di Mariavittoria Orsolato

I 150 anni dell’unità nazionale sono stati certamente un evento più mediatico che sentitamente patriottico. L’esplosione di tricolori alle finestre degli italiani non si è verificata ed anche a livello istituzionale le celebrazioni si sono svolte nel solito strascico di polemiche, con una Lega volutamente assente e con un Presidente del Consiglio fischiato praticamente ad ogni manifestazione ufficiale. Di unità in Italia, insomma, ce n’è ben poca e dato che, secondo l’accezione comune, uno degli strumenti che più hanno contributo a limare le distanze culturali e geografiche della penisola è senz’altro la televisione, la programmazione delle tv di stato e private del 17 marzo è consistita in un tripudio di retorica nazionalista.

Dalla pubblicità alla fiction, dai programmi d’intrattenimento ai telegiornali e talk di informazione, il tempo si è fermato 24 ore per ricordare ad un livello quasi ridondante la giornata in cui non tanto venne dichiarata l’unità nazionale, ma piuttosto il Regno di Sardegna cambiò denominazione in Regno d’Italia. Dai Rai1 a La7 tutti intenti a dire che senza Garibaldi, Cavour e Mazzini la nostra sarebbe ancora una penisola preda degli interessi stranieri. Tutti a ricordare quanto eroica e quanto grande fu l’impresa di giubbe rosse e bersaglieri. Solo Santoro, in apertura di "Annozero", ha avuto almeno la decenza di informare sul fatto che a livello storiografico le questioni sul risorgimento italiano sono ben lungi dall’avere pareri univoci.

Se infatti l’idea di un’Italia unita è riscontrabile fin dal XV° secolo con Macchiavelli e Il Principe, per quanto riguarda il Risorgimento la genesi della coscienza nazionale fu un processo tutt’altro che unitario, lineare o coerentemente definito. Diversi programmi, aspettative ed ideali, a volte anche incompatibili tra loro, confluirono in un vero e proprio crogiuolo: vi erano in campo quelli romantico-nazionalisti, repubblicani, protosocialisti, anticlericali, liberali, monarchici filo Savoia o neoguelfi; c’era l'ambizione espansionista di Casa Savoia verso la Pianura Padana e la voglia di sottrarre il Lombardo-Veneto agli austriaci.

Una miriade di istanze diverse, dunque, che per la maggior parte vennero tradite dagli esiti finali dell’unificazione. L’unità d'Italia, affermano molti storiografi, fu il risultato di un compromesso tra la monarchia sabauda troppo debole per unificare il paese da sola e un movimento democratico, altrettanto debole per poter fare una rivoluzione popolare. E un compromesso non è certo una vittoria.

Come disse con incredibile lucidità il giornalista Ugo Ojetti, “l’Italia è un Paese di contemporanei senza antenati né posteri perché senza memoria di se stesso”. La televisione, pur prescindendo dall’informare correttamente gli spettatori, è un’importante ingranaggio nel sistema di produzione della memoria collettiva e quello a cui abbiamo assistito giovedì non è stato altro se non una rappresentazione acritica e astorica.

A "Qui Radio Londra" Giulianone Ferrara sproloquia sul “prezioso” patriottismo dell’ex comunista ed internazionalista proletario Napolitano e indica nei giudici che fecero Mani Pulite uno dei “pasticci” della storia d’Italia; nel Matrix di Alessio Vinci il 150° viene celebrato con il principe senza terra Emanuele Filiberto di Savoia, con il sudista Pino Aprile, lo storico Lorenzo del Boca e il leghista Davide Boni: un poker d’assi.

Che dire poi di "Centocinquanta", il programma della rete ammiraglia condotto dalla strana coppia Pippo Baudo e Bruno Vespa? Le due cariatidi di viale Mazzini, scelte idealmente per alternare il registro dell’intrattenimento a quello storico, sono riuscite a produrre uno spettacolo desolante in cui le vicende dell'Italia unita sono state rappresentate con scene cantate e ballate, apprezzabili o da un pubblico geriatrico o dalla fascia di spettatori dei Teletubbies.

L’unico momento istituzionale, quello del discorso di Napolitano, è stato immediatamente guastato da quella che dopo l’esilarante e delirante spot di Alfonso Luigi Marra è a tutti gli effetti un’icona del trash catodico: una Manuela Arcuri impellicciata e ingioiellata ha commentato lo spettacolo pirotecnico - decisamente modesto - offerto dal comune di Roma  con la verve di un veglione di capodanno e con tanto di esclamazioni giulive come “Auguri Italia, buon compleanno!”. Dieci minuti indimenticabili.

Insomma per quanto la televisione nostrana si sia prodigata nell’immettere buoni sentimenti e amor di patria, i risultati non sono stati confortanti. In barba alle recriminazioni della Lega il 17 marzo doveva essere una festa nazional-popolare, ma è dovere di cronaca segnalare che, dalle Alpi alla Sicilia, il tricolore ha avuto una funzione decisamente più aggregativa il 9 luglio 2006. Che poi, alla fine, il nazionalismo e il patriottismo non erano valori di destra?

 

di Mariavittoria Orsolato

Il ritorno in tv di Giuliano Ferrara, dopo l’addio a Otto e mezzo e a La 7 tre anni fa, è quanto di più onanistico l’infotainment nostrano abbia prodotto. Autocelebrativo fin dal titolo, "Qui Radio Londra", in onda da domani su Rai1, non è altro che la fedele riproposizione del programma che diede la notorietà televisiva al direttore de Il Foglio e ne segnò l’approdo sulle reti di Silvio Berlusconi.

Cinque minuti in quello che fu lo spazio del "Fatto" di Enzo Biagi, nei quali il giornalista affronterà quelli che dovrebbero essere i temi d’attualità. Secondo le anticipazioni si parlerà “di politica, economia, teologia. Niente ospiti, niente interviste, niente servizi - spiega Ferrara all'Ansa - solo la mia opinione”. Il problema è proprio quello.

Conoscendo i precedenti del corpulento scribacchino, Qui Radio Londra rischia di diventare un rinforzo positivo per le baggianate appena trasmesse dal tg1 di Augusto Minzolini. Calando questa coppia di “cani da riporto”, come li definirebbe Marco Travaglio, lo slot preserale della rete ammiraglia diventa un’irresistibile cassa di risonanza per l’Esecutivo e, ovviamente, per Berlusconi. La sinistra, infatti, insorge, denunciando che il poker d’assi filo-governativo programmato per la primavera/estate 2011 - che vedrà anche Bruno Vespa e Vittorio Sgarbi in prima serata, sempre sui Rai1 - è praticamente un’occupazione dell’emittente pubblica degna del MinCulPop dei tempi d’oro.

Ferrara è una personalità da sempre vicina al premier: nel 1994 fu il suo Ministro per i rapporti con il Parlamento, poi fu candidato di Forza Italia e la Casa delle Libertà e, in più, è da lui direttamente stipendiato in quanto editorialista del Giornale e rubrichista di Panorama. Un bel personalino insomma, che promette di rendere assolutamente incredibile la nuova striscia serale di Rai1. E per incredibile s’intende ovviamente il senso letterale.

Qui radio Londra sarà infatti la copia sputata di quel Radio Londra che dal 1988 al 1994 venne trasmesso da Canale5 e Italia1. Se allora la trasmissione terminò con la celeberrima “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, oggi il barrito dell’elefantino non avrà nessun limite etico. Dopo la campagna antiabortista portata avanti nel 2007 dalla poltrona di "Otto e Mezzo", è difficile credere che i cinque minuti di sproloquio non abbracceranno altre cause utili al tornaconto di papi. Prima tra tutte la delegittimazione dei processi istruiti contro il premier.

Nell’intervista pubblicata su La Repubblica il 10 marzo, Ferrara giudica il processo Ruby “un processo stregonesco, messo in piedi da pedinatori, giornalisti e magistrati”. Il direttore de Il Foglio ha poi dichiarato che per ogni puntata il suo cachet è di 3.000 euro per un totale di 1,5 milioni di euro in tre anni. Cifre consistenti per una striscia di soli cinque minuti in cui il massimo sforzo di Giuliano Ferrara sarà quello di far ruotare la sedia della sua scrivania, sempre che non abbiano ricreato la scrivania girevole identica a quella di ventitre anni fa.

La Rai pagherà quindi Ferrara un tanto al chilo, dimentica della scarsa considerazione che il giornalista le attribuì bruciando platealmente il bollettino del canone inviato dall’Intendenza di Finanza. Era il 1993 e, nonostante le posizioni ultragarantiste adottate a seguito di Mani Pulite, Ferrara spiegò che il gesto era atto a chiedere le dimissioni dell’allora direttore generale Locatelli, colpevole a suo dire di aver in qualche modo agevolato gli affari della moglie, Anna Maria Rossi.

Onore al vero, le recriminazioni di Ferrara e della Lega Nord - anch’essa aveva pubblicamente chiesto le dimissioni dell’allora dg Rai, per lo scandalo LombardFin - vennero avallate dalla Corte di Appello di Milano e nel 1994 Locatelli lasciò viale Mazzini per La Voce di Montanelli. Ma questa, come direbbe l’ottimo Lucarelli, è un’altra storia.

Da domani comunque Giuliano Ferrara andrà ad occupare quella nicchia intoccabile che fu di Enzo Biagi. La Rai pagherà 3000 euro al giorno affinché Ferrara svolga comizi filo-berlusconiani all'universo mondo. Senza che ciò, ovviamente, abbia una qualche relazione con la legge della domanda e dell'offerta, giacché é noto come le opinioni di Ferrara interessino solo ai suoi parenti più prossimi e al suo datore di lavoro unico. Le fallimentari vendite del suo giornalino stanno lì a dimostrarlo.

E quanto al suo gradimento in video, in termini di audience il confronto con il predecessore, mostro sacro e compianto di un giornalismo totalmente alieno dai toni e dai modi di quello attuale, si annuncia ancor più arduo: sarà difficile, infatti, riempire quel vuoto lasciato dall’editto bulgaro, soprattutto in termini di competenza e completezza giornalistica. Paradossalmente la più grave mancanza dell’elefantino è proprio la misura.

di Mariavittoria Orsolato

Nella foga di compiacere il grande capo, alcuni parlamentari si stanno facendo prendere decisamente la mano. Dopo la proposta - fortunatamente ritirata - per la prescrizione brevissima per gli over 65, è giunta sui tavoli della Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai la proposta di alternare la conduzione dei programmi d’approfondimento giornalistico in prime time. Una norma che definire paradossale è un eufemismo e che, nella sua astrusa pretesa, indica chiaramente quali siano i reali target del provvedimento: Ballarò e Annozero.

Questo capolavoro normativo è il parto del senatore Alessio Butti, assiso in commissione in quota Pdl, e mira negli intenti dichiarati a garantire quel pluralismo tanto invocato dai telefoni di Arcore. In pratica, secondo il senatore Butti - che immaginiamo essere particolarmente affezionato al premier, altrimenti questa castroneria non si spiegherebbe - Floris e Santoro dovrebbero subire il regime che tocca alle auto nelle giornate anti-smog: una settimana conducono loro, quella dopo tocca a giornalisti dichiaratamente filo-governativi.

Conduzione alterna, così l’ha etichettata la stampa, e nella pratica risulterebbe come la pantomima della par condicio da campagna elettorale. Il condizionale è d’obbligo, dato che è pressoché impossibile, anche nel panorama depauperato del nostro giornalismo, trovare una redazione schizofrenica a tal punto da capovolgere settimanalmente la linea editoriale. Per mettere in pratica i suggerimenti di Butti servirebbero due redazioni per ogni programma, ma in Rai la parola d’ordine non era risparmiare?

Il senatore del Pdl ha spiegato qualche giorno dopo che l’alternanza non comporterebbe conduzioni diverse per la stessa trasmissione ma semplicemente il fatto che se un martd’ va in onda Ballarò, il giovedì non può andare in onda Annozero ma un talk di informazione analogo per struttura ma completamente diverso per contenuti e toni. Insomma il piano sarebbe quello di dimezzare le messe in onda delle due principali trasmissioni d’approfondimento di viale Mazzini.

Quella che altrove verrebbe liquidata come una boutade o come un’enorme gaffe istituzionale, ha incontrato in realtà il vivo interesse dei vertici Rai. Fortunatamente in negativo. Se il presidente Rai Garimberti liquida il provvedimento come “un atto di sfiducia nei confronti della Rai, di tutto il suo Consiglio di amministrazione, del direttore generale, dei direttori di rete e testata”, il presidente della Commissione Parlamentare, Sergio Zavoli, si è appellato ai membri dell’opposizione affinchè “esercitino il diritto-dovere di presentare emendamenti”. Un appello che sembra però destinato a cadere inesorabilmente nel vuoto dato che la componente di centro-sinistra non ha ancora approntato una strategia da applicare nella prossima riunione.

Dimenticanza imperdonabile e che denota l’inadeguatezza dell’opposizione a ricoprire il suo ruolo deputato: questa proposta di Butti non è infatti che la terza in ordine di tempo per condurre l’azienda di viale Mazzini sotto il controllo di un nuovo “MinCulPop”, come lo ha definito sprezzante Michele Santoro.

Inizialmente aveva provato ad imporre un emendamento che prevedeva che uno stesso argomento non potesse essere “ridiscusso” in tv per una settimana: ad esempio, se Porta a Porta al lunedì si fosse occupata delle vicende giudiziarie del presidente del Consiglio, Floris e Santoro avrebbero dovuto costruire la puntata su argomenti diversi. Costretto a spuntare questo emendamento, il lealissimo pasdaran di Berlusconi ha dovuto togliere la “norma Santoro”, che prevedeva il divieto di conduzione per chi avesse assunto incarichi politici, limitandolo poi a due anni dalla sua cessazione dopo le inevitabili obiezioni raccolte in sede di discussione. Butti non é quindi disposto a retrocedere su quello che a tutti gli effetti è l’ultimo appiglio della sua proposta.

Questo spasmodico tentativo di andare a regolamentare gli slots televisivi nasce infatti per andare idealmente a colmare il vuoto normativo che da otto anni lascia irrisolto il problema del pluralismo televisivo. Una questione pruriginosa soprattutto per il richiamo al conflitto d’interessi che domina entrambe le metà dell’etere.

Sta di fatto che anche una norma evidentemente mirante alla trasformazione dell’informazione in pura e semplice tautologia, come quella sopra esposta, ha buone possibilità di tradursi in pratica. Nella prossima riunione della Commissione Parlamentare, c’è infatti il rischio che il disegno sulla conduzione alternata venga votato a maggioranza e che quindi la norma di indirizzo venga poi girata all’Agcom per l’applicazione. Le conseguenze futuribili di questo passaggio riportano all’anno scorso quando, in nome della par condicio per le elezioni regionali, vennero bloccati tutti i talk show di approfondimento per le due settimane immediatamente precedenti il voto, con tutto il corollario di ricorsi del caso.

Quella della maggioranza sembra quindi più che altro una dichiarazione di forza fine a sé stessa.  Pare impossibile che in 20 anni di esperienza nel campo televisivo Berlusconi sia ancora un sostenitore della teoria della siringa ipodermica. Santoro e Floris, infatti, non spostano un voto, ma tendono soprattutto a sclerotizzare le posizioni manichee che caratterizzano la ricezione dei temi politici italiani. Davvero il gioco del fedelissimo Butti vale la candela?

di Mariavittoria Orsolato

Se qualcuno crede che un talent show abbia solo a che fare con aspiranti artisti e giudici improbabili, si sbaglia. A darci la prova che il mezzo televisivo può essere spinto molto oltre ci ha pensato La7 che, in controtendenza rispetto all’annunciato format inglese per scegliere chi licenziare, ha prodotto un reality per assumere nuovi dipendenti. Nel titolo, “Il contratto- gente di talento” appunto, sta l’agognato premio e il sottile e meschino meccanismo del reality show: di tre concorrenti, solo uno apporrà la firma sul plico di scartoffie appoggiato trionfalmente davanti ai due vertici dell’azienda.

Nella prima puntata, andata in onda martedì sera, a contendersi letteralmente la seggiola erano tre ultra trentenni di varia provenienza ed estrazione: due uomini e una donna, tutti con ambizioni lievemente confuse e apparentemente senza alcun talento specificato, proprio come ce ne sono tanti in quel 29% di giovani disoccupati.  Secondo Marco Ghigliani, direttore generale de La7: “Non è uno show. Non mettiamo in palio contratti di lavoro. È se mai un programma di servizio: protagonisti sono dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro, noi seguiamo il loro percorso mentre un’azienda li seleziona. La nostra rete racconta la realtà”.

Peccato che oltre alle classiche prove di abilità, snodate lungo la settimana di stage in azienda - la Monster, proprio un’agenzia di recruting! - e sminuzzate in clip, appaiono a un certo un punto gli immancabili mamma e papà che parlano di quanto siano fieri dei loro bamboccioni. Un reality in piena regola con la prova finale non simulata e in assoluta diretta con annessa trionfale proclamazione dell’occupato che già da lunedì potrà cominciare a strisciare il suo badge. Non se ne vogliano Ghigliani e La7 ma l’unica novità nel nuovo prime time del martedì è che il premio in gioco è il diritto inalienabile sancito dall’articolo 1 della nostra bistrattata Costituzione.

Certo i toni e i modi non hanno nulla a che fare con le sguaiatezze che ci propinano i vari talent-show di Rai-Set, il confronto tra i candidati e gli ospiti in studio (Giordano Fatali rappresentante del main sponsor HRCommunity - attivo network dei direttori del personale - il direttore Hr di turno e due esperti di Risorse umane sempre diversi) è pacato e prova ad essere pertinente. L’ex Iena Sabrina Nobile non rende però onore a quanto di graffiante c’è nel suo format di provenienza e, molto spesso, gli interventi degli esperti sfiorano la tautologia, così il professor Michel Martone, docente di diritto del lavoro: “Occorre laurearsi in fretta così il lavoro si trova prima”. Ma dai?

Se infatti la finalità dichiarata è quella di riprodurre fac-simile di quello che aspetta i giovani neo-laureati o diplomati, “il Contratto” fallisce in toto il suo target: tutto molto politically correct, troppa ostentazione di cortesia, situazioni che difficilmente si verificherebbero a telecamere spente.

Meglio attenersi al topic e lodare il fatto di aver convertito - prima ed unica tra le televisioni generaliste - in un comunque godibile prime time, una delle tematiche di più scottante attualità. Il lavoro e soprattutto la sua mancanza sono un assillo di molti italiani, giovani e meno giovani: le possibilità di riscatto personale e sociale stanno tutte racchiuse nel possesso di un’occupazione stabile. Chi meglio della tivvù te lo può propinare?

Non a caso il premio consta in un contratto a tempo indeterminato, “più che un dono, un terno al Lotto" come spiegava Dario, uno dei tre candidati. Progettare in un tempo in cui la parola “futuribile” non è contemplata, è solo il primo dei piccoli ma importanti drammi che affliggono un disoccupato ed è sicuramente apprezzabile il fatto che questa tematica venga trattata in un programma televisivo, suscita un po’ di amarezza però che il fatidico termine “precariato” sia stato pronunciato dopo un’ora abbondante di trasmissione e non lo si sia approfondito, se non in merito all’esperienza di Manuela, dichiarata poi vincitrice in nome del buonismo bipartisan.

Gli altri due concorrenti/aspiranti non collocati, come premio di consolazione, seguiranno comunque un percorso di formazione per specializzarsi e sperare così di aver una chance in più al prossimo colloquio di lavoro. Tutti felici e contenti dunque, per l’ennesima e ben riuscita pantomima televisiva: una simulazione un po’ troppo simulata che almeno ha il pregio di regalare una prospettiva occupazionale concreta al suo vincitore. Come sempre, piuttosto di niente è meglio piuttosto.

 

di Mariavittoria Orsolato

Annozero continua le sue trasmissioni facendo incetta di telespettatori e procurando spazi pubblicitari a sei zeri ma la bufera su quello che è ormai il talk show pirata per eccellenza non accenna a diminuire. Dopo la telefonata del direttore generale Masi - momento già cult che verrà ricordato negli annali delle figuracce televisive - il ministro per lo Svilupppo Economico, Paolo Romani, ha sollecitato l’intervento del Garante per le comunicazioni in merito a quello che in trasmissione risulterebbe un uso improprio degli atti processuali del caso Ruby, nonché alle solite “ affermazione lesive della dignità e del decoro delle cariche istituzionali”.

A sottoscrivere l’appello di Romani ci sono anche i commissari eletti dal centrodestra, Antonio Martusciello, Stefano Mannoni, Enzo Savarese e Roberto Napoli. C’è poi un altro episodio, trasmesso in esclusiva dal Tg La7 di Mentana, che mette sotto accusa il giornalista salernitano per il modo in cui ha deciso di tenere fuori il deputato Francesco Paolo Sisto, perché sostituto dell’ultim’ora di Fabrizio Cicchitto, e circa una cinquantina di giovani simpatizzanti del Pdl che il deputato si era portato appresso.

Il fatto si spiega in poche battute: la redazione aveva invitato il capogruppo Cicchitto, poi sostituito per volere del Pdl dal ministro Alfano, ma il Guardasigilli poche ore prima del via declina. A pochi minuti dalla diretta si presenta un deputato, Francesco Paolo Sisto, qualificandosi come designato dal partito per partecipare alla trasmissione: non avendone ricevuto comunicazione, il conduttore si è riservato la possibilità di farlo partecipare al programma. Ordinaria routine televisiva, ma non per Annozero.

Così l’Agcom ha cominciato le sedute per discutere dell’ennesimo caso di “giornalismo fazioso” ma all’ordine del giorno, oltre alle beghe ormai epiche tra Santoro e Masi, ci sono anche i videomessaggi e le telefonate di Berlusconi in trasmissioni televisive. In particolare, il senatore Pd Roberto Zaccaria ha inviato una segnalazione sul videomessaggio con cui il premier replicava alle accuse sul caso Ruby, trasmesso dai vari tg, mentre il deputato del gruppo misto Giuseppe Giulietti e il senatore Pd Vincenzo Vita hanno presentato un esposto sulla telefonata di Berlusconi a “L’Infedele” di Gad Lerner. Data la complessità e l’ampiezza delle questioni aperte, le risposte dell’autorità garante non arriveranno prima di un altro paio di sedute.

Assieme all’Agcom si è mosso ieri anche il Cda Rai. In questa sede è però un altro giornalista a tenere banco con le sue “presunte” irregolarità. E’ notizia di qualche giorno fa che il direttore del Tg1 Augusto Minzolini avrebbe addebitato ben 86.680 euro sulla carta di credito aziendale a sua disposizione. La segnalazione è arrivata dal Fatto Quotidiano e subito il consigliere d’opposizione Nino Rizzo Nervo ha sollecitato al dg Masi un’internal audit per far luce sugli spostamenti di Minzolini.

Per l’epigono Rai di Emilio Fede sono infatti accertati ben 129 giorni, su circa 270, fuori dalla redazione e su 56 trasferte tra Positano, Cortina e Santa Margherita Ligure; solo 11 volte sono indicati i motivi della sua presenza. Masi dichiara però il caso chiuso: il direttore generale Rai giustifica Minzolini sostenendo che la sua carta di credito è "una sorta di benefit compensativo", per altro concordato con Garimberti "come lui può sicuramente confermare".

Ma Garimberti non conferma, anzi smentisce seccato: "Non ero in alcun modo a conoscenza che la carta di credito concessa al direttore del Tg1 fosse un benefit compensativo", scrive il presidente lo stesso giorno a Rizzo Nervo e a Masi. Dal settimo piano di viale Mazzini, l’ex giornalista di Repubblica si aspetta risultati “cristallini” anche se, per come si prospettano gli antefatti, c’è il rischio che controllando i conti di Minzolini emerga il sommerso fiscale che - come tutti gli italiani - anche mamma Rai non disdegna.

Secondo le norme tributarie vigenti, infatti, il benefit va previsto nel contratto di assunzione, va tassato con l’aliquota ordinaria e vanno versati i relativi contributi previdenziali: siccome il benefit minzoliniano è sconosciuto al presidente Paolo Garimberti e al contratto stesso, Masi ha di fatto già denunciato se stesso e l’azienda per evasione fiscale.

Due pesi e due misure dunque per la coppia di giornalisti più chiacchierata di viale Mazzini. Il sentimento di desolazione che queste vicissitudini inevitabilmente ispirano sta tutto nella meritocrazia al rovescio che incide su entrambi i casi: se provi a far bene il tuo dovere sei segnalato alle autorità, mentre se contravvieni alle regole in nome della tua posizione c’è sempre qualcuno disposto a coprirti. In fondo la Rai è nata con funzioni educative.
 


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