di Agnese Licata

Una nuova costituzione entro l’anno. A un mese e mezzo dalle elezioni che hanno portato il Kenya allo scontro etnico, è questo il primo, limitato, risultato ottenuto dalla diplomazia internazionale. Dopo settimane di trattative – guidate con fatica dall’ex presidente Onu Kofi Annan (oggi tra i rappresentanti dell’Unione Africana) – l’annuncio di un accordo tra i due ex candidati alla presidenza, Mwai Kibaki e Raila Odinga, arriva in un momento in cui gli scontri tra kikuyo e luo non sembrano spegnersi. E arriva poco dopo le perentorie (nonché tardive) dichiarazioni di George W. Bush: “Deve esserci uno stop immediato alle violenze”, affiancate dalla decisione di far sedere anche il segretario di Stato Condoleezza Rice al tavolo delle trattative. Se l’iniziativa abbia contribuito a sbloccare i negoziati o sia stato semplicemente un modo per garantire agli Stati Uniti di rientrare in partita, garantendosi un futuro diritto d’ingerenza nel nuovo assetto del Kenya, non è dato saperlo.

di Raffaele Matteotti

In Ciad c'è un dittatore vecchio e segnato dall'etilismo. Passa più tempo nelle cliniche parigine che a governare il paese. Nonostante questo vuole fermamente continuare a governalo, giungendo a modificare la Costituzione per restare al potere. L'opposizione, stanca e repressa, tentò i tutto per tutto un paio d'anni fa, l'intervento dei militari francesi fermò i ribelli che stavano marciando sulla capitale. Lo stesso avvenne nella vicina Repubblica Centrafricana dove comanda un altro dittatore, assiso al potere pochi anni fa dall'esercito del Ciad assistito dai francesi. Nei due paesi è stata grande l'ira dei dittatori: abbandonati dalla gran parte delle forze armate, hanno arruolato bambini e banditi e praticato la pulizia etnica contro intere regioni accusate di sostenere i ribelli. Così in Ciad centinaia di migliaia di persone in fuga hanno popolato nuovi campi per profughi, aggiungendosi ai già numerosi provenienti dal Darfur. Ora in Ciad ci sono molti più profughi interni e centroafricani di quanto non siano quelli del Darfur, ma per fortuna sta per partire una missione europea per assisterli. O no?

di Giuseppe Zaccagni

A Pristina il Pdk - il Partito democratico del primo ministro, il terrorista Hashim Thaci dell’Uck - prende il potere e dichiara il Kosovo terra sovrana, staccata dalla Serbia. Nasce nel cuore dell’Europa - nel clima di una retorica nazionalpopolare - uno stato fantoccio filiale dell’Albania, benedetto e sponsorizzato dall’America di Bush mentre varie diplomazie internazionali manifestano inquietudine per questa manovra che - usando ogni mezzo di ricatto e pressione - destabilizza la geopolitica mondiale. Pronta e decisa - come sempre - la reazione dei serbi che, praticamente, scendono sul piede di guerra, con dichiarazioni e forme dirette di protesta. Non si accetta il “distacco” dalla madre-patria e si ricorda al mondo che dal luglio 2006 il Kosovo è tenuto sotto occupazione delle truppe della Nato con una azione che, di fatto, è stata una vera guerra “contro” la Serbia con l’obiettivo di far cadere Milosevic e al fine di installare - politicamente e militarmente - l’Alleanza e gli americani nel territorio ex yugoslavo. Ed ecco che in queste ore il governo serbo approva l' “annullamento'' della dichiarazione unilaterale d'indipendenza preannunciata dalla provincia a maggioranza albanese. Considera illegale ogni azione che contribuirà a rompere l’equilibrio geo-politico del territorio. E questo atto, largamente preannunciato, è destinato a cancellare - dal punto di vista serbo - tutti gli effetti della secessione perché Belgrado non intende riconoscere lo “strappo” di Pristina.

di Carlo Benedetti

Il dado è tratto. Putin, violando lo status costituzionale di Presidente di tutti i russi, si affaccia alla tv a reti unificate (quelle governative del primo e secondo canale) e parla su tutto e di tutto prima di lasciare la guida del Cremlino al successore che ha già incoronato. Traccia un bilancio dei suoi 8 anni di direzione e detta la linea: ''La Nato si sta espandendo, non dobbiamo accettare la sfida''. Quindi - mostrando i muscoli - attacca gli sforzi "illegali e immorali" che le potenze straniere mettono in atto entrando nella politica interna e nelle elezioni di una Russia sovrana. Ed eccolo questo presidente uscente che nella sala del Cremlino convoca la stampa nazionale e internazionale (1300 giornalisti) e invita anche i diplomatici stranieri. E subito coglie l’occasione per dire a chiare lettere: “Medvedev è un mio caro amico, lo conosco da tempo, da oltre diciassette anni, lo stimo, è il mio candidato e se mi sarà data la possibilità sarò anche disposto, in futuro, a mettermi al suo fianco, come primo ministro”. E così la campagna elettorale - che non è mai stata aperta - si ritrova ad essere chiusa una volta per sempre con Putin che socchiude il suo mandato in attesa della cerimonia del 2 marzo, ma conservando in tasca le chiavi del Cremlino perchè si è già garantito il sostegno dei gradini inferiori nella scala del potere.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Il clima che ti attende quando sbarchi all’aeroporto di Sceremetievo è quello tradizionale. Fa freddo. La neve si confonde con il grigio dei boschi. Le strade sono invase dalle auto e dai camion. I cartelloni pubblicitari sono quelli sgargianti di Mc Donalds, della Ford, dell’Ikea, della Lancome, di Armani e Versace... Non c’è aria di elezioni. Eppure le presidenziali sono alle porte, con Putin che lascia il palazzo avendo già affittato le stanze al suo amico Medvedev. I giochi, quindi, sono fatti, tanto che si parla di un ritorno al passato: quando il Pcus di Breznev celebrava in anticipo la giornata elettorale come una vittoria del Partito. E comunque sia questa Russia entra nel vivo di una nuova sceneggiata.


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