di Michele Paris

Erano sostanzialmente due gli obiettivi che Barack Obama si era imposto di raggiungere con il discorso di accettazione destinato a chiudere la Convention democratica giovedì a Denver in pieno prime-time televisivo per il pubblico americano. Da un lato dare forma concreta a quella promessa di cambiamento che lo aveva proiettato al comando delle primarie durante i primi mesi dell’anno; dall’altro dimostrare di poter fronteggiare John McCain senza timori sui temi della politica estera e della sicurezza nazionale. Nonostante non siano stati fugati i dubbi di quanti all’interno del suo partito temono che gran parte dell’elettorato statunitense ancora non abbia un’idea totalmente chiara di chi sia veramente questo 47enne senatore afro-americano dell’Illinois, il suo straordinario talento di oratore gli ha permesso tutto sommato di risolvere positivamente una quattro giorni di Convention che si era aperta prima con l’investitura ufficiale del vecchio, e malato, Ted Kennedy e proseguita successivamente con il messaggio congiunto di unità dei coniugi Clinton.

di Carlo Benedetti

MOSCA. La tensione nell’intero teatro caucasico non accenna a diminuire. I venti di guerra sono sempre presenti e già al Cremlino (pienamente coinvolto in questo scontro epocale con Washington) si parla di una situazione che sta sfuggendo di mano e che si caratterizza con un riesplodere di antichi conflitti tra nazionalità che sembravano sepolti nella polvere degli anni. E così la realtà di queste ore impone di fare i conti con una vera e propria “balcanizzazione” del Caucaso. Perché i bollettini di guerra che arrivano dai due fronti opposti - russo e georgiano - sono praticamente identici. Arrivano navi nello specchio di mare dell’Abkhazia che battono bandiera russa o americana; si scambiano prigionieri e si trasferiscono bare di zinco da una parte all’altra; si presentano elenchi di “trofei” che sembrano un catalogo di qualche grossa industria militare; si soffia sul vento della propaganda cercando di trovare amici disposti a firmare appelli e dichiarazioni; si fa a gara per chi porta più coperte o bottiglie di acque minerali alle popolazioni che hanno subito gli attacchi. E si mette in moto anche la Nato che non è disposta a perdere la partita. Ingiunge alla Russia (forte anche di un impegno raggiunto con 26 stati dell’organizzazione) di fare una immediata marcia indietro gettando alle ortiche le dichiarazioni delle ore scorse in favore degli abkhazi e degli ossetini.

di Luca Mazzucato

Le elezioni americane si avvicinano a grandi passi e i sondaggi sono incerti. È ovvio che i due candidati Barack Obama e John McCain cerchino di attirarsi le simpatie delle varie lobby e minoranze, seguendo la ricetta vincente di Bush, che nel 2004 passò grazie al voto in massa dei fondamentalisti evangelici. Questa volta nessuno dei due candidati, entrambi di stampo liberal, è particolarmente amato dai cristiani, mentre i latinos hanno già deciso di votare democratico. Resta da decidere il voto della popolosa comunità ebraica degli Stati Uniti: storicamente democratica, amava i Clinton, ma è poi passata dalla parte di Bush per via di Saddam e della questione iraniana. A chi andranno i voti ebraici nelle elezioni di novembre? Agli americani in genere importa assai poco della politica estera, men che meno in periodo di crisi economica. L'ultima visita di Bush in Medioriente ha occupato un misero tre percento di copertura sul totale delle news. La comunità ebraica, al contrario, è forse la più sensibile alle questioni estere e i candidati si danno da fare per accattivarsela.

di Eugenio Roscini Vitali

Al contrario di quanto ci si poteva aspettare, la prima grande crisi del XXI secolo non è arrivata dallo stretto di Hormuz, dall’Iran espansionista e fondamentalista che Washington ha messo al primo posto nella lista degli Stati canaglia, ma dal Caucaso, regione ricca di giacimenti non ancora sfruttati e crocevia di una rete di oleodotti e gasdotti d’importanza strategica, dove Usa e Russia sono tornate a confrontarsi su questioni di enorme rilevanza economica e militare. Ma il teatro ad est del Mar Caspio non è l’unico: lo scontro, che si preannuncia ancor più duro di quanto lo fu ai tempi della guerra fredda, abbraccia l’Europa Orientale, dove le due superpotenze si stanno affrontando sulla questione dello scudo missilistico che gli americani istalleranno in Polonia e Repubblica Ceca, e il Medio Oriente, dove la Siria si è resa disponibile ad ospitare i sistemi missilistici russi, uno scudo simmetrico a quello americano in Europa centrale, e dove il nucleare iraniano resta il problema centrale per il futuro controllo strategico della regione. Per la Casa Bianca è quindi importante rivedere la sua idea di politica estera, d’impegno militare e di alleanze, assegnare nuove priorità e riconsiderare il ruolo di alcuni attori in questo scellerato palcoscenico fatto di petroldollari e di smania di potere.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Per i georgiani è una “annessione” inaccettabile; per gli americani “uno strappo che avrà gravi conseguenze favorendo anche una serie di analoghe rivendicazioni in Europa e nel mondo”; per il governo di Ksinkvali “è la giusta conclusione di una battaglia per l’autonomia e l’indipendenza”; per la dirigenza di Suchumi “è la fine più ovvia di un conflitto che si è protratto per troppo tempo”; per la Russia di Medvedev e di Putin “è un importante passo in avanti per la pace e l’equilibrio della regione caucasica”. E’ questo il primo ventaglio delle reazioni alla decisione del Cremlino che sancisce il riconoscimento della Ossezia del Sud e dell’Abchasia che, da oggi, sono per Mosca due “ex autonomie georgiane”. Non più sotto la giurisdizione di Tbilisi e libere di gestire il loro territorio sotto tutti i punti di vista. Ottenendo, di conseguenza, pieno appoggio e aiuto da parte della Russia.


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