di Eugenio Roscini Vitali

La parola chiave è sempre la stessa: dialogo. Ricerca di una soluzione condivisa, confronto mirato a superare posizioni contrapposte, speranza di pace sulla quale costruire il futuro di un popolo. Dialogo, termine a volte abusato ma al quale nessuna persona di buon senso potrebbe mai opporsi, soprattutto in Palestina, dove polemizzare su una simile proposta significa andare contro gli interessi nazionali. E allora tutti al Cairo dove il 9 novembre prenderà il via la conferenza nazionale di riconciliazione, un difficile tentativo cui prenderanno parte le quindici maggiori fazioni palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Da una parte ci saranno Fatah e i 12 gruppi laici che fanno capo all’Autorità nazionale palestinese (Anp); dall’altra Hamas, il grande movimento religioso fondato nel 1987 da Ahmad Yasin e Muhammad Taha, e l’organizzazione militante palestinese della Jihad islamica, gruppo combattente nato negli anni Settanta per iniziativa di Fathi Shaqaqi.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Dal Cremlino il messaggio con le congratulazioni ufficiali per il presidente Obama non è ancora partito, ma c’è già un segnale di “buon lavoro” (carico di pragmatismo) che viene da Dmitrij Medvedev, impegnato in patria in un discorso sullo stato dell’Unione. Il presidente russo ha infatti approfittato dell’occasione per mandare a dire ad Obama che “la Russia non permetterà a nessuno un ruolo dominante e personalistico, dal momento che il mondo non può essere guidato da una unica capitale. Chi si rifiuta di capirlo - ha detto Medvedev - provocherà nuovi problemi a se e agli altri”. E in questo contesto il presidente del Cremlino ha auspicato un nuovo accordo sulla sicurezza europea che permetta di affrontare in modo concordato i nuovi conflitti. Per quanto riguarda le minacce rappresentate da un sistema globale antimissilistico, dalla catena di basi militari che accerchiano la Russia, dall’allargamento smisurato della Nato, il presidente russo ha poi assicurato che la Russia “senza farsi coinvolgere in una nuova corsa agli armamenti sarà comunque costretta a tenerne conto per garantire la sicurezza dei suoi cittadini”.

di Michele Paris

L’America ha cambiato pagina. Spazzando via tutte le paure che avevano pervaso il campo democratico negli ultimi giorni per un possibile ripetersi dell’incubo del 2000 e del 2004, Barack Hussein Obama ha conquistato una vittoria molto netta diventando il 44esimo presidente degli Stati Uniti, il primo di colore nella storia di questo paese. La notte elettorale dall’altra parte dell’Oceano ha segnato contemporaneamente il rifiuto finale di un presidente profondamente impopolare e della gestione repubblicana del potere che ha condotto l’America sull’orlo di una crisi economica senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo e ad un ridimensionamento del proprio ruolo internazionale. Pesantemente condizionato dall’eredità di George W. Bush, nonché dai suoi stessi errori commessi in una lunghissima campagna elettorale, John McCain ha finito per soccombere di fronte al 47enne senatore dell’Illinois al suo primo mandato al Congresso.

di Fabrizio Casari

Il quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America è Barak Hussein Obama, democratico e di colore. Mentre sono ancora in corso le operazioni di spoglio, Obama si è già aggiudicato 330 grandi elettori, quando ne bastavano 270 per vincere. La vittoria garantisce la maggioranza al Congresso e al Senato. E’ dunque un successo straordinario per il senatore afroamericano, che ha saputo convincere gli americani dell’urgenza del cambiamento. E che si siano convinti che solo il candidato democratico potesse rappresentare la via d’uscita dalla crisi economica, politica e morale che colpisce gli Usa, lo si evince dall’affluenza record alle urne. Quello che questa vittoria rappresenta, infatti, è in primo luogo la fine del reaganismo, imperante negli Usa dall’inizio degli anni ’80 e che nemmeno i due mandati di Clinton avevano messo in discussione, essendo stati caratterizzati da una sorta di continuità nelle politiche economiche e nella politica estera. Il voto americano si presenta comunque come una sentenza senz’appello nei confronti dell’Amministrazione Bush, la peggiore della storia americana; Bush che aveva ormai come unico estimatore Berlusconi, visto che gli stessi repubblicani - McCain per primo – hanno tentato di prendere le distanze in ogni modo dal texano dalla bottiglia facile.

di Marco Montemurro

L’accordo di cooperazione nucleare stipulato tra Stati Uniti e India è stato definitivamente approvato. Una delle ultime mosse dell’amministrazione Bush è stata condotta a termine il 10 ottobre quando il ministro degli affari esteri indiano, Pranab Mukherjee, ha firmato ufficialmente il trattato con la presenza del Segretario di Stato statunitense Condoleezza Rice. E’ un evento che sicuramente avrà ripercussioni in futuro nel settore dell’energia nucleare in tutto il mondo. Il trattato tra Usa e India rischia di aprire la strada verso accordi bilaterali tra singoli paesi riguardo la compravendita di materiale nucleare. E’ un precedente che è destinato a porre limiti all’influenza degli organismi sopranazionali. Il nuovo legame mette in discussione i principi di universalità contenuti nel Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Lo storico accordo, stipulato nel 1968 per regolare e sorvegliare il possesso di materiale nucleare, si basa infatti proprio sul presupposto che sia necessario porre limiti a tali tecnologie agendo sul piano internazionale e tramite la vigilanza di enti sovranazionali.


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