di Sara Michelucci

Capelli corti, lentiggini, corpo acerbo, calzoncini rossi e scarpe da tennis. È facile confondere Laure per un ragazzo e lei, che in realtà vorrebbe esserlo per davvero, lo lascia fare. Anche ai nuovi amici che ha conosciuto nell’ennesimo trasferimento della sua famiglia in una nuova città. Diventa così Michael, ragazzino di dieci anni che sa giocare a calcio, fare a botte e far innamorare le ragazze, come Lisa. È proprio lei la prima che Laure/Michael incontra nel cortile sotto casa e che farà entrate nel gruppo di ragazzini che giocano lì intorno. Ma la cosa non può durare a lungo.

Tomboy, il nuovo lavoro della regista francese Céline Sciamma, gioca proprio sull’identità sessuale di questa ragazzina che si confonde e confonde chi gli sta attorno. Torna anche in questo lavoro la scoperta della sessualità nella fase puberale e adolescenziale, ma anche la scoperta di se stessi, delle proprie emozioni, scardinando luoghi comuni e stereotipi.

Bella e significativa la scena in cui gli altri ragazzi, dopo la partita di pallone a cui ha partecipato anche  Laure, fanno pipì vicino ad un albero, mentre lei è costretta a nascondersi nel bosco e alla fine, in preda all’ansia di essere scoperta, se la fa sotto. Derisa dai compagni, corre a casa e lava di nascosto i suoi amati pantaloncini rossi che mette ad asciugare nell’armadio. È il suo segreto, che non può condividere neppure con la amata sorellina Jeane la quale, però, scoprirà presto tutto.

Ma la rivelazione definitiva, lo smascheramento vero e proprio (Laure sarà costretta a indossare panni femminili), arriverà quando sua madre scoprirà che ha picchiato un compagno, ma che tutti pensano sia un maschio. L’inizio della scuola è dietro l’angolo e il gioco dei travestimenti non può continuare. Così Laure/ Michael dovrà confessare tutto ai suoi compagni, ma soprattutto a Lisa, con cui c’è stato anche un piccolo bacio.

Letteralmente Tomboy significa maschiaccio, una ragazza che presenta caratteristiche o comportamenti considerati tipici di un ragazzo, tra cui l’uso di vestiti maschili o il prediligere giochi e attività che sono spesso di natura fisica e che sono considerati in molte culture “da maschi”.

Già nel precedente Naissance des pieuvres, la regista aveva esplorato l’universo della sessualità femminile, con la storia di due amiche quindicenni, Marie e Anne, alle prese con i primi amori e i problemi adolescenziali. Un giorno Marie, assistendo ad un’esibizione di nuoto sincronizzato, si invaghisce di una delle nuotatrici, la coetanea Floriane. Anche qui i ruoli sembrano confondersi per poi allinearsi alla fine. In Tomboy, la scena finale è esemplificativa del fatto che Laure, svelando il suo vero nome a Lisa, accetterà anche se stessa, ma senza modificare il suo modo di comportarsi o di abbigliarsi. 

Tomboy (Francia 2011)

regia: Céline Sciamma
sceneggiatura: Céline Sciamma
attori: Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy, Ryan Boubekri, Yohan Véro, Noah Véro, Cheyenne Lainé
fotografia: Crystel Fournier
montaggio: Julien Lacheray
produzione: Bénédicte Couvreur/Hold Up Films & Productions in co-produzione con Arte France Cinéma, Lilies Films
distribuzione: Teodora Film

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

La bocciatura del Festival del cinema di Venezia - con fischi e risate durante la proiezione per la stampa - del film di Cristina Comencini, Quando la notte, non si può dire fosse senza cognizione logica. Il nuovo lavoro della regista de La bestia nel cuore resta un po’ troppo impigliato in alcune esasperazioni, dove le tematiche in ballo sono tante, forse troppe, come la maternità, la depressione, l’istinto materno, un amore tormentato, il sentirsi inadeguati come genitori, e altro ancora. Temi importanti, duri, che però forse vengono estremizzati e rischiano così di venir ridicolizzati.

Il film trae ispirazione dall’omonimo romanzo scritto proprio dalla Comencini. È estate, Marina (interpretata da Claudia Pandolfi) è in montagna sul Monte Rosa con il figlio di appena due anni, sola di fronte alla propria incapacità di essere la brava madre che dovrebbe e vorrebbe essere. Affitta una casa, il cui proprietario è Manfred (Filippo Timi), un montanaro rude e silenzioso, che nasconde con la ruvidezza il trauma di un doppio abbandono e sembra che questo taciturno individuo la spii e la tenga sotto controllo.

Una notte qualcosa accade nell’appartamento di Marina. Manfred interviene, il bambino è ferito e lui lo porta in ospedale. Da quel momento, si mette sulle tracce di una verità inconfessabile che Marina ha nascosto a tutti, persino al marito. Ma anche lei riesce ad arrivare al segreto di Manfred, facendogli capire di sapere l’abisso della sua fragilità. Si arriva così a una sorta di “nudità dal profondo” e Manfred e Marina sono l’uomo e la donna che si guardano, si sfidano, si desiderano e forse si vogliono morti, tanto è intollerabile ed estremo il loro bramare.

La storia ruota tutta attorno all’attrazione e a un amore estremo, quasi nocivo. Il lato oscuro del sentimento materno e il lato oscuro del desiderio s’intrecciano e si combattono in un certo senso. Un duello, una sfida, un’estasi che non può durare.

Siamo di fronte a due anti eroi, due personaggi “negativi” che vanno contro la morale comune, quella che vuole che ogni donna sia anche mamma. Marina in realtà rifiuta la maternità nel suo io più profondo e rischia addirittura di lasciar morire il figlio. Manfred ha vissuto l’abbandono della madre e si è trovato solo con il padre e gli altri due fratelli. Inoltre anche Manfred viene lasciato dalla moglie Luna, che però porta con sé i suoi due figli. Vengono alla mente anche i vari fatti di cronaca che hanno scosso l’Italia negli ultimi anni, come l’omicidio di Cogne, con una madre accusata di aver ucciso il proprio bambino.

Insomma tematiche importanti, come la difficoltà di essere madri o di crescere senza una madre, sono quelle su cui cresce Quando la notte che, però, resta impigliato in una rigidità e non naturalezza che non lo fanno essere un bel film.

Quando la notte (Italia 2011)
regia: Cristina Comencini
sceneggiatura: Cristina Comencini, Doriana Leondeff
attori: Filippo Timi, Claudia Pandolfi, Thomas Trabacchi, Denis Fasolo, Michela Cescon, Manuela Mandracchia, Franco Trevisi
montaggio: Francesca Calvelli
musiche: Andrea Farri
produzione: Cattleya
distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Il digitale domina nel nuovo film di Lars Von Trier, Melancholia, con l’incipit iniziale che è tutto incentrato su immagini create al computer, che ripropongono uno scenario onirico, surreale, dove dominano luci oscure, pianeti minacciosi che si avvicinano alla Terra, scenari spaziali che ricordano molto 2001 Odissea nello Spazio. Veri e propri quadri, dipinti con il mouse e che mettono in scena una disperazione che solo successivamente sarà spiegata e placata. Melancholia è un pianeta, che si avvicinerà alla Terra ma, secondo gli scienziati più razionali, non la toccherà. C’è invece chi pensa che non sarà così, che la Terra verrà distrutta dalla collisione con questo pianeta.

Lo sa certamente Justine (interpretata da Kirsten Dunst che si è aggiudicata anche la Palma d’oro a Cannes come miglior attrice protagonista), ragazza apparentemente felice, che si è appena sposata e si sta recando con il marito al ricevimento organizzato da sua sorella Claire (una sempre brava Charlotte Gainsbourg) e dal cognato John (Kiefer Sutherland) nella loro villa.

Ma quella notte tutto cambia, Justine non può essere felice. Non ci riesce, perché lei sa. Sa che l’unica forma di vita nell’universo è quella che c’è sulla terra, che siamo soli e che se la Terra sarà distrutta non ci sarà più nessuna opportunità per l’umanità. La depressione la fa da padrona su questa giovane protagonista, che abbandona il marito appena dopo le nozze, nonostante gli sforzi di Claire per renderla felice.

Dopo la festa, Justine sprofonda nei suoi disturbi psichici, cerca conforto nei genitori divorziati, ma sia sua madre, una gelida Charlotte Rampling, che suo padre, un anziano latin lover, interpretato da John Hurt, si dimostrano egoisti. Solo Claire la capisce e vuole aiutarla, nonostante provi anche rabbia per questa sorella così infelice. La mattina successiva la accompagna per un giro a cavallo e durante la cavalcata Justine guarda il cielo e si accorge che una stella, Antares, è misteriosamente scomparsa. Il presagio si sta compiendo.

Questa è la prima parte del film, il primo capitolo come piace a Von Trier che ormai usa la divisione tipica dei libri per i suoi ultimi film. La seconda parte, invece, è dedicata a Claire. Justine, ormai in forte crisi depressiva, viene ospitata nella villa in cui la sorella vive insieme al marito John e al figlio Leo. Insieme aspettano l’evento astronomico del secolo, l’avvicinarsi del pianeta Melancholia alla Terra. Claire è in ansia per questo avvenimento, perché crede che le cose non andranno come previsto dagli scienziati e da suo marito, ma che la Terra verrà distrutta.

Cominciano a verificarsi le prime anomalie: i cavalli si imbizzarriscono, ci sono strani eventi atmosferici e l'aria diviene quasi irrespirabile. Da qui sarà un susseguirsi di avvenimenti nefasti e Justine, Claire e Leo alla fine si terranno per mano aspettando l’arrivo di Melancholia.
Von Trier torna a raccontare qualcosa di concreto come la depressione (cambiando una lettera melancholia diventa melanconia), che ha accompagnato anche la sua esistenza, scegliendo toni catastrofisti, ma senza spingersi troppo oltre, come aveva fatto nel precedente Antichrist. La morte, non solo fisica ma anche spirituale, la paura di essere soli, la finitezza dell’umanità, la mancanza di un dio salvatore, sono tutti elementi che creano un senso di angoscia che successivamente verrà in parte placato dal fatto che nel momento finale il conforto si può trovare nell’amore dei proprio cari, in un contatto che è solo terreno e che non rimanda a nessun aldilà. Una concretezza che si sprigiona nelle mani unite dei tre protagonisti (due donne e un bambino) che affronteranno insieme il passaggio finale.

Le dicotomie fanno questo film: le differenze tra Justine e Claire, quelle tra i due genitori, quelle tra ragione e presagio, tra felicità e disperazione. Sono tutti punti di partenze, ma anche punti di arrivo verso un concetto di emotività ed emozione che segnano un passaggio.

Melancholia (Danimarca, Francia 2011)
regia: Lars von Trier
sceneggiatura: Lars von Trier
attori: Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Kirsten Dunst, Charlotte Rampling, Udo Kier, Stellan Skarsgård, Alexander Skarsgård, John Hurt, Brady Corbet
fotografia: Manuel Alberto Claro
produzione: E1 Entertainment, Tristar Pictures, CNC See
distribuzione: BIM distibuzione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Rossetto rosso, cerone, ciuffo ribelle, passo lento e incerto, risatina buffa. Questo è Cheyenne, il nuovo personaggio creato da Paolo Sorrentino, protagonista del film This must be the place. Una rock star ormai fuori dalle scene che, alla morte del padre che non vede da ben 30 anni, parte alla ricerca dell’aguzzino del genitore, un ex criminale nazista ora nascosto negli Stati Uniti.

Un on the road denso di incontri con quell’America fatta di cameriere dai sogni spezzati, bambini grassocci e senza padre che hanno paura dell’acqua, madri disperate alla ricerca del proprio figlio e ragazze che sognano nel chiuso della loro camera una serenità perduta. Poi bambole e pupazzi, feticci di un orrore che sembra passato, ma che in realtà è ben nascosto e presente tra le fessure di una casa o nei meandri stessi della società.

Il tratto intimistico di Sorrentino è ben visibile anche in questo ultimo lavoro, dove si scandaglia un passato doloroso che fa da specchio ad un presente che lo è altrettanto. Una rock star ricca, che ha accanto una moglie “solida” e che lo ama da ben 35 anni (interpretata dalla sempre brava Frances McDormand), ma che ha un vuoto dentro: la mancanza di un figlio, di qualcuno che verrà dopo di lui, una scelta che ormai è troppo tardi da fare. Ma anche di una vita nuovamente attiva, con un lavoro conclusosi forse troppo presto.

Il peso dell’insoddisfazione Cheyenne se lo porta sempre dietro, manifestandosi di volta in volta nel carrello della spesa o nella valigia che lo accompagna nel viaggio verso la ricerca del carnefice nazista. Una ricerca che è anche quella con se stesso, con il suo passato, l’infanzia e quello che non ha mai detto a suo padre.

Bravissimo Sean Penn, che riesce a dare al personaggio grande spessore, caratterizzandolo in ogni minimo dettaglio. Quasi una caricatura, come piace a Sorrentino che già nel Divo riusciva a descrivere in maniera dettagliata e anche surreale uno dei grandi protagonisti politici del nostro tempo: Giulio Andreotti. Anche questa volta sceglie nuovamente l’elemento surreale e tragicomico per raccontare le gesta di questo buffo cantante alle prese con se stesso.

Tornato a mani vuote dal Festival di Cannes, This must be the place ora mira a conquistare un Oscar ai prossimi Academy Awards. E chissà se questo rocker annoiato e un po’ matto riuscirà a portare in Italia la prestigiosa statuetta.

This must be the place (Francia, Italia, Irlanda 2011)
regia: Paolo Sorrentino
sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
attori: Sean Penn, Judd Hirsch, Frances McDormand, Kerry Condon, Eve Hewson, Joyce Van Patten, David Byrne, Shea Whigham, Tom Archdeacon, Harry Dean Stanton, Seth Adkins, Simon Delaney, Gordon Michaels, Robert Herrick, Tamara Frapasella, Sarab Kamoo, Liron Levo
fotografia: Luca Bigazzi
montaggio: Cristiano Travaglioli
musiche: David Byrne
produzione: Indigo Film, Lucky Red, ARP Sélection, Element Pictures, Pathé, Irish Film Board, Section 481, Eurimages Council of Europe
distribuzione: Medusa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Freud e Jung. I due pilastri della psicoanalisi del Novecento. Due personaggi caratterizzanti quella conoscenza della natura psicologica umana che ha influenzato tutta la letteratura successiva. E in mezzo a loro una donna: Sabina Spielrein. Forza distruttrice, da un lato, ma creativa dall’altro e che riesce a tirare fuori la vera natura di Jung, nonostante le loro strade si separeranno.

David Cronenbergh sceglie uno strano menage a trois nel suo nuovo film A Dangerous Method, per raccontare la storia di questi due grandi uomini, ma anche di una donna che è riuscita a imporsi in un universo prettamente maschile, studiando medicina e superando i suoi problemi psichici. Al centro della trama c’è la storia d’amore intensa e travagliata tra il grande psicanalista svizzero (interpretato da Michael Fassbender) e la psicoanalista russa (di cui Keira Knightley veste i panni). Entrambi avranno rapporti con il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, interpretato da un bravo Viggo Mortensen, ormai attore feticcio di Cronenbergh.

Zurigo e Vienna sono lo scenario delle scoperte in nuovi territori della sessualità e dell’intelletto. Nella trama è coinvolto anche Otto Gross, paziente incline alla depravazione, che scardina i pilastri della morale comune con il suo comportamento e le sue idee. Cronenbergh esplora la sessualità e lo fa attraverso la scienza messa in campo dai tre protagonisti che saranno in grado con le loro opere di cambiare per sempre il pensiero moderno.

Il film poggia sulla sceneggiatura di Christopher Hampton, che ha basato per il grande schermo un suo lavoro teatrale del 2002, a sua volta ispirato al libro di John Kerr “Un metodo molto pericoloso”, del 1993. Già un altro autore, questa volta italiano, aveva parlato di Jung e delle sue relazioni extraconiugali con Sabina Spielrein: Roberto Faenza con Prendimi l’anima, dove però il rapporto d’amore ha il sopravvento su tutto il resto, rimanendo l’elemento narrativo centrale.

Nel caso di Cronenbergh, invece, si dà spazio anche a rapporti altri, come quelli con Freud o Gross, e la figura stessa della Spielrein viene resa sotto più vesti: amante, ma anche donna che lavora e che riesce a imporsi nello scenario scientifico dell’epoca, mostrando carattere e determinazione per quello che fa. Jung appare molto più debole in questo e il regista dà risalto anche alla sua "deriva" mistica che lo allontanerà da Freud. Il rapporto maestro/discepolo diventa così l’altra faccia della medaglia, l’altra angolazione attraverso cui leggere i rapporti che intercorrono tra i tre personaggi. Un intreccio di corpi e menti che darà vita a una vera e propria rivoluzione culturale e scientifica.


A Dangerous Method (Canada, Usa 2011)

regia: David Cronenberg
sceneggiatura: Christopher Hampton
attori: Viggo Mortensen, Michael Fassbender, Keira Knightley, Vincent Cassel, Sarah Gadon,
Katharina Palm, André Hennicke, Arndt Schwering-Sohnrey, Christian Serritiello
fotografia: Peter Suschitzky
montaggio: Ronald Sanders
musiche: Howard Shore
produzione: Recorded Picture Company (RPC), Lago Film, Prospero Pictures
distribuzione: BIM Distribuzione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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