di Mariavittoria Orsolato

Otto milioni e mezzo di telespettatori hanno seguito l’addio di Michele Santoro alla Rai. Un addio da record che, stando alle parole del giornalista salernitano, potrebbe essere solo un arrivederci: “Io non ho ancora firmato con nessun altro editore. Da domani, teoricamente, potrei essere disponibile a riprendere questo programma al costo di un euro a puntata nella prossima stagione”. Una provocazione, senza ombra di dubbio, che però mette in evidenza quanto a malincuore Santoro stia lasciando viale Mazzini.

Già lo scorso anno l'uscita dalla Rai sembrava imminente, ora la storia si ripete, con qualche variante: la rescissione del contratto è già firmata, con tanto di 2,3 milioni di buonuscita, ma il dado non è ancora tratto, sebbene da giorni si vociferi sul suo sicuro passaggio alla La 7 di Tronchetti-Provera.

Stando ai giornali di regime, il conduttore starebbe già pensando a come monetizzare al meglio la sua defezione, investendo in quello che a breve potrebbe diventare il network dell’ingegner De Benedetti, già patron del gruppo L’Espresso. Il progetto diabolico, manco a dirlo, sarebbe quello di creare una “tv di partito” di cui Santoro sarebbe l’istrione nonchè primo content-maker.

Che queste illazioni siano veritiere o meno, di certo c’è solo che alla notizia del probabile passaggio del giornalista al terzo polo televisivo, le quotazioni del titolo in borsa hanno avuto un vertiginoso aumento del 17,5%. Dati i sorprendenti risultati di Annozero in termini di share (21% su una rete, Rai2, che di media fa il 9%) e di raccolta pubblicitaria - circa 500.000 euro a puntata - l’eventuale passaggio di Santoro a La 7 sarebbe ovviamente grasso che cola ed è naturale che i broker ci abbiano bellamente speculato sopra.

Se quanto sopra riportato si potrebbe inserire nell’ormai noto “killeraggio mediatico” tanto caro ai giornalai fedeli al premier, quello che Santoro ha indrizzato alla volta del presidente Rai Garimberti è stato un vero e proprio attacco frontale: “Visto che non ha nemmeno il coraggio di sottoporre al voto del Consiglio la mia proposta di continuare la collaborazione con la Rai - ha detto il conduttore di Annozero rivolto all’ex giornalista di Repubblica -, lo rassicuro sulla mia volontà di finire qua la polemica. È inutile - ha aggiunto Santoro - continuare il dialogo con chi cerca di imitare Ponzio Pilato senza averne la statura”.

Un affondo che ha fatto immediatamente parlare di “uso privato del mezzo pubblico” e che ha inevitabilmente scatenato il rimpallo di dichiarazioni sdegnate, con Garimberti che rimpiange di non aver avuto anche lui a disposizone una platea di 8 milioni e mezzo di spettatori ma di essersi dovuto accontentare della sala stampa di viale Mazzini - peraltro negata allo stesso Santoro - per rispondere alle accuse el giornalista salernitano. Bagatelle tra colleghi insomma che però rendono inevitabilmente al Paese l’immagine di una Rai sempre più fratricida e soffocata dalle logiche politiche.

L’addio di Santoro al pubblico di Annozero giunge in ogni caso al termine di una giornata particolarmente critica per la Rai che, a poche ore dal commiato della sua gallina dalle uova d’oro, non riesce a dare il via libera in Cda ai nuovi palinsesti autunnali, nonostante il direttore generale Lorenza Lei avesse completato in tempi utili il lavoro di preparazione.

I cinque consiglieri di maggioranza hanno platealmente disertato la riunione perché contrari alle garanzie su rinnovi e contratti per i programmi di punta di Raitre, poste dall'opposizione come condizione indispensabile per il voto a favore dei palinsesti. La dg Rai forse pensava di essere riuscita a guadagnarsi il viatico verso la conferma dei palinsesti di Raitre con la contrattazione dell’uscita di Michele Santoro, ma per i consiglieri di maggioranza la defezione del “nemico pubblico numero uno” pare non essere bastata.

Con o senza Santoro, a viale Mazzini i lavori per la nuova stagione sono dunque comunque bloccati e il danno economico all’azienda di Stato potrebbe non essere irrisorio, soprattutto in termini di raccolta pubblicitaria. Se la Lei sta combattendo una battaglia, praticamente in solitaria, per garantire i palinsessti della terza rete è perché appunto questi sono gli unici a portare introiti importanti per l’azienda.

La volontà da parte della maggioranza di azzoppare ulteriormente il cavallo Rai è manifesta e, stando al Fatto Quotidiano, dietro a questo ostruzionismo starebbe l’ultima stoccata che il premier vuole dirigere verso la Rai: l’eliminazione dai palinsesti di tutte le voci fuori dal coro berlusconiano sarebbero funzionali a quella che potrebbe essere l’imminente campagna elettorale delle politiche. Ma forse gli italiani anno già deciso di cambiare pagina.

 

di Mariavittoria Orsolato

La stagione televisiva 2010-2011 si è chiusa ufficialmente il 31 maggio e come ogni anno il medium televisivo si conferma ancora al primo posto nei cuori degli italiani. Resistenti all’incedere inesorabile di Internet e dei suoi contenuti on demand, uomini, donne e bambini della penisola continuano a spendere buona parte del loro tempo libero davanti al teleschermo.

Il tempo dedicato alla televisione è superiore a quello passato a svolgere qualsiasi altra attività, ad eccezione del lavoro e dello studio (ammesso e non concesso che le ore di lavoro siano effettive e che buona parte di chi lavora, lavori anche il sabato e la domenica, e che le ore di studio, siano piene, feriali e festive).

In media la popolazione italiana sopra i quattro anni, circa 58 milioni di persone, dedica alla tv 289 minuti al giorno, stando al risultato delle elaborazioni sui dati Auditel per il periodo 12 settembre 2010 - 28 maggio 2011. La buona notizia è che non tutti si piazzano davanti ad un televisore acceso: sono 6,8 milioni le persone che ne hanno fatto a meno ed il loro tempo di tv è zero.

Gli stessi dati Auditel sulla stagione televisiva appena conclusa portano anche una cattiva notizia, rendendo un quadro impietoso della televisione generalista. Soprattutto per quanto riguarda le ammiraglie di Mediaset e Rai. Nel periodo che va dal 12 settembre 2010 al 28 maggio 2011, i numeri elaborati dallo Studio Frasi e riportati dal Sole 24 Ore mostrano come Rai 1 abbia perso oltre un punto di share mentre il portabandiera del Biscione lascia sul terreno ben 114.000 spettatori, scendendo sotto i due milioni di telespettatori usuali e cedendo ben due punti di share.

Questa fuga in massa dalla tv analogica va, com’era prevedibile, tutta a favore dei nuovi canali proposti dal digitale terrestre. Il successo di Rai4 e Iris ma anche di Boing - il canale per bambini della piattaforma Mediaset - dimostra che la disaffezione riguarda soprattutto la “vecchia formula” generalista e che gli italiani, se hanno facoltà di decidere, preferiscono guardare canali tematici. Sintomo di questa nuova tendenza il boom di Real Time - rete che fa capo a Discovery Italia e che è stato trasferito dalla piattaforma Sky a quella del digitale terrestre - che in meno di 10 mesi è riuscito a guadagnare la bellezza di 50.000 nuovi telespettatori.

Con la moltiplicazione di canali e piattaforma la “coperta” degli ascolti si è accorciata in modo esponenziale e a farne le spese sono stati dunque soprattutto Canale 5 e Rai 1. Ma anche per gli altri canali cosiddetti “analogici” le cose non vanno meglio. Rai 2 registra un -0,7% di share complessiva, mentre Italia 1, il canale “giovane” targato Mediaset, perde 54.000 spettatori scivolando al quinto posto tra le reti con più sintonizzazioni. Gli unici segni più rintracciabili nella classifica stilata dall’Auditel riguardano Rai 3 - che guadagna 76.000 spettatori - e La 7 che, complice sicuramente “l’effetto Mentana”, si accaparra ben 80.000 nuovi ascoltatori.

Che questo sia un segno dell’incipiente sgretolamento del berlusconismo potrebbe non essere solo un’opinione. Stanchi delle banalità e del trash imperante nelle ammiraglie Rai e Mediaset, gli italiani che sono già passati alla piattaforma digitale hanno abbandonato le vecchie reti per le nuove che, con la loro tematizzazione, offrono indubbiamente un range più vasto per l’intrattenimento da divano. Se poi teniamo conto che lo switch off ha interessato finora solo 13 regioni su 20, i dati della disaffezione ai dinosauri di Rai 1 e Canale 5 dovrebbero essere ancora più impietosi.

In questa battaglia a perdere c’è da dire che in ogni caso la tv di Stato continua la sua rimonta sul Biscione: tenendo conto della media degli ascolti, sempre tra settembre e maggio, bisogna arrivare alla 30esima posizione per trovare un contenuto trasmesso da Cologno Monzese. In cima alle preferenze degli italiani c'è ancora il vetusto Festival di Sanremo (11,5 milioni di telespettatori), poi la Formula 1, che con il Gran Premio di Abu Dhabi (10,6 milioni di sintonizzazioni) supera lo sport nazionalpopolare per eccellenza - l’amichevole Italia-Germania si piazza solo al nono posto. C’è poi il successo del commissario Montalbano, che con diversi episodi occupa rispettivamente il terzo, quarto, quinto e sesto posto della top ten.

Insomma, nonostante i continui tentativi di restyling, la televisione generalista sembra perdere definitivamente la partita con le nuove piattaforme. Forse perché in Italia niente è più democratico del telecomando.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Ennesima defezione per il Tg1 di Augusto Minzolini: dopo Maria Luisa Busi, Tiziana Ferrario, Piero da Mosso, Raffaele Genha, Paolo Di Giannantonio e Massimo de Strobell, anche la conduttrice dell’edizione notturna e storico volto della cronaca, Elisa Anzaldo, ha formalmente rassegnato le dimissioni dal suo incarico. La motivazione è sempre la stessa ovvero l’incompatibilità deontologica con la linea editoriale del direttore, argomentata con due diverse lettere, la prima delle quali recapitata il 19 Aprile scorso, alla quale ha fatto seguito la seconda, pochi giorni fa.

“Non posso più rappresentare un telegiornale che ogni giorno rischia di violare i più elementari doveri dell’informazione pubblica come equilibrio, correttezza, imparzialità e completezza dell’informazione - ha scritto la giornalista catanese, in una missiva recapitata al direttore Minzolini - e per motivi professionali e deontologici non ritengo più possibile mettere la faccia in un tg che fa una campagna di informazione contro”.

La Anzaldo chiedeva perciò di essere sollevata dalla conduzione in quanto non era più disposta a “mettere la faccia” in un giornale che deliberatamente distorce l’agenda informativa a favore della maggioranza di governo.

Quello di martedì è stato però solo l’epilogo di una vicenda iniziata, appunto, lo scorso 19 aprile, quando il noto mezzobusto del tg dell’ammiraglia Rai aveva scritto la prima lettera al suo direttore contestando dettagliatamente una “scomparsa dei fatti” a suo parere assolutamente sistematica e funzionale al gioco di Berlusconi. Dal Rubygate al palese disinteresse per lo scandalo milanese dei manifesti sui pm brigatisti, fino all’assurdità giornalistica del servizio che accomunava il rinvio a giudizio dell'ex segretario del Quirinale Gifuni con l'arresto del prefetto Ferrigno per reati sessuali.

Queste solo alcune delle accuse (più che circostanziate) che, forse proprio in ragione della loro natura, non hanno ricevuto risposta dal “direttorissimo”, se non con il fatto che per lui, Augusto Minzolini, quelle non erano semplicemente notizie. Perciò le “tesi” di Elisa Anzaldo sono state replicate in data 11 maggio e poi affisse direttamente alla bacheca del Tg, per non lavare i panni sporchi in una casa come la Rai, che per quanto appaia blindata rimane sempre di proprietà pubblica.

A spingere la giornalista a divulgare la querelle interna alla redazione è stato il soliloquio di Berlusconi trasmesso dal Tg1 - e da tutte le altre testate, escluse Tg3 e tg La7 - lo scorso venerdì: l’ennesima recidiva del primo Tg italiano, in spregio alla par condicio, é costata 250.000 euro alla rete e nel comitato di redazione sono stati in molti a esternare il loro malcontento tempestando la bacheca di redazione con messaggi di sfiducia al direttore.

In ballo infatti, oltre alla fuga in massa di giornalisti valenti, c’è anche quella del pubblico che sempre più spesso decide di cambiare canale e sintonizzarsi - nella maggior parte dei casi - sul telegiornale di Enrico Mentana. Se infatti una volta il Tg dell’ammiraglia Rai era considerato uno dei pochi, se non l’unico, gatekeeper affidabile, ora sotto la direzione di Minzolini la scelta dell’agenda ricalca l’iper-faziosità e l’anti-deontologia per eccellenza del tg4 di Emilio Fede.

Scontato dunque che i telespettatori abbandonino la fidelizzazione verso mamma Rai e volgano il loro interesse verso testate che, per quanto pur sempre parziali nella loro agenda, rispettano per lo meno la salienza delle notizie.

La proposta di modifica dell’articolo 1 della Costituzione da parte del deputato Pdl Remigio Ceroni, così come l’arresto di due assessori leghisti, secondo il direttorissimo non sono cronache meritevoli di nota sull’ammiraglia dell’informazione pubblica, e non importa che giornali, testate online e televisive abbiano dedicato intere pagine alle vicende. Il criterio di selezione delle notizie di “Minzolingua” - come viene parodisticamente apostrofato - non risponde ai dettami della deontologia professionale ma ha come unico e solo referente il premier e quello che a quest’ultimo può giovare in termini di immagine pubblica.

Non si spiegherebbe altrimenti la scomparsa dei servizi sulla Napoli sommersa dai rifiuti o sul rinvio a giudizio dell’ex commissario della Protezione Civile Bertolaso. Ma per Minzolini la frustrazione e le conseguenti dimissioni della Anzaldo “E’ una cosa che riguarda lei”.

La risposta del direttore del Tg1 al gesto dell’Anzaldo, per quanto nelle intenzioni mirasse di certo a liquidare sbrigativamente la pruriginosa vicenda, inquadra indirettamente il problema che sta alla base delle continue defezioni dalla sua testata. La coscienza professionale di un giornalista non dovrebbe essere cosa facilmente svendibile al potente di turno - come lo è stato per Minzolini e per i tanti, troppi volonterosi epigoni - ma impone di opporsi, e naturalmente di imporsi, ogni qual volta si senta intimamente che qualcosa non va.

Elisa Anzaldo ha percepito a livello epidermico la paradossalità del fare informazione senza informare ed ha agito di conseguenza, rivendicando il suo ruolo professionale in seno a quell’articolo 21 della Costituzione che indica il diritto dei cittadini ad essere informati in modo ampio e completo. I giornalisti veri, come Elisa Anzaldo, sono a ricordarlo anche ai ruffiani più impenitenti.

 

di Mariavittoria Orsolato

Si è presentato in studio con la riproduzione della sua testa mozzata, ma è difficile che il suo ego espanso volesse suggerire quello che nemmeno 12 ore dopo si è verificato. “Ci tocca anche Vittorio Sgarbi”, la trasmissione dell’incontenibile critico d’arte ferrarese, concessa per non meglio specificate questioni di equilibrio politico, chiude infatti i battenti già dopo l’esordio.

Più che un debutto una débâcle dunque: appena due milioni di telespettatori per un misero 8,27% di share, la metà di quello che solitamente Rai1 riesce a guadagnare in quella fascia oraria, hanno portato i vertici di viale Mazzini a decidere per la sospensione del programma che avrebbe dovuto replicare per altre cinque serate, una la prossima settimana e altre quattro a settembre.

L’approdo di Sgarbi sulla rete ammiraglia della Rai era partito con le inevitabili polemiche del caso. Si parlava del lauto compenso destinato al critico d’arte e dei costi spropositati di realizzazione, segnalando nel primo caso il milione di euro destinato contrattualmente a Sgarbi e nel secondo i faraonici 1,4 milioni di soldi pubblici previsti per l’allestimento di ogni singola puntata. Si diceva poi che la vedova di Lucio Battisti avesse espressamente richiesto alla Rai di cambiare il titolo della trasmissione che, come ha poi affermato lo stesso Sgarbi, doveva intitolarsi “Il mio canto libero”.

Quello che è anche sindaco di Salemi è però riuscito a spostare immediatamente il baricentro della querelle, facendo del suo programma una sorta di agiografia di sé stesso. Introdotto dalle note dell’Inno alla Gioia, Sgarbi ha esordito ripetendo come un mantra quel “capra, capra, capra!” che l’ha reso noto anche ai giovanissimi - un tormentone degno del peggior Zelig - per poi passare ad un infinito soliloquio sulle sue migliori intenzioni televisive e non. Gli ospiti, prima il vescovo di Noto poi il vituperato Morgan fino a Fausto Leali, ridotti a fare da spalle mute ad uno Sgarbi incontenibile che manda letteralmente “al cesso” il pubblico che lo disturba con il suo vociare e che monopolizza quella che sulla carta doveva essere una scaletta, ma che si è inevitabilmente trasformata in un’improvvisazione di due ore.

Il tema della prima puntata avrebbe dovuto essere Dio, ma dopo le insistenze della nuova dg Rai Lorenza Lei, il critico d’arte ha virato verso i verso i propri padri - da papa Luciani a Walter Chiari, da Cossiga a Pasolini - col risultato che Sgarbi ha finito per tromboneggiare sui suoi modelli, sulla sua non certo auspicabile storia in tv e addirittura sulla sua paternità negligente, con la carrambata del figlio non voluto ma poi accettato (che, da sottolineare, ci tiene a farsi presentare come Carlo Brenner e non Carlo Sgarbi). Come biasimarlo?

Nelle due ore di sgarbiloquio c’è stato anche il posto per l’immancabile invettiva contro “la macchina del fango” rappresentata da certa stampa, nello specifico Il Fatto Quotidiano, rea di aver riesumato il giorno della messa in onda le accuse di Oliviero Toscani - il fotografo ed ex assessore del comune guidato da Sgarbi - secondo cui il maggior sponsor nella corsa a sindaco di Salemi sarebbe stato Giuseppe Giammarinaro, un ex esponente della Dc con forti interessi nella sanità locali e con amicizie poco raccomandabili.

In quello che altro non si potrebbe definire se non uso privato della televisione pubblica, il critico d’arte ha raccontato in lungo e in largo le sue vicissitudini siciliane, giustificando l’interesse della stampa con l’ovvia intenzione di mettergli i bastoni tra le ruote e rovinargli il debutto in prima serata. Al traditore Toscani ha invece dedicato dei versi di Dylan Thomas, spiegando che le sue ultime rivelazioni nascono dal rifiuto a un compenso da lui richiesto per partecipare al progetto tv di Sgarbi.

Tra gli autori del monstrum sgarbiano fortunatamente già estinto c’è, quasi a sorpresa, anche il giornalista Carlo Vulpio, che a metà puntata si lancia in editoriale in cui mette sotto accusa la gestione degli impianti eolici e fotovoltaici a sud. Una giusta sottolineatura dei rischi connessi alle probabili infiltrazioni mafiose e allo scialacquamento di fondi pubblici nonché dell’impatto sulla fauna e sulla flora locali, un tantino forzata e certo fuori luogo se si pensa che tra meno di un mese c’è in ballo il referendum sul nucleare.

Questi i contenuti di un programma che in ogni caso non rivedremo più. La televisione fatta da Sgarbi, seppur innegabilmente creativa, manca dello scheletro necessario a sostenerne il personaggio, o meglio l’istrione: una trasmissione che pare rimanere sempre in sospeso, con i tempi assolutamente stravolti e con un’improvvisazione troppo sconnessa per risultare godibile dal grande pubblico. Inevitabile dunque che la creatura venisse abortita, non tanto perché la cultura alla televisione non paga ma perché dell’egotismo di Sgarbi, nella nuova Rai di Lorenza Lei, proprio non se ne sente il bisogno.

 

di Mariavittoria Orsolato

Due anni or sono Lorella Zanardo, docente universitaria specializzata nelle tematiche inerenti al femminile, produsse un documentario a costo zero intitolato “Il corpo delle donne” nel quale si analizzava l’insindacabile presenza all’interno dei nostri teleschermi di immagini che avevano in comune l’utilizzo manipolatorio del corpo delle donne. Un j’accuse assolutamente meritorio che mirava far guardare con occhi diversi le tonnellate di carne al vento che la televisione quotidianamente ci propina.

Uscito in concomitanza del primissimo scandalo D’Addario, il documentario prodotto dalla Zanardo finì per diventare il manifesto delle tante, tantissime donne che non si sentivano - e non si sentono tutt’ora - rappresentate all’interno di una società vetero-machista come quella italiana.

Per quanto sia sempre bene ricordare che nel nostro paese sono ancora disponibili documenti di tanta levatura, la notizia non si riferisce a questo ma alla “campagna di killeraggio” che Antonio Ricci e la sua redazione stanno portando avanti contro il lavoro della docente. Da mesi, infatti, quello che Gad Lerner ha definito con una felicissima iperbole il “Dante Alighieri del berlusconismo”, sta polemizzando apertamente con la Zanardo e con quelli che, di conseguenza, propongono un’idea del femminino diversa da quella imposta dal velinismo e, agli albori, dalle ragazze di "Drive In".

Un accanimento che ha preso avvio dal contro-documentario voluto dallo stesso Ricci, denominato impropriamente “Il corpo delle donne 2”, la cui tesi di fondo era che anche i giornali cosiddetti progressisti - come quelli del gruppo editoriale L’Espresso o l’Unità - pur lanciando strali contro lo svilimento della donna in tv e nella società, sfruttano l’avvenenza femminile pubblicando sulle loro pagine quintalate di pubblicità con ragazze nude o quasi.

Se da un lato l’accusa di Ricci trova fondamento nella realtà fattuale, dall’altro l’obiettivo del suo contro-documentario non è certo quello di rendere i telespettatori più consapevoli riguardo alle battaglie di genere.

L’intento malcelato di Ricci e i suoi è, infatti, quello di fare apologia del metodo Mediaset, utilizzando l’ormai celeberrimo espediente del “così fan tutti”; un argomento del tutto fallace che la politica ha eletto da un po’ di tempo a questa parte a base del dibattito e che, sul poco reattivo pubblico italiano, riesce sempre e comunque a far presa. Ma dietro a questa querelle ci sono anche moventi del tutto personali.

Se Ricci infatti si è così incaponito con “le veterofemministe” - così le ha definite - è anche perché, giunto al traguardo dei 40 anni di carriera, pretende un’assoluzione dall’accusa di essere l’effettivo padre putativo del trash televisivo. Foriere delle conclamate forme di populismo all’italiana - il sodalizio con Grillo è cosa nota a tutti - Ricci smania affinché il suo operato torni ad essere definito come ironico, come esempio di postmodernismo, come emblema della metacomunicazione.

Le sue veline, emblema di quello svilimento del femminino secondo solo alla Flavia Vento rinchiusa sotto la scrivania di vetro di Mammuccari, devono essere riabilitate e per portare avanti questa battaglia ne addirittura ingaggiata una (la bionda Elena Barolo, velina dal 2002 al 2004) come cronista.

A lei ieri è toccato il compito di affrontare una Lorella Zanardo a dir poco basita. Sorpresa all’uscita di una libreria in cui presentava il suo volume, la docente si è vista accusare di aver gettato fango sulle donne che lavorano in televisione nonostante il suo lavoro sia proprio in difesa di queste ultime.

Con tutta la protervia di cui è stata capace, la velina redenta ha investito la Zanardo di domande mendaci, senza darle minimamente lo spazio di replica (che un programma che si autodefinisce d’informazione dovrebbe riservare per ragioni di semplice completezza) né assecondando i tentativi di quest‘ultima per relazionarsi direttamente con l‘ex velina ora promossa a cronista d‘assalto. Come se le stesse veline dovessero giustificare la loro esistenza, donargli un senso cognitivo che vada oltre lo sguardo allupato.

E’ forse proprio questo che fa più male. Se infatti la condotta di Ricci è giustificabile alla luce del suo testosteronico approccio alla tv, quella delle donne di Striscia la notizia sottolinea inevitabilmente la vacuità delle loro argomentazioni.

Prime tra tutte quelle di Michelle Hunziker, che tanto si batte su cause nobilissime come la violenza di genere e lo stalking: l’aver fondato un’associazione con l’avvocatessa Giulia Bongiorno in difesa dei diritti di genere è, nel caso in cui non se ne fosse accorta, palesemente in contraddizione con il pubblico sbeffeggiamento che ha fatto del magistrale lavoro della Zanardo.

In conclusione, è bene che Ricci e i suoi si rassegnino al fatto che ormai il termine “velina” sia diventato sinonimo di una femminilità svilita, corrispondente idealtipico della bella ragazza che sculetta in televisione, equivalente dell’anti-meritocrazia per antonomasia. Facendosi bardo di quel berlusconismo che va oltre l’appartenenza politica per abbracciare una più ampia dimensione culturale, Ricci ha indubbiamente contribuito a dare quell’immagine di Italia godereccia e pappona che all’estero ci imputano in automatico. Come si suol dire, chi è causa del suo mal pianga se stesso o perlomeno - aggiungiamo noi - abbia il buon senso di rispettare un’idea difforme dalla propria.

 


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