luogo di pena fosse fatta di ordinari riti di violenza.
Il testimone Uzoma Emeka, soltanto un mese dopo, era morto per un tumore al cervello mai diagnosticato. Un decesso un po’ troppo repentino, il segno dell’abbandono totale in cui versano le condizioni dei detenuti, e senza dubbio una morte comoda. Le indagini subito dopo sono andate avanti a singhiozzo, fino ad arrivare ad oggi in cui viene avanzata la richiesta di archiviazione. Il magistrato ha segnalato come principale impedimento il codice di omertà che lega i detenuti e che non consente di trarre prove ed elementi sul caso né di avere dichiarazioni su cosa accade nelle celle del carcere. Ma l’omertà andrebbe chiamata per nome. E si chiama terrore.
Quello del detenuto vittima delle violenze, l’unico indagato rimasto, che ora si affanna a negare tutto. Quello che forse deve aver avuto il testimone morto all’improvviso. Così gli agenti e il loro comandante potrebbero cavarsela non negando quelle conversazioni, inconfutabili del resto, ma ricorrendo alla tesi bizzarra del “contesto”. Sarebbero stati quei giorni di tensione nel carcere e il timore di una rivolta a causare quegli sfoghi verbali, ma nulla sarebbe accaduto davvero. O meglio: nulla può essere più dimostrato. Le accuse si sbriciolano, anche se emergono chiare le versioni contraddittorie degli indagati e ci sono agli atti le prime timide dichiarazioni. Ma tutto sarà archiviato, la giustizia bloccata. Sono proprio i detenuti a scagionare i loro carnefici. Per paura.
Il caso di Teramo ha lo stesso sapore di altre storie rimaste ancora senza colpevoli. Solo qualche giorno fa, il caso di Giuseppe Uva, condannato a morte in una caserma dei Carabinieri; o le indagini ancora in piedi per Stefano Cucchi, ucciso a metà dalle botte e a metà dalle omissioni dei medici. Per non dire della pena ridicola per i poliziotti responsabili della morte del giovanissimo Federico Aldovrandi. E chissà quanti altri insabbiati. Chissà quanti stranieri stipati nelle nostre carceri di cui nessuno sa ne ha memoria, per cui nessuno avrà strumenti mai per chiederne giustizia.
Teramo disegna un macabro ritratto delle nostre forze d’ordine e soprattutto la consapevolezza che dietro le sbarre ci sia la terra di nessuno. Luogo senza Stato, senza legge. Uno spazio vuoto dato in pasto alla forza. Proprio in occasione dei lavori del ventunesimo Consiglio nazionale del sindacato autonomo Polizia Penitenziaria si è parlato dei problemi serissimi in cui versa la popolazione carceraria nel nostro Paese e, soprattutto, della necessità di ristabilire una diversa e più efficace politica della pena che sia fatta il più possibile, e proporzionalmente ai reati commessi, di misure alternative e di reali proposte rieducative. Un aspetto della detenzione che non importa alla pancia di tanti italiani.
Se tutto questo ha solo qualche lontana occasione di essere credibile, si deve ripartire dall’elemento fondamentale. Riportare la legge dietro le sbarre. Ristabilire la giustizia e almeno i diritti inalienabili di ciascun individuo. Punire gli assassini anche quando sono poliziotti o carabinieri. Per raccontare se questa montagna di omertà è il nemico o il pane della nostra storia. E se quello che accade dietro le sbarre non sia soltanto la replicazione più esasperata di una stessa diffusa democrazia di carta.
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di Mario Braconi
Un programma televisivo francese in cui ai partecipanti viene richiesto di somministrare scariche elettriche anche molto forti ad uno sconosciuto quando quest'ultimo commetta un errore in un esercizio mnemonico: è questa l'ultima frontiera horror-trash della televisione europea? Fortunatamente, "Zone Extreme" (questo il titolo della trasmissione) non esiste nel mondo reale: solo che le ottanta persone selezionate a partecipare al suo falso episodio pilota non lo sapevano; così come ignoravano che le urla di dolore che sentivano provenire dalla minuscola "cella delle torture" ripresa dalle telecamere erano solo il saggio di bravura di un attore professionista...
Benché a prima vista il gioco di "Zone Extreme" (documentato da un filmato del regista Michel Nik) si presenti come una provocazione contro gli eccessi dei reality estremi, esso è la riedizione contemporanea di uno dei celebri esperimenti condotti dallo psicologo sociale americano Stanley Milgram per studiare fino a dove si possa spingere l'obbedienza ad una figura percepita come autorevole. Correva l'anno 1961 e a Gerusalemme era appena iniziato il processo al criminale nazista Adolf Eichman, corresponsabile della deportazione e dello sterminio di milioni di ebrei. Il geniale quanto spregiudicato Milgram voleva capire quanto fosse solida dal punto di vista psicologico la giustificazione che molti dei macellai lordi del sangue dell'Olocausto, invocavano nel tentativo di diluire le proprie responsabilità: "Non abbiamo fatto altro che obbedire agli ordini".
I risultati degli studi di Milgram possono essere così riassunti: primo, un soggetto autorevole (nel caso di specie, un finto scienziato) è in grado di ridurre le persone che riconoscono la legittimità del suo status ad una forma di obbedienza tanto estrema che arrivano a violare i principi morali normalmente da esse riconosciuti e rispettati; inoltre, il livello dell'obbedienza è funzione del contesto in cui viene richiesta e praticata: in altre parole, esistono "situazioni" (in senso sociologico) in cui atti normalmente considerati contrari alla morale vengono percepiti non solo come accettabili, ma addirittura inevitabili. Le conclusioni dello studio, invero devastanti dal punto di vista morale, sono ancora più agghiaccianti se si considera che, nei casi in cui il torturatore e la vittima furono mantenuti ad un ragionevole grado di distanza fisica (e pertanto anche emotiva) ben il 65% delle "cavie" arrivò a somministrare quella che riteneva una scarica "molto pericolosa" alla vittima (anche in quel caso, un attore).
Il falso programma "Zone Extreme", se possibile, ha avuto un esito anche più distruttivo degli esperimenti di Milgram: innanzitutto tutte le persone contattate hanno accettato di prendervi parte; evidentemente tutte le persone cui è stato richiesto di partecipare ad un programma nel quale si arriva a torturare uno sconosciuto hanno pensato che fosse una buona idea dire di sì. Inoltre, ben 8 partecipanti su 10, nel corso della trasmissione, hanno spinto la leva del voltaggio fino al massimo livello (460 volt). In cinquanta anni il mondo cambia, e non in meglio, se il numero dei torturatori estremi cresce e se un qualsiasi presentatore TV è oggi considerato tanto autorevole quanto negli Anni Sessanta era stimato uno scienziato.
Si può dunque concludere che viviamo in una società di sadici e di dementi? Non ne è convinto Jean Léon Beauvois, psicologo sociale e coordinatore dell'esperimento "Zone Extreme", il quale, in un'intervista resa al settimanale francese L'Express, spiega: "Non bisogna credere che, per il semplice fatto che i soggetti obbediscono, lo facciano a cuor leggero. Inoltre, al fine di valutare l'eventuale sadismo dei concorrenti, abbiamo introdotto una variante del gioco in cui la presentatrice si assenta lasciando i giocatori liberi di somministrare le scariche senza poter essere influenzati dalla figura autorevole: in questo contesto, ben il 75% dei partecipanti ha interrotto la somministrazione della scossa non appena la finta vittima ha cominciato ad urlare." Il che conferma che non è il presunto sadismo a spingere le persone - in condizioni "normali" non farebbero deliberatamente del male ad uno sconosciuto - ma il cosiddetto stato eteronomico (quello in cui un sistema morale viene temporaneamente sovrascritto da un altro contrastante percepito come gerarchicamente vincente).
La gran parte delle persone, secondo Beauvois, ha investito tutte le sue abilità sociali sulla figura della presentatrice del programma: è per non scontentarla, per non entrare in conflitto con lei, che la gran parte dei partecipanti, nonostante in possesso di una normale senso del bene e del male, le ha obbedito, calpestando principi minimi di umanità. Si tratta di una forma di obbedienza subdola e molto pericolosa. Gli stessi soggetti che ne restano vittime sono pronti ad autoingannarsi pur di riconciliare i loro principi generali con il singolo comportamento deviante: racconta Beauvois, infatti, che alcuni concorrenti intervistati dopo la conclusione dell'esperimento hanno sostenuto di aver sospettato che si trattasse di una burla, ma di aver comunque deciso di proseguire. Altri, che hanno detto di aver capito sin dall'inizio che si trattava di un falso programma, sono però stati sorpresi a tentare di suggerire le risposte alla "vittima" del gioco, al fine di risparmiargli la terribile punizione prevista.
Sono, chiaramente, posizioni incoerenti: come si può proseguire un gioco tanto dannoso se si anche il minimo dubbio che sarà coinvolta veramente una persona? E perché passare le risposte sottobanco se si è consapevoli che è tutta una farsa? Sono solo modi per razionalizzare comportamenti di cui intimamente ci si vergogna, spiega Beauvois.
Una cosa è certa, conclude Beauvois, "un esperimento come questo, che dimostra come l'80% della gente si trasformi in un torturatore se glielo chiedono in TV, riflette un potere terrificante. Questo io lo chiamo totalitarismo. Un totalitarismo tranquillo, perché non si tratta di picchiarci o sbatterci in prigione, ma pur sempre un totalitarismo". E come potremmo dissentire, noi italiani, vittime di una psico-dittatura catodica?
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di Mario Braconi
Il porno è un'industria fiorente. Secondo il Rapporto sulla pornografia 2005 dell'Eurispes (ultima ricerca disponibile in Italia sull'argomento) poco meno di 9 milioni di connazionali ne fanno uso, per un fatturato annuo stimato di poco superiore al miliardo di euro. Dati certamente sottostimati per due ragioni: prima di tutto, non incorporano le vendite effettuate tramite operatori non specializzati nel settore (come Sky), che però, senza dare troppo nell'occhio, portano nelle case dei benpensanti italiani migliaia di ore annue di filmati "proibiti" (da novembre, per motivi di budget, la pay-per-view Sky per adulti trasmette porno 24 ore su 24); ma soprattutto perché il fenomeno YouPorn consente a circa 1,5 milioni di italiani di soddisfare le loro voglie pruriginose senza metter mano al portafogli.
Poiché dunque la pornografia è un fenomeno diffuso, interrogarsi su quali siano i suoi effetti sulla quella società che la genera e la consuma è un esercizio doveroso: la pornografia, insomma, fa bene o no alla società? E' questo, grosso modo, il titolo di un articolo comparso il primo marzo sul sito internet della rivista americana The Scientist, a firma di Milton Diamond, professore di anatomia e biologia riproduttiva presso la University of Hawaii a Manoa. Diamond, dopo aver ridicolizzato negli Anni Novanta le cosiddetta Teoria della neutralità di genere, secondo la quale essere maschio o femmina è soprattutto un fatto culturale, ha condotto ricerche sul campo in Giappone ed in Croazia, concludendo che non esiste alcuna relazione provata tra incremento nella disponibilità di pornografia e numero degli stupri e dei reati sessuali in genere. Secondo Diamond, anzi, sarebbe vero il contrario: in concomitanza con un più facile accesso a materiale pornografico registrato con l'avvento di internet, il numero di questa categoria di delitti sarebbe addirittura diminuito.
Dall'analisi delle abitudini degli uomini colpevoli di violenza sessuale anche su minori, risulterebbe che essi facciano meno uso di pornografia rispetto a quelli che non si macchiano di questi crimini; sembra invece provata, secondo Diamond, la relazione tra educazione repressiva e sessuofobica e delitti di tipo sessuale. Diamond conclude proclamando la legittimità della pornografia; perorazione per certi versi preoccupante, nel senso che implica l’esistenza negli USA di una tendenza verso progetti che la rendano illegale: "Non esiste forma di libertà di cui sia impossibile abusare. Detto questo, la libertà della maggioranza non può essere conculcata per prevenire gli abusi di una esigua minoranza. Quando le persone superano certi limiti, commettono reati, per punire e reprimere i quali già esistono leggi specifiche."
L'articolo di Diamond non è però inattaccabile dal punto di vista scientifico. Kate Harding, firma del giornale online americano Salon, femminista e suffragetta dei diritti delle persone sovrappeso, dedica al professore un pezzo puntuto e preciso: innanzitutto, sostiene la Harding, Diamond non cita una serie di studi recenti secondo cui i crimini contro le donne sarebbero invece aumentati assieme alla maggior diffusione della pornografia. In generale, sostenere che il periodo in cui Diamond ha riscontrato un calo degli stupri (1970 - 1995) sia stato caratterizzato soprattutto da una maggiore produzione e consumo di materiale pornografico, appare a dir poco riduttivo: non sono forse innumerevoli i fenomeni culturali e sociali verificatisi in quegli anni che possono reclamare una qualche influenza sulla pretesa contrazione del numero dei delitti?
La Harding cita ad esempio la maggiore consapevolezza delle donne, ottenuta anche grazie all'apporto del movimento femminista. Senza contare che, per quanto Diamond si svoci a difendere la pornografia considerandola addirittura un driver di attitudini favorevoli alle donne, anche chi non mastica statistica è in grado di capire che c'è una bella differenza tra correlazione e nesso causale.
Se da un lato, continua Harding, è rinfrancante ribadire quanto possa essere dannosa un'educazione religiosa repressiva e sessuofobica, a portare agli estremi il ragionamento di Diamond sembrerebbe che gli stupratori siano tali a causa del poco porno consumato: il che implica tra l'altro che, un'eventuale maggiore diffusione del porno, non impatterebbe più di tanto i crimini sessuali (per qualche ragione gli stupratori non ne consumerebbero in ogni caso). Senza contare che il ragionamento di Diamond sembra considerare lo stupro dall'angolazione della gratificazione sessuale (dello stupratore, ovviamente) e non da quella del controllo e della violenza; che i colpevoli di crimini diversi non abbiano mai compiuto anche una violenza sessuale (magari mai scoperta né punita) e, infine, che l'educazione repressiva tenda ad influenzare solo il consumo di materiale a luci rosse anziché contribuire ad instillare esecrabili quanto sciocchi stereotipi sulla femmina ("creatura del demonio", "tentatrice" e via delirando).
Infine, a parte qualche lodevole eccezione, il materiale pornografico in circolazione (che abbia o meno l'imprimatur femminista) difficilmente contribuisce ad ispirare nei suoi utilizzatori maschi rispetto ed atteggiamenti paritari nei confronti dell'altra metà del mondo. Insomma, se pure è condivisibile la difesa della legittimità e della legalità della pornografia, Diamond non riesce a convincere completamente quando sostiene che più pornografia significhi automaticamente una società migliore e maggior rispetto per le donne. E a farglielo notare è una donna.