di Mariavittoria Orsolato

Contro il recente crollo delle borse e con una crisi globale sempre più galoppante ed insidiosa per le economie nazionali, non c’è asso nelle maniche dei governi primomondisti che tenga. Che l’Italia sia annoverata a torto nella categoria sovranazionale di cui sopra lo hanno dimostrato in questi giorni quanti hanno provato a dare il loro personalissimo contributo per tentare di evitare il baratro finanziario.

Oltre alla manovra anticrisi varata nei giorni scorsi dall’esecutivo – esiziale in quelli che saranno i reali effetti e assolutamente pertinace nell’assicurare l’impunità alle varie “caste” – è da segnalare la brillante idea che Luca Cordero di Montezemolo e Roberto Formigoni hanno lanciato nei giorni scorsi, rispettivamente dalle colonne del Corriere e dallo studio de La Zanzara, programma di punta di Radio24. Secondo questi giganti del pensiero pragmatico (sic!), un’auspicabile alternativa al mettere le mani nelle tasche degli italiani e degli enti locali, entrambi abbondantemente dissanguati, sarebbe la privatizzazione della Rai. Una “ ricchezza facilmente dismissibile” secondo il governatore della Lombardia, paragonabile all’argenteria che le famiglie in difficoltà impegnano e che potrebbe fruttare alle casse statali tra i 4 e i 5 miliardi di euro se venduta al primo Murdoch che passa. Una dovuta azione di credibilità per il leader di Italiafutura che mette da parte il tradizionale aplomb di chi ha un doppio cognome e lancia un nuovo slogan populista: “prima vendete la Rai, poi venite a chiedere soldi”.

La privatizzazione della tv di Stato è considerata la panacea da tutti mali dai tempi in cui al governo c’erano i socialisti: da allora la prospettiva di batter cassa vendendo al miglior offerente il medium nazionale più seguito, ha attraversato i programmi elettorali di ogni schieramento politico, rimanendo però sempre lettera morta. Certo il desistere da tale proposito non ha radice nobile: è l’interesse evidente della lottizzazione politica – con fiction commissionate ad hoc, starlette di ogni genere e sorta da piazzare e “faziosità” da censurare ­– che non permette di prendere in considerazione l’ipotesi di privatizzare. All’intellighenzia nostrana, l’assunto che per garantire la libertà d’espressione sia necessario un network controllato dall’apparato statale non ha mai interessato, né interessa granché, ma è proprio questo il miglior argomento da contrapporre all’idea della privatizzazione in generale e della Rai inparticolare. A riprova di quanto appena affermato, il fatto che nessun partito d’opposizione ne abbia minimamente accennato.

Eppure sono passati appena due mesi dai referendum che hanno sancito la volontà degli italiani di mantenere i beni pubblici tali, di non permettere che siano svenduti a privati in nome di profitti effimeri e assolutamente non risolutivi. Quella politica che aveva osannato il responso delle urne referendarie ha già dimenticato il significato positivo e rassicurante che l’idea di bene pubblico suscita in tempi di crisi e come opposizione alla proposta dei frondisti Pdl avanza timidamente ipotesi di speculazione in termini di contenuti e non di contenitori, come fa Matteo Orfini, responsabile informazione del Pd. Nessuno che si degni di argomentare che in tempi di tracollo economico come questo, la pubblicità dei beni – anche quelli immateriali come il diritto alla correttezza di informazione e ad un intrattenimento scevro da continui richiami privatistici  – rappresenta un’ancora di salvezza e che per far fronte allo shock creato ad arte a fini di predazione, la via della svendita dei beni pubblici e comuni per ottemperare, come ha detto Tremonti, a richieste pervenute “in lingua inglese” è tristemente tafazziana.

Basterebbe veramente poco a smontare le velleità dei Montezemolo, dei Formigoni e dei Della Vedova – che ha già depositato la sua personale proposta di privatizzazione della Rai in Parlamento. Basterebbe scorrere la nostra Carta Costituzionale per dimostrare semplicemente che in Italia per i prossimi cinque anni, privatizzare i servizi pubblici è incostituzionale e non può essere fatto. Con la vittoria dei si e l’abrogazione del decreto Ronchi, che prevedeva stringenti obblighi di privatizzazione del servizio idrico integrato e degli altri servizi pubblici di interesse generale, si esclude per un lustro la possibilità di porre in essere scelte politiche incoerenti con l’esito referendario. Appena due mesi fa  la maggioranza degli italiani ha deciso che dalla crisi si esce con un settore pubblico forte, ben strutturato ed efficiente, e non indebolito da continue privatizzazioni volte solamente a far cassa al di fuori di qualunque pubblico interesse e prive di uno schema giuridico di riferimento. Ma chi ci governa e rappresenta l’ha già dimenticato.

di Mariavittoria Orsolato

L’apollo 11 sulla rampa di lancio, il countdown, Armstrong che conficca sul suolo lunare il suo vessillo, non il classico stars&stripes ma una grande M cangiante con la dicitura tv spruzzata a spray, poi una voce declama: “Ladies and gentlemen, Rock ‘n’ Roll!”. Nasceva così, trent’anni fa, MTV la televisione musicale che rivoluzionò il modo di intendere la musica, facendo evolvere la sua fruizione dall’ascolto alla vista. Ad aprire le trasmissioni, profetico, il video dei Buggles Video Killed the Radio Star, primo di una lunghissima serie di selezioni musicali che avrebbero raccontato – e spesso indirizzato - le mode e lo sconfinato mondo dei teenager.

Era l’alba degli anni ’80 e un concept del genere aveva un potenziale esplosivo per quanto riguardava la fascia di spettatori dai 12 ai 30 anni: l’idea di avere una televisione che trasmettesse praticamente solo videoclip era manna dal cielo per gli adolescenti che in quegli anni vivevano in simbiosi col walkman, ma anche ai più grandicelli non dispiaceva affatto l’idea di avere una sorta di radio con le immagini su cui sintonizzarsi solo con il telecomando. Certo i video di allora erano clip grezzi di concerti o promozionali e scontavano il peso della sempre malcelata autocensura americana - il primo video di un artista di colore ad approdare sulla rete fu Billie Jean di Michael Jackson, era il 1983 e le trasmissioni andavano avanti già da più di un anno - ma il successo del canale all music creato da Robert W. Pittman fu subito prorompente. Già nel 1984 MTV creava i suoi anti-Grammy, gli MTV Video Music Awards e nell’87 sbarcava in Europa cominciando da li a conquistare tutti continenti.

Alfiere della globalizzazione MTV, col passare del tempo e inevitabilmente sottoposta alle contaminazioni trash delle tv generaliste concorrenti, ha cominciato a produrre programmi non-musicali e ad esportarli: se in molti pensano che la paternità del reality-show spetti a John de Mol, in realtà il primo esperimento antropologico/televisivo partorito dall’etere è The Real World, reality creato da MTV nel 1992 in cui 7 estranei vivevano una convivenza forzata.

Altro prodotto cult degli anni ’90 furono le serie animate Beavis&Butthead e lo spin-off Daria che introdussero la fortunata scelta di includere gli anime come appuntamento fisso del palinsesto.

Nel 1997 vedeva la luce MTV Italia, e con lei muovevano i primi passi alcuni nomi destinati a andare oltre l’etichetta di Vj – termine coniato ad-hoc per qualificare i presentatori, sempre a metà tra speaker radio e conduttori televisivi – tra questi Victoria Cabello, Enrico Silvestrin, Camila Raznovich e Marco Maccarini. Sul finire del secolo la music television italiana era una sorta di isola felice in cui sperimentare generi televisivi assolutamente nuovi e disarmanti per il pubblico italiano. Basti pensare ai Tokusho e Kitchen di Andrea Pezzi, quell’accozzaglia di musica, cucina e sproloqui filosofici assolutamente spassosa, oppure a Brand:New il programma ideato e condotto da Massimo Coppola in cui ai pezzi della migliore musica alternativa venivano affiancate riflessioni surreali sulla fine del secolo breve.

Poi arrivano gli anni 2000, il passaggio a Telecom e sul finire decennio arriva anche la crisi: il 20 luglio 2009 i dipendenti di MTV Italia scendono in piazza per la prima volta per scioperare contro il licenziamento di 100 persone e l’isola felice sembra un po’ più uguale tutti gli altri network.

Ma dopo 30 anni cosa rimane della music di MTV? Poco o niente. Per quanto i video musicali rappresentino ancora parte del palinsesto – solitamente ad orari proibitivi – oggi MTV trasmette per lo più programmi di importazione tipicamente americana o comunque show nostrani, per la maggior parte dedicati all'attualità o al mondo dei giovani. Se questi ultimi hanno almeno il buon intento di avvicinare i giovani all’attivismo civico/ambientalista/politico/culturale, i format d’oltreoceano – come i primati di Jersey Shore o le ragazzine viziate ed isteriche di My Super Sweet 16 – cominciano a scadere nel trash più totale e in molti accusano MTV di aver apertamente sconfessato le proprie radici musicali.

In particolare, si critica la scelta della rete di trasmettere esclusivamente musica "commerciale", sorvolando su tutto l'ambiente della musica underground o rock, ma anche della musica elettronica, dance e simili. In generale, si accusa Music television di sacrificare tutta la parte non strettamente commerciale dei musicisti alla trasmissione di format ad uso e consumo degli inserzionisti pubblicitari. In effetti del Rock ‘n’ Roll sbandierato agli albori rimane quasi niente: i tempi, i giovani e soprattutto le tecnologie sono cambiate e anche MTV, arrivata all’età adulta, ha dovuto abbandonare lo spirito ribelle e anticonformista dei primi anni. Come è accaduto a molti che quel 1 agosto 1981 assistettero alla prima trasmissione, la giacca di pelle e i capelli lunghi hanno lasciato lo spazio al blazer e al mocassino perchè il grande cerchio della vita non risparmia nemmeno le tv.

di Mariavittoria Orsolato

Poco più di anno fa, l’Autorità Garante delle Comunicazioni aveva varato con la delibera numero 366/10 la numerazione automatica dei canali per la tv digitale terrestre. Una decisione che toccava direttamente tutti, cittadini e telespettatori, e che voleva evitare il rischio che si potrebbe definire "telecomando pazzo", con i numeri dei tasti e dei rispettivi canali variabili da regione a regione: un sistema automatico, previsto, per così dire, alla fonte. Ognuno sarebbe rimasto libero comunque di modificare l'ordine secondo le proprie preferenze e abitudini, programmando diversamente il televisore.

Nella pratica, i primi nove numeri erano assegnati alle tv nazionali generaliste che detenevano già i titoli legali per essere considerate e definite come tali: cioè, nell'ordine, le tre reti Rai, le tre Mediaset, La 7 e Mtv che fanno capo a Telecom e, al nono posto, Deejay Tv (ex Rete A) che appartiene al Gruppo Editoriale L'Espresso. Alle maggiori reti locali, su un totale di oltre 600, venivano attribuiti i numeri da 10 a 19. Poi, da 20 a 70, seguivano le nazionali tematiche (quelle cosiddette semigeneraliste, quelle per bambini e ragazzi, quindi informazione, cultura, sport, musica e televendite). E infine, da 71 a 99, le altre tv locali minori. Era stata proprio la lobby delle tv regionali, guidata dalle più potenti come Telenorba in Puglia e Videolinea in Sardegna, ad alzare gli scudi contro l'orientamento dell'Authority, rivendicando una priorità in virtù della propria audience e contestando quella che a loro avviso era un’assegnazione totalmente arbitraria. Alcuni governatori e parlamentari erano scesi in campo a loro sostegno, ma alla fine il Consiglio presieduto da Corrado Calabrò aveva deciso a maggioranza di tenere fermi i criteri stabiliti dalla legge, in linea peraltro con le direttive europee in materia.

Lo scorso sabato il Tar del Lazio, chiamato in causa proprio da due delle emittenti locali, la napoletana Canale 34 e la milanese Più Blu Lombardia, ha bocciato la delibera dell’Agcom e quella che potrebbe arrivare nei telecomandi della tv digitale è una vera rivoluzione. La pronuncia del Tar romano è immediatamente esecutiva, ma l'Agcom ha presentato un ricorso d'urgenza al Consiglio di Stato per ottenere - quanto meno nell'immediato - la sospensiva della decisione del Tribunale amministrativo. L'Authority sosterrebbe che l'esecutività immediata della pronuncia del Tar potrebbe comportare problemi per il prosieguo nel processo di digitalizzazione della tv in Italia che nel corso di quest'anno si dovrebbe concludere in Liguria, Toscana, Umbria, Marche e in provincia di Viterbo, portando a 14 le regioni digitalizzate in Italia.

Il Tar del Lazio però contesta proprio la metodologia con cui l’assegnazione è stata portata avanti e nelle motivazioni alla sentenza evidenzia i due vizi procedurali che avrebbero compromesso il piano di assegnazione. Il primo sta tutto nella tempistica: i 15 giorni fissati per la consultazione pubblica, sulla base delle norme del Codice delle comunicazioni, erano un periodo troppo breve, occorrevano almeno i 30 giorni canonici. Il secondo errore dell’Agcom, secondo il Tar romano, stava poi nel ricorso ai Corecom (i comitati regionali per le comunicazioni): per stabilire abitudini e preferenze degli utenti televisivi, e su quella base fissare la numerazione delle tv locali, non era corretto utilizzare le graduatorie annuali che i Corecom avevano predisposto per il riconoscimento delle misure di sostegno ministeriali alle tv locali, analizzando fatturati e dipendenti delle emittenti.

Col ricorso al Consiglio di Stato, le indicazioni del Tar rimangono per il momento congelate. Nel caso in cui il ricorso di Agcom dovesse venire accolto non cambierebbe nulla, se invece confermerà la sentenza del Tar del Lazio, si andrà alla ricerca di un altro criterio per posizionare i canali sull'Lcn (Logical channel number, ovvero quel dispositivo presente in tutti i decoder grazie a cui gli utenti possono ordinare in automatico le emittenti sui canali accessibili dal telecomando).

di Mariavittoria Orsolato

Che quella della Rai sia un’estate caldissima non lo dice solo il termometro. A viale Mazzini gli scandali si sprecano e le perdite in termini economici abbondano: il cavallo rischia di stramazzare al suolo e la direzione Lei prova a correre ai ripari, probabilmente invano. Continuare sulla strada imposta dal berlusconismo e smascherata - o riproposta - dall’inchiesta di Repubblica sulla cosiddetta "struttura Delta", significherebbe la morte certa della tv di Stato.

Ma il Cda è ancora preda dello spoil system imposto dalle ultime politiche ed è scontro su tutto: dalle nomine ai palinsesti, dal calo di ascolti per la rete ammiraglia alle indagini interne verso i volonterosi carnefici dell’informazione, Minzolini in primis. Ad aggravare ulteriormente la situazione ci sono poi le difficoltà della raccolta pubblicitaria, con stime allarmanti per i ricavi 2011, che potrebbero scendere sotto i 1.000 milioni, invece dei 1.050 preventivati a inizio anno.

Ma andiamo per ordine. Che cos’è la struttura Delta di cui tanto si è parlato? In realtà nulla di nuovo. Solo l’ennesimo titolo giornalistico per descrivere l’intricata rete di rapporti tra la Rai e Mediaset costituita da manager vicini a Berlusconi che da anni agisce - nemmeno tanto nell’ombra - per pilotare i notiziari e i palinsesti in modo favorevole al premier.

Manager del biscione che suggerivano ai dirigenti Rai come preparare il Festival di Sanremo, lamentele per le scarse inquadrature di Berlusconi durante i funerali del Papa o palinsesti concordati per coprire notizie sgradite al premier e dare massimo risalto a quelle che lo mettevano in buona luce. Insomma, cose che dal celeberrimo editto bulgaro di dieci anni fa tutti si aspettavano accadessero. A viale Mazzini la vicenda è stata liquidata dalla dg Lei con un’indagine interna, richiesta dal vicedirettore generale, Gianfranco Comanducci, che probabilmente lascerà il tempo che trova.

Per mamma Rai, ora come ora, il problema è tutt’altro e riguarda i conti che, complice lo switch-off del digitale e l’allontanamento di galline dalle uova d’oro come l’Annozero di Santoro e Vieni via con me della premiata ditta Fazio-Saviano, non torneranno nemmeno con la finanza creativa alla Tremonti. Con gli introiti pubblicitari in caduta libera, la direzione generale sta pensando di attuare una “manovrina” per recuperare qualche milione perso per strada.

Allo studio, insieme al ministero dello Sviluppo economico, misure più rigorose per la riscossione dell’odiato canone Rai, sempre più evaso e ora al 27,4% medio, ma con picchi del 60% in alcune regioni, per un totale di 600 milioni di mancato introito. Viale Mazzini sposa quindi la teoria del Titanic proposta dal ministro dell’Economia e obliterata dalle Camere: batter cassa dai cittadini e nessun dietrofront sui metodi fallimentari che hanno portato alla crisi.

Non è un caso infatti se, esattamente come lo scorso anno e l’anno prima ancora, alla vigilia della stagione autunnale programmi come Report e Parla con me, campioni di ascolti e importanti fonti d’introito pubblicitario, sono ancora in forse. Per il programma di Serena Dandini, il ritardo nella conferma è dovuto ad un problema di ordine legale che dovrebbe essere risolto in tempo utile. Siccome la Rai è considerata un soggetto pubblico, quindi sottoposto ai controlli della Corte dei conti, non si può affidare senza gara un programma a una società di produzione esterna, in questo caso la Fandango, che vende alla Rai il prodotto della Dandini. Superato questo cavillo burocratico, dal Consiglio di Amministrazione dovrebbe arrivare il via libera per il talk show di seconda serata di RaiTre.

Più controverso il caso di Milena Gabanelli e del suo agguerrito gruppo di reporter. La manleva che la giornalista chiede a tutela del proprio lavoro, con l’accollo integrale del rischio di soccombenza in capo all’azienda in caso di dolo o colpa grave, è considerata molto rischiosa, anche in termini di possibile responsabilità in danno erariale, dai vertici legali dell’azienda. Peccato che in 14 anni di Report “abbiamo ricevuto - precisa la Gabanelli al Fatto Quotidiano - solo una condanna di 30.000 euro (e abbiamo fatto ricorso) per una presunta violazione della privacy, ma nessuna sentenza definitiva a nostro sfavore”. Insomma pare che per la squadra di Report il problema non sia tanto la copertura legale ma, a detta della stessa giornalista, i malumori di Tremonti - spesso “preso di mira” a causa del taglio spesso economico del programma - che già si è rivolto all’Agcom per contestare il “mancato pluralismo informativo” che la trasmissione avrebbe abbracciato nelle puntate dedicate alle manovre fiscali del governo.

Anche in questo caso, dunque, pesa la mano visibile della maggioranza politica. Una mano cara al Tg1 di Augusto Minzolini, last but not least tra le spine nel fianco della Rai. Nel periodo maggio-luglio la sua testata avrebbe perso oltre 3 punti di share nell'edizione delle 13 e il 4.88%, con circa 500mila spettatori in meno, nell'edizione delle 20. Inoltre il presidente Paolo Garimberti ha ribadito la “forte preoccupazione” per i contenuti e per gli ascolti del telegiornale dell’ammiraglia, inadeguati a suo giudizio alla tradizione della testata.

La storiaccia sull’abuso della carta di credito aziendale non è ancora stata del tutto archiviata - nonostante il Minzo abbia assicurato dalle colonne de Il Giornale di aver già restituito i 65.000 euro di maltolto e aver così risolto l’equivoco - ed ora il testone pelato del direttore del tg1 potrebbe saltare col cambio di stagione. In due anni di direzione, il suo telegiornale è arrivato al disastro in termini di ascolto e con gli spettatori sono fuggiti anche gli inserzionisti, lasciando un buco da 10 milioni di euro nelle già dissanguate casse di viale Mazzini.

Salutata come la panacea di tutti i mali, la direzione Lei si trova adesso ad affrontare una serie di questioni spinose, tutte legate a doppio filo a quelle che saranno le evoluzioni politiche del prossimo autunno. Ma non è detto che, anche una volta esaurito l’estenuante ultimo atto del berlusconismo, le cose a viale Mazzini tornino a girare nel verso giusto.

 

di Cinzia Frassi

Ballarò, Che tempo che fa, Parla con me, Report, tutti programmi promossi dal Consiglio di amministrazione della Rai che ha approvato ieri i palinsesti del prossimo autunno con otto favorevoli e un astenuto, Antonio Verro, consigliere della maggioranza. La decisione arriva dopo settimane di attesa, di polemiche e nel clima attorno alla rottura con Michele Santoro. Dopo l’ultima puntata di giovedì scorso, Annozero lascia spazio al post Santoro, una stagione di svolta. Una trasmissione riuscitissima e con un conduttore che ha praticamente reso inservibile alle altre reti le ore in cui era lui ad andare in onda fin dai tempi di Samarcanda, Il rosso e il nero, Sciuscià, per citarne alcuni.

E’ come un sipario che ad un tratto si apre per mostrare una scena che lascia temere per le sorti del servizio pubblico. La puntata di chiusura di Annozero su Rai2 ha fatto una media di 8 milioni e 380 mila telespettatori. Stiamo parlando del 32% e oltre dello share, che in chiusura è diventato un bel 46%. Sono ascolti che non capitano tutti i giorni, pari solo ad alcuni eventi annuali come Sanremo. La raccolta pubblicitaria di questa storica trasmissione è straordinaria e rinunciarvi non lascia spazio a dubbi circa la volontà di mettere in ginocchio la Rai attraverso il meccanismo dell’epurazione, costi quel che costi. Coprire il buco di Annozero poi, tenendo conto anche delle condizioni difficili dei conti Rai, costa molto.

Che fare?  Secondo Bruno Vespa, intervistato recentemente da Mentana nel Tg di La7, “visto che l'alibi Santoro è caduto, cominci, per favore, caro presidente (Berlusconi ndr), ad autorizzare il legame alla bolletta energetica dei canoni speciali e vedremo come andrà. L'agonia della Rai è un prezzo che non siamo disposti a pagare". Questo l’invito di Vespa in una lettera al cavaliere, che ripropone la ricetta del ministro alle Comunicazioni Paolo Romani per garantire il budget necessario al carrozzone Rai.

La raccolta pubblicitaria, grazie anche alle scelte (non molto) strategiche e l’evasione indisturbata del canone, non offrono motivi per pensare ad un futuro roseo per il servizio pubblico. In una recente conversazione tra il ministro Romani e il neo direttore generale, Lorenza Lei, avrebbero proprio parlato della questione del gettito del canone e della sua imposizione attraverso l’utenza elettrica. Immaginiamoci l’insorgere dei cittadini davanti ad una proposta del genere.

I problemi di canone, i palinsesti imposti e le epurazioni, sembra non siano grane di casa a La7, che dovrebbe essere la prossima casa per il programma targato Santoro. A quanto pare il terzo polo, dopo l’annuncio di un probabile arrivo del conduttore di Annozero, è balzato in borsa con un salto del 17% non appena si è solo ventilata l’ipotesi di un contratto a suo nome: il balzo in borsa sulla Tv di Telecom Media, si è tradotto in un valore pari a 29 milioni di euro. Tanto vale Santoro.

Proprio il direttore del Tg Enrico Mentana, intervistato a “Tutta la città ne parla” su Radiorai 3, ha detto che “pressioni stanno arrivando anche su Telecom, che è il nostro editore, perché è ovvio che scardinare la logica del duopolio è molto di più e molto peggio che intaccare il servizio pubblico. Qui stiamo parlando di colossali aspetti economici e pubblicitari e anche, ovviamente, di controllo dell'informazione".

Stando seduti sulla poltrona del telespettatore, sembra un passaggio piuttosto semplice: dalla Rai a La7. Ma le implicazioni societarie non la fanno così facile. E’ vero che la risoluzione del contratto con Rai non prevede nessun accordo di non concorrenza, dall’altra però l’arrivo di un giornalista con la storia di Michele Santoro, e dello share che può portare con sé, fa gola ad un’emittente che non sembra poter reggere solo con l’effetto trainante del ritorno in Tv di Mentana.

I rumors che si spendono abbondanti in queste ore sono i più vari. Ci sarebbe niente meno che Google ad interessarsi ad una partecipazione in Telecom Italia Media, a dare ascolto ad alcuni commenti a seguito dell’incontro tra Franco Bernabè e l’ex Ceo di Big G Eric Schmidt a St. Moritz in occasione dell’ultima riunione del Bilderberg.

Un'altra ipotesi è l’intervento di De Benedetti, che secondo alcuni potrebbe appunto “scardinare la logica del duopolio” come ha detto Mentana. Il fatto è che Santoro, con tutta la sua ciurma compreso Travaglio, insieme a nomi già consolidati in casa La7 - e certamente in quota alla sinistra come Gad Lerner, Luisella Costamagna, Luca Telese, Enrico Vaime - di certo potrebbe diventare il nuovo pericolo rosso delle notti del cavaliere. A questo proposito, Enrico Mentana ha già espresso grandi perplessità su De Benedetti, visto come un editore che non garantirebbe l’attuale libertà. Una possibilità di espressione senza pressioni che Mentana richiama sempre, in tutte le interviste rilasciate in questi ultimi giorni.

Intanto, in attesa di capire quale sarà lo scenario del prossimo futuro per La7 e Michele Santoro, chi volesse candidarsi, può aiutare mamma Rai a trovare un degno “sostituto” del giornalista di Annozero e capace di raccogliere audience e introiti pubblicitari si faccia avanti. Il cavaliere dispone di risorse assai limitate come Paragone o Belpietro. Roba da 3% di share, se va bene.

 

 


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