di Marco Montemurro

Il governo delle Filippine ha dispiegato l’esercito nella provincia meridionale di Mindanao e ha scelto la linea dura contro le rivendicazioni di maggiore indipendenza. La presidente Gloria Macapagal Arroyo, lo scorso 3 settembre, ha dichiarato ufficialmente concluse le trattative di pace tra il governo e il Milf, l’organizzazione Moro Islamic Liberation Front che da anni si batte nella regione. Si è rotto così il cessate il fuoco in vigore dal 2003 ed è di nuovo acceso il conflitto che dura da oltre trenta anni e che ha causato finora 120mila vittime. Nell’ultimo mese l’intensificarsi degli scontri ha provocato una nuova tragedia umanitaria per l’alto numero di sfollati. I dati forniti dall’autorità filippina (il National Disaster Coordinating Council) riferiscono che ben 479.223 persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa della guerra in corso nei villaggi tra l’esercito e guerriglieri ribelli.

di Elena Ferrara

Potenza dello sport. Se una volta c’era la “diplomazia del ping-pong” (con gli americani che nel 1971 sbarcarono in Cina per una partita che segnò, appunto, l’inizio dell’era di una nuova forma di intese diplomatiche) oggi comincia il periodo della “diplomazia del calcio”. Avviene tutto nell’antica Armenia che, da sempre “nemica” della Turchia, ha ospitato un’invasione pacifica dei tanto temuti turchi. Alle spalle c’è il ricordo del 1915 quando gli armeni dell’Anatolia orientale furono sterminati in quello che è stato poi definito come il genocidio armeno attuato dai turchi (le vittime furono circa due milioni). E c’è poi l’interruzione delle relazioni politico-diplomatiche dal 1993 a causa delle rispettive rivendicazioni sui confini. Ma ora comincia il disgelo. Ed è un fatto epocale. Tutto, appunto, per una partita di calcio nella capitale armena che ha visto schierate in campo le nazionali della Turchia e dell’Armenia. Avvenimento storico perchè le due nazioni vivono ancora nel clima di una loro guerra fredda, lontane da ogni rapporto diplomatico e con le frontiere chiuse. L’evento sportivo non è tanto importante per l’esito quanto per l’incontro tra i leader dei due paesi.

di Eugenio Roscini Vitali

Le dimissioni del presidente Pervez Musharraf rappresentano l’atto finale di una disfatta personale e politica, la fine di un regime che ha generato lacerazioni sociali e paralisi istituzionale. Durante il suo ultimo discorso alla nazione, Musharraf è apparso avvilito e sconcertato; anziché rivolgersi ai pakistani sembrava parlare a se stesso, quasi fosse la vittima inconsapevole di una rapida successione di eventi che avevano consumato e determinato la sua morte politica. Di fronte alle telecamere ha cercato di trovare una giustificazione al suo fallimento: “Ancora una volta mi sacrifico per la patria, non ho fatto nulla per me e tutto per il paese”. Parole di circostanza che non hanno nascosto l’amarezza di una sconfitta annunciata; parole che lasciano in sospeso il futuro di un paese ostaggio della guerriglia, di un’economia in grave crisi, di una nazione incatenata da inimicizie interne, diatribe e settarismi, interessi privati e corruzione. Ma ora che il discusso e “benevolo” dittatore si accinge ad affrontare il dorato esilio di Jedda, che l’alleato della guerra americana al terrorismo ha deciso di farsi da parte, quali saranno le sorti del Pakistan?

di Elena Ferrara

Avevano annunciato orde di cosacchi pronti a bivaccare in piazza San Pietro. Era il 1948 e ancora non si vedono. Sono arrivati invece a Mosca, nella piazza Rossa, ottanta prelati “ambrosiani” tutti in missione (una full immersion nella realtà religiosa e politica degli ortodossi) guidati dall'arcivescovo di Milano cardinale Dionigi Tettamanzi e da due vescovi ausiliari - il vicario generale Carlo Redaelli e il vicario per la cultura Franco Giulio Brambilla. Il programma è denso di visite a cattedrali e monasteri, concelebrazioni eucaristiche in rito cattolico e liturgie ortodosse; incontri con l'arcivescovo cattolico di Mosca, Paolo Pezzi, e col nunzio apostolico in Russia, Antonio Mennini. Ma il vero obiettivo dell’invasione - che avviene con la sponsorizzazione del Papa Ratzinger - è il colloquio al massimo livello con la Patriarchia di Mosca. Assente il titolare Alexei II (trattenuto all’estero per il protrarsi di esami clinici) gli onori di casa - nel monastero di Novodievici, quello delle “Vergini” - sono stati fatti dal metropolita Juvenalij, vicario del patriarca.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Definiamola pure calda o fredda, parliamo d’invasione o di liberazione, di intervento o di aiuto, ma un fatto è certo: in conseguenza della guerra voluta dal duce di Tbilisi, Saakasvili, la Georgia muta la sua geoeconomia. Le prime cifre parlano da sole. Il territorio è stato sino oggi di 69.700 Kmq. Ma con la secessione delle due realtà regionali perde 12.500 kmq. e quindi si riduce a 57.200 kmq. Quanto a popolazione il Paese, che aveva 4.640.000 abitanti, con la perdita dell’Ossezia del Sud (70.000 abitanti) e dell’Abkhazia (533.800) si riduce ad una popolazione di 4.036.200. Ma il colpo maggiore è per l’economia nazionale di Tbilisi, che in seguito alle divisioni si ritrova a perdere uno dei suoi porti strategici del mar Nero: quello di Suchumi. Ci sono poi le importanti spiagge turistiche di Gagra (che vanta una stazione termale nota in tutto il territorio dell’ex Unione Sovietica), Pitsunda, Novij Afon e Gudauta che da oggi non consegneranno più alle casse della Georgia i frutti di un importante giro di turisti provenienti da ogni parte del mondo.


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