di Eugenio Roscini Vitali

Tzipora Malka "Tzipi" Livni è il nuovo leader di Kadima, il partito centrista fondato nel 2005 da Ariel Sharon e dallo scorso anno in balia degli scandali che hanno coinvolto il premier Ehud Olmert. Ora, nell'ipotesi che subito dopo le dimissioni di Olmert dalla carica di premier, il Presidente Shimon Peres decida di affidarle alla signora Livni l’incarico di formare un nuovo governo, il ministro degli Esteri avrà a disposizione 42 giorni per presentare la lista dei ministri, passati i quali si andrà ad elezioni anticipate. Anche se l’incertezza che ha segnato queste primarie non corrisponde alla reale situazione sul campo, il compito non è facile. Tzipi Livni gode dell’appoggio di gran parte della piazza ma il testa a testa che si venuto a creare all’interno del partito dimostra che probabilmente il nemico non alberga poi così lontano. Come prima reazione, Shaul Mofaz ha infatti deciso di prendersi un periodo di riflessione, un "time out" durante il quale dovrà definire il suo futuro politico; una scelta che fa capire le difficoltà in cui versa Kadima.

di Eugenio Roscini Vitali

Sono ormai alcuni mesi che i vertici del Pentagono annunciano con soddisfazione gli effetti della nuova politica americana in Iraq; successi che spesso rimangono legati a contesti del tutto particolari, ma che non nascondono il fatto che qualche cosa sta cambiando. Come il trasferimento dei poteri avvenuto nella provincia di Al Anbar dove, dal primo settembre 2008, le forze di polizia irachene hanno assunto il controllo della sicurezza territoriale di quella che è definita la più turbolenta ed estesa regione sunnita del paese della Mezzaluna fertile. Undicesima delle 18 province irachene tornata sotto il controllo di Baghdad, Al Anbar è stata fino allo scorso anno la principale roccaforte di Al Qaeda e l’area nella quale per lungo tempo la media giornaliera delle perdite Usa è stata superiore ad uno. In questo momento di grave crisi internazionale Washington guarda perciò con grande fiducia ai progressi iracheni e promette una drastica diminuzione delle truppe, argomento che tra l’altro rappresenta uno dei principali cavalli di battaglia della campagna elettorale di entrambi i candidati americani alla presidenza. Ma a cinque anni dall’inizio del conflitto, il piano di disimpegno miliare dall’Iraq pubblicizzato dalla Casa Bianca è possibile o è solo un’altro specchio per le allodole?

di Carlo Benedetti

MOSCA. Il movimento rigorista islamico dei wahhabiti torna a farsi vivo - con la forza delle armi - nella Turkmenia. La notizia è delle ultime ore. Si apprende da fonti diplomatiche e da alcuni dispacci dell’agenzia iraniana Irna, che nella capitale Askabad “gruppi di terroristi legati ai wahhabiti e ai narcotrafficanti armati” hanno già attaccato ed occupato alcune zone della città dove si trovano i serbatoi delle riserve di acqua potabile. Le informazioni, al momento, sono scarse e contraddittorie anche per il fatto che il paese - da sempre - è isolato e pochissime sono le fonti che possono confermare o smentire la situazione che si sarebbe creata. Si parla già di molti morti e si apprende anche che il governo di Askabad avrebbe chiesto aiuto sia alle forze militari russe che operano in Turkmenia che al servizio di sicurezza del Cremlino, l’Fsb.

di Valentina Laviola

La piazza ha vinto. I dimostranti di Bangkok hanno ottenuto la caduta del primo ministro Samak Sundaravej. Martedì scorso, la Corte Costituzionale ha annunciato la propria decisione costringendo il premier alle dimissioni: la folla ha esultato, festeggiato, ma senza abbandonare la posizione. È la prima volta che un primo ministro tailandese lascia il suo posto per verdetto di anticostituzionalità. Tuttavia, le dimissioni forzate non impedirebbero, legalmente, una rielezione di Samak. Il conflitto d’interessi che ha portato al suo ritiro si sarebbe consumato, secondo la Corte, negli studi di uno show televisivo che si occupa di cucina: il premier era già apparso come ospite nello stesso programma prima di essere eletto, ma la Costituzione della Thailandia vieta rigidamente al Capo del governo di dedicarsi ad impegni di carattere privato, specie dietro compenso, nel momento in cui si trovi in carica. La tensione, comunque, non si è allentata in questi giorni: centinaia di poliziotti in assetto antisommossa sono stati dispiegati attorno al parlamento tailandese; si temono nuove proteste da parte degli oppositori, ma anche dei sostenitori, di Samak.

di Giuseppe Zaccagni

Sono stati sempre su sponde diverse. Da una parte (quella del potere) un generale che nel 1981 era segretario del Partito Operaio Unificato Polacco (Poup), capo del governo, ministro della Difesa e capo del Consiglio militare della salvezza nazionale (Wron); dall’altra (quella dell’opposizione) un semplice elettricista di Danzica divenuto leader assoluto del sindacato Solidarnosc e un leader di Mosca, segretario generale del Pcus. I nomi - noti in tutto il mondo - sono, rispettivamente, quelli di Wojciech Jaruszelskij, di Lech Walesa e di Michail Gorbaciov. I primi due nemici giurati, il secondo impegnato su posizioni di compromesso. E tutti e tre esponenti di diverse concezioni in merito al futuro del potere polacco.


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