di Antonio Rei

Invece dei 15 minuti di gloria alla Andy Warhol, Guillermo Ochoa ne ha avuti 90. Fino all'ultima stagione era il portiere dell'Ajaccio (retrocesso nella serie B francese), oggi è senza contratto. Per il resto della sua vita, tuttavia, potrà dire di aver profanato il tempio davanti ai sacerdoti, proteggendo il suo Messico e fermando il Brasile sullo 0-0 nella seconda partita del mondiale carioca.

Certo, le parate multiple e spettacolari di Ochoa sono un fattore importante (memorabile il riflesso su una cannonata di testa da due metri firmata Thiago Silva), ma non l'unico né il più importante per spiegare l'abulia dei verdeoro. Se davvero sono loro i favoritissimi di questa Coppa del Mondo, perché giocano in casa e si chiamano Brasile, i ragazzi di Scolari faranno bene a ricordarsene in fretta.

Dopo l'esordio di mezza rapina contro la Croazia, ieri i padroni di casa non hanno beneficiato di rigori creativi e, invece di progredire, hanno messo in luce addirittura qualche elemento di regressione. Ciò che più stupisce è l'inconsistenza dell'attacco.

La domanda è una sola: se vuole giocare con un centravanti di peso là davanti, perché mai il buon Felipe ha convocato solo Fred e Jo per questo ruolo, ovvero due giovanotti con la mobilità di una libreria Ikea appena montata? Non era meglio fare una telefonata a Diego Costa, invece di lasciarlo giocare con la Spagna?

Subito dietro ai centravanti-boa-elemento d'arredo, Neymar tocca bene la palla, tira delle grandi punizioni, è rapido, ma da solo non può fare molto. Se nessun compagno fa movimento, nemmeno con tutta la visione di gioco del mondo si mette qualcuno davanti alla porta. Tanto meno con quattro messicani attaccati alle caviglie per un'ora e mezza.

Quanto al pacchetto arretrato, come si diceva una volta, suscita una certa solidarietà il povero Thiago Silva, l'unico davvero esperto nella nobile arte della marcatura e nella gloriosa pratica dell'anticipo. L'affidabilità difensiva di David Luiz è uno spettacolo sconsigliato ai deboli di cuore, mentre i due terzini, Marcelo e Dani Alvez, hanno nel dna la sgroppata sulla fascia, non la copertura.

E dire che ieri i due talenti di Real e Barcellona non sono stati efficaci nemmeno in spinta, non riuscendo mai ad aprire la difesa messicana, né a portare via un singolo uomo.

Non va meglio a Oscar e Ramirez, a dir poco evanescenti sulle ali. In mezzo, invece, passare era quasi impossibile, perché il 3-5-2 messo in campo da Miguel Herrera ha chiuso quella porta a tripla mandata, mentre dietro il veterano Marquez ha guidato la linea difensiva con un cipiglio ai limiti dell'eroico.

Certo, il terzo avversario del Brasile sarà il Camerun, ben più modesto sia del Messico sia della Croazia, per cui è fantascienza immaginare che ai verdeoro possa sfuggire la qualificazione. Ma, dopo il risultato di ieri, la partita conclusiva del girone non sarà l'inutile formalità che tutti si aspettavano. Almeno un gol servirà. Aspettando un po' di samba, che per ora non si sente neanche in lontananza.

di Fabrizio Casari

Un’Italia intermittente ma come sempre cinica, ha battuto un’Inghilterra davvero poco convincente. E' vero, non c'è stato da stropicciarsi gli occhi per il bel gioco o la velocità, però si giocava in un clima amazzonico pieno di calore e umidità che poco t'invita a correre e la palla doveva rotolare in un campo più adatto ad un incontro tra scapoli e ammogliati che ad una partita del campionato del mondo.

Ma ad ogni modo l'Italia ha giocato bene ed ha meritato di vincere. Attenti al possesso palla, sebbene con un modulo tutt’altro che iper-offensivo gli azzurri sono stati capaci di affondare il colpo nel momento giusto e con il giocatore giusto. Una sola punta di ruolo, Balotelli, con Marchisio dotato di licenza (anzi d'obbligo) d’inserimenti verticali e Candreva che ha mostrato il lavoro vero dell’ala, abbiamo purtroppo patito l’assenza di Chiellini (dirottato a sinistra per cause di forza maggiore) e la conseguente presenza al centro della difesa di Paletta, giocatore davvero modesto che solo una svista di Prandelli può aver immaginato come soluzione migliore di Ranocchia.

Dalle parti di Paletta abbiamo davvero rischiato di subire gol a raffica: saltato, aggirato, anticipato, il difensore di origini argentine ha passato davvero una brutta serata e nulla lascia immaginare un diverso proseguire. Il rientro di De Sciglio sistemerà il pacchetto arretrato e le coronarie

La squadra di Hogson ha cercato di non far ragionare i nostri centrocampisti con una marcatura sia sul portatore di palla che sui suoi possibili appoggi che, nelle intenzioni, doveva essere destinata ad impedire la nascita delle trame di gioco sin dalla nostra difesa. Invece che innervosirsi per una modalità non prevista nello schieramento dell’avversario, l’Italia ha saputo mantenere il controllo della palla e la supremazia a centrocampo grazie alle qualità tecniche di De Rossi, Pirlo, Verratti e Marchisio e alla spinta sulle fasce di Darmian e Candreva.

Un centrocampo di “piedi buoni”, ma che deve dare ancora il meglio di sé, dal momento che Verratti è in qualche modo sacrificato dall’imminenza di Pirlo che gioca a pochi metri da lui. Servirebbe forse un modulo a rombo per esaltarne meglio le caratteristiche, ma ad ogni modo l’Inghilterra è riuscita a metterci in difficoltà solo con la velocità.

Aver cominciato il Mondiale battendo i bianchi della perfida Albione non sarà un risultato storico ma almeno ha il pregio di tirarci fuori da subito dalla partita “dentro o fuori” per il superamento del girone, che toccherà invece a Gran Bretagna e Uruguay, un altro mostro sacro del dio della palla ridicolizzata stavolta dalla sorpresa Costa Rica.

Succede poi che, diversamente da altre edizioni della competizione, non abbiamo patito sin dai primi 90 minuti e la sensazione è che questo mondiale, più di altri, sia stato preparato con cura dal Ct Prandelli.

Sembra presto per esaltarsi o credere in difficili obiettivi, e tuttavia questa squadra ha diverse qualità ed è assemblata in modo da poter offrire diverse possibilità di moduli. Non solo dietro, dove può schierarsi a tre o quattro, ma anche sul piano più generale dell’assetto tattico, disponendo di due ali importanti, utilissime per un 4-4-2, di un centrocampo di qualità, buono per un 4-2-3-1 o per un 4-4-3 o per uno schieramento a rombo, o per un 4-4-1.

E non c’è dubbio che, ove necessario, l’inserimento di Immobile al fianco di Balotelli potrebbe determinare un numero maggiore di soluzioni offensive e dunque una maggiore pericolosità in attacco, così come la presenza contemporanea di Candreva e Cerci sulle due fasce darebbe serie preoccupazioni ad ogni difesa.

In attesa della Costa Rica, che ai nostri occhi ha il pessimo difetto di correre a perdifiato ma l’assoluta insipienza tattica, giunge la conferma che Buffon potrà rientrare solo con l’Uruguay. Sirigu, però, offre tutte le garanzie. L'importante è non sottovalutare nessuno.

di Carlo Musilli

Immaginare un mondiale brasiliano vinto da una squadra diversa dal Brasile di Neymar è complicato, ma si può fare. Se i pronostici sbagliassero, se il fattore campo non fosse decisivo (come 64 anni fa, quando in terra carioca vinse l’Uruguay), se si riuscisse a superare anche il timore di violenze e autolesionismi vari per un’eventuale eliminazione dei verdeoro, spunterebbero due nomi: Germania e Spagna. Niente di originale, purtroppo, ma la prima è come al solito la squadra più granitica a livello atletico, mentre la seconda vanta un livello medio di tecnica che forse nemmeno i padroni di casa sono in grado di uguagliare.

Ai tedeschi manca una prima punta pesante come Gomez, ma le alternative in attacco si sprecano: da Reus a Podolski, da Götze al veterano Klose, passando per le frequenti incursioni in avanti di Müller. Senza contare la nuova capacità di palleggio a centrocampo acquisita grazie all’effetto-Guardiola sul Bayern. Quanto agli spagnoli, si può obiettare  che Iniesta e Xavi non siano più gli alieni del 2010. E’ vero, ma rimangono Iniesta e Xavi, e, con tutto il rispetto, non c’è Verratti o Pogba che tenga. In fondo, dal mondiale sudafricano che li ha visti trionfare, i rojos hanno perso soltanto una partita ufficiale: la finale di Confederation Cup l’anno scorso contro il Brasile. 

Nello stesso girone della Spagna, insieme a Cile e Australia, figura la grande sconfitta della finale di quattro anni fa, l’Olanda, che forma con il Portogallo la solita accoppiata di nazionali ricche di tradizione e talento, ma finora a secco di titoli mondiali. Le stelle degli arancioni erano e sono Robben, Schneider e Van Persie, campioni assoluti ma dal rendimento spesso altalenante. Il problema principale è l’assenza di Strootman, “la lavatrice” del centrocampo, come l’ha definito Rudy Garcia.

In casa portoghese, invece, è naturale che tutto dipenda dalle condizioni di Cristiano Ronaldo: se recupera la forma è in grado di bucare la porta di chiunque e trascinare avanti gli altri 10, altrimenti il rischio è che la squadra ricada nel vecchio vizietto del bel gioco avaro di gol. Il che sarebbe fatale, visto che CR7 & Co. dovranno affrontare un girone tutt’altro che semplice contro Germania, Stati Uniti e Ghana.

In termini di difficoltà, però, nessun girone batte il nostro. A causa di quello sciagurato pareggio di ottobre contro l’Armenia, l’Italia non era teste di serie e ora deve vedersela con Inghilterra e Uruguay, oltre che con il Costa Rica. Per gli azzurri sarà probabilmente un Mondiale al contrario rispetto al solito: frizzanti in attacco, smemorati in difesa, dove la panchina non offre ricambi all’altezza di sostituire i tre della linea juventina, a loro volta provati da un anno di allenamenti in stile Conte.

L’impatto con gli inglesi non sarà leggero: macchinosi e legnosi quanto si vuole, gli uomini di Hodgson hanno comunque una prestanza fisica e un’intelaiatura tattica che non si scardinano in cinque minuti. Occorre pazienza. Non guasterebbe anche un po’ di fortuna contro l’Uruguay, probabilmente la più forte delle quattro squadre. Sanchez è stato operato al menisco il 22 maggio, ma è in Brasile e potrebbe riuscire a far danni al fianco di Cavani. In porta però c’è ancora Muslera, il che significa che chiunque - Costa Rica compresa - farebbe bene a tirare appena la porta compare all’orizzonte, come in Holly e Benji.  

Per quanto riguarda le possibili sorprese, a detta di quasi tutti i commentatori le due mine vaganti sono Belgio e Colombia. In particolare, i cuginetti sempre scherniti dai francesi stavolta si presentano al Mondiale con una formazione che sembra superiore alla Francia stessa, vantando talenti come Hazard, Mertens, De Bruyne, Dembélé, Januzaj e il buon vecchio capellone Fellaini.

La squadra di Mark Wilmots è giovane, fantasiosa e nelle qualificazioni ha stupito tutti, mettendo a segno 26 punti senza perdere nemmeno una partita e buttando fuori quel che resta della Serbia. Il Belgio potrebbe essere davvero la sorpresa del 2014, anche perché non è proprio in un girone di ferro: dovrà giocare con Algeria, Corea Del Sud e Russia.

Le velleità colombiane, invece, risultano molto ridimensionate dal forfait dell’attaccante-star Radamel Falcao. In ogni caso, anche per i gialli sudamericani il girone contro Grecia, Costa d’Avorio e Giappone è più che abbordabile. La Colombia, infatti, può contare sulle stelle Carlos Bacca del Siviglia e Jackson Martinez del Porto, ma anche su molte conoscenze del nostro campionato, ovvero Cuadrado, Ibarbo, Zuniga, Zapata, Yepes e Armero.

Ancora più light il girone dell’Argentina, che non dovrebbe avere problemi ad arrivare prima davanti alla Nigeria, all’Iran e alla grande sorpresa Bosnia. Sulla carta, è difficile immaginare un potenziale offensivo più forte di quello biancoceleste, che può contare su Di Maria, Messi, Higuaìn, Agüero, Palacio e Lavezzi. Resta incomprensibile a livello calcistico l’esclusione di Tevez, ma si dice sia stato il sovrano assoluto Messi a porre il veto sulla convocazione dell'Apache.

Il vero incubo per gli argentini è dietro: in difesa, ma soprattutto in porta, dove il titolare è Sergio Romero, di cui la Sampdoria si è liberata optando per il prestito al Monaco. Peccato che in Francia Sergio faccia il panchinaro e non giochi praticamente mai, eterno secondo dietro al croato Subaši?. Chissà se Dzeko, Ibisevic e Pjianic ne sono informati.

di redazione

Nel modo più assurdo, rocambolesco e improbabile, alla fine la Decima arriva. Il Real Madrid batte 4-1 i cugini dell'Atletico in finale di Champions League e mette in bacheca il titolo più importante, quello che le consente di salire in doppia cifra nei trionfi europei. A guardare solo il punteggio si penserebbe a una passeggiata. Tutto il contrario: mai risultato fu più bugiardo di questo.

Fino al 93esimo minuto il vantaggio è per i colchoneros, che a una settimana dalla vittoria nella Liga hanno una mano e mezza sulla loro primera Champions, la coppa che li consegnerebbe alla leggenda. Il sogno sfuma a una manciata di secondi dalla fine di un recupero forse troppo lungo: Simeone chiude la stagione in lacrime, mentre Ancellotti entra nel pantheon delle merengues.

E dire che per un'ora e mezza il campo sembrava raccontare un'altra storia. All'ottavo minuto Diego Costa, stella dell'Atletico, è costretto a uscire. Diceva di aver recuperato dall'infortunio di sette giorni fa contro il Barcellona, ma non era vero. Nel Real ce l'ha fatta Cristiano Ronaldo, ma manca per squalifica Xabi Alonso. E si vede. Nel primo tempo la manovra dei blancos è ingessata, la palla non gira, fioccano i lanci lunghi, quasi tutti sbagliati. Tutt'altra musica in casa Atletico, dove a tenere le redini è Gabi, per 90 minuti un giocatore quasi perfetto: ruba palla, corre, ringhia e dirige l'orchestra.

La prima occasione della partita è alla mezzora. Tiago sbaglia un passaggio, Bale ne approfitta e arriva in area, ma ciabatta fuori. Dopo cinque minuti arriva il gol dei biancorossi grazie a una follia di Casillas, che esce tre metri dalla porta senza alcun motivo e si vede scavalcare da un pallonetto di Godin, che aveva colpito di testa all'indietro senza troppe velleità.

Nella ripresa si vede per la prima volta CR7, che prima impegna Courtois con una punizione deviata, poi sfiora di testa mancando di un pelo l'incornata del pareggio. Rispunta anche Bale, prima su inserimento centrale, poi con una sgroppata sulla fascia, ma il risultato è sempre lo stesso del primo tempo.

La ragnatela tattica tessuta dal cholo sembra tenere. I colchoneros disinnescano sul nascere le ripartenze delle merengues con un pressing altissimo. Il Real non si distende, non ragiona, è costretto ad attaccare una difesa sempre schierata e continua a sbagliare lanci e cross. Quando prova a entrare palla al piede si perde in troppe finezze e sbatte contro l'organizzazione semplice e precisa dell'Atletico, che sembra avere le idee molto più chiare.

Nell'ultimo quarto d'ora, però, la musica cambia. La squadra di Simeone arretra, si schiaccia, pensa di poter proteggere il risultato abbassando improvvisamente il baricentro e concede un filotto di cross facili agli avversari. Il Real prende fiducia e guadagna una valanga di corner, l'ultimo dei quali si rivela decisivo. E' il 93esimo quando Sergio Ramos incoccia di testa e spedisce nell'angolino, alle spalle di Courtois.

Nei supplementari le squadre si allungano. La grinta di Simeone e la fiducia dei tifosi colchoneros sono commoventi, ma nell'aria di Lisbona si sente chiaramente come andrà a finire. Il Real fa la partita, ora corre di più. L'Atletico è stremato mentalmente e fisicamente, eppure nella prima frazione aggiuntiva resiste. Alla fine però l'acido lattico è troppo, scorre anche nelle sinapsi del cervello. Sono tutti fermi come statue, compresi i difensori.

E nel secondo tempo supplementare il Real passa tre volte: prima Bale di testa dopo una giocata da urlo di Di Maria, poi Marcelo con un destro dal limite, infine Ronaldo dal dischetto. CR7 arriva a 17 reti e migliora il record storico di marcature in una singola edizione di Champions, che aveva già raggiunto in semifinale contro il Bayern.

Alla squadra di Simeone non riesce quella che sarebbe stata forse la più epica impresa nella storia del calcio, ovvero il doppio trionfo (nazionale e europeo) con una squadra senza nomi eclatanti, senza stipendi a otto cifre, fatta solo d'intensità e organizzazione. Rimane una favola, ma senza lieto fine.

di redazione

Tra i quattro litiganti, il Parma gode. In un finale di Campionato che sembra scritto da Alfred Hitchcock, i gialloblù conquistano la sesta posizione, l'ultima buona per giocare l'Europa League l'anno prossimo. Decisiva la doppietta del figliol prodigo: dopo le tonnellate di fischi ricevute negli ultimi mesi, Amauri entra dalla panchina e manda ko con due testate il già retrocesso Livorno, che ha la compiacenza di lasciarlo liberissimo due volte nell'area piccola.

Gli emiliani salgono così a 58 punti e beffano di una sola lunghezza il povero Torino, fermato sul 2-2 dalla Fiorentina. Tutta l'amarezza dei granata è nelle lacrime di Alessio Cerci, colpevole di sbagliare il rigore decisivo al 93esimo minuto. Nessuno ricorderà il penalty di Rossi, il pareggio di Larrondo, il primo gol in serie A di tale Rebic e la botta su punizione di Kurtic per il secondo pareggio del Toro. Nessuno ricorderà nemmeno la parata di Rosati. Tutti, purtroppo, ricorderanno soltanto l'errore dal dischetto di Cerci.

E' la tipica ingiustizia infame del calcio, perché il centrocampista di Velletri è stato il migliore in campo della sua squadra domenica sera come per tutta la stagione. I rimpianti dei granata dovrebbero passare anche per i piedi di Immobile, Ciro il Grande, capocannoniere del Campionato, ma colpevolmente assente alla partita decisiva per uno sciocco cartellino rimediato la settimana precedente. 

La delusione domina anche in casa Milan, ma è molto più vicina alla rassegnazione. Per qualche minuto il miracolo sembra possibile: il Toro perde, Amauri non si è ancora ricordato quale sia il suo mestiere, i rossoneri sono incredibilmente qualificati. Poi però tutto cambia e i tifosi del diavolo devono fare i conti con la realtà: l'anno prossimo, per la prima volta nelle ultime 15 stagioni, non vedranno la loro squadra in Europa. Il 2-1 sul Sassuolo è inutile e ha anche il sapore della frustrazione, visto che gli uomini di Seedorf chiudono in nove per le espulsioni rimediate da Mexes e De Sciglio.

La quarta contendente per il sesto posto era il Verona, che però capisce rapidamente che aria tira al San Paolo e abbandona quasi subito i sogni di gloria. Alla fine è 5-1 per gli azzurri, grazie alle doppiette di Zapata e Mertens e alla rete in apertura di Callejon.

Rimedia una sconfitta anche l'Inter, che però, già certa della quinta posizione, sfrutta l'occasione per buttare nella mischia un po' di riserve e di ragazzini. Sui giovani si può lavorare, su Carrizo un po' meno: il secondo portiere nerazzurro spiega a tutti la scarsa fiducia in lui riposta da Mazzarri facendosi bucare ben due volte da Obinna, l'ex di turno, che tira molto forte ma non proprio con la precisione di un chirurgo.

Chiude il quadro della domenica sera l'1-0 casalingo della Lazio sul Verona. Una partita insipida, di quelle che si vedono a fine Campionato fra 22 giocatori che non hanno più alcun motivo per giustificare i propri stipendi. Decide un rigore di Biglia al terzo minuto di recupero.

Quanto alle partite delle 15, non si vede grosso impegno neanche in Catania-Atalanta (2-1) e Genoa-Roma (1-0). Allo Juventus Stadium è invece una passerella per gli uomini di Conte, che sgranocchiano 3-0 il Cagliari e scavallano quota 100 in classifica, arrivando a 102. Mai nessuno come loro in Europa. Dove però i Campionati viaggiano su altri livelli.


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