La redazione del The New York Times

L'iperbole è la moneta delle campagne presidenziali, ma quest'anno il futuro della nazione è veramente in gioco. Gli otto anni di fallimentare guida del Presidente Bush stanno facendo sprofondare gli Stati Uniti. Bush sta caricando sulle spalle del suo successore due guerre, un'immagine internazionale sfregiata e un governo sistematicamente deprivato della sua capacità di proteggere i propri cittadini, stiano essi scappando dalle inondazioni di un uragano o cercando un'assistenza sanitaria alla propria portata o lottando per tenersi la propria casa, il proprio lavoro, i propri risparmi o la pensione, nel mezzo di una crisi finanziaria che si poteva prevedere e prevenire. Ma anche se i tempi sono difficili, la scelta di un nuovo presidente è facile. Dopo quasi due anni di una campagna brutta e rancorosa, il Senatore dell'Illinois Barack Obama ha dimostrato di essere la scelta giusta per il 44esimo presidente degli Stati Uniti.

di Mario Braconi

Crescita della disoccupazione, inasprimento della sperequazione economica, esplosione del debito pubblico e del deficit della bilancia commerciale: dopo sette anni di Bush, l’economia americana è in grave difficoltà. Quando i repubblicani sbandierano la crescita del prodotto interno lordo durante i due mandati Bush, dimenticano che tale crescita è stata causata dalla politica monetaria espansiva e dalla bolla immobiliare (che peraltro il governo non ha tenuto sotto controllo come avrebbe dovuto fare). Quando Bush è stato eletto, nel gennaio del 2001, ha ereditato un avanzo di bilancio di oltre il 2% del PIL; dopo i primi quattro anni di governo, grazie alle guerre per il petrolio e a due ondate di tagli fiscali inutili quanto iniqui, il surplus si è volatilizzato, sostituito da un disavanzo del 3,6%. Per quanto riguarda le avventure belliche americane, l’unica “sicurezza” per il Paese è il gran numero di vite americane perse in Afghanistan e in Iraq (oltre 4.000); molto difficile invece sapere quanto la guerra costerà in termini monetari.

di Giuseppe Zaccagni

Anche la Cina, in silenzio, partecipa al conto alla rovescia per il 44mo Presidente degli Usa. Ma in attesa del fatidico 20 gennaio 2009 non fa cenno a preferenze e decide di non votare. Non sceglie il repubblicano John Mc Cain e non fa il tifo per Barack Obama. Tira fuori la sua filosofia basata su un secolare pragmatismo geopolitico che non è, però, un isolamento internazionale. Cerca di non scoprire le carte al fine di mantenere gli equilibri raggiunti perchè sa di trovarsi in una situazione particolare ed anche incerta perché “accerchiata” da grandi realtà che si chiamano Russia e Giappone. Sa anche che i rapporti di forza in Asia si sono modificati. E che il suo rapidissimo sviluppo economico li trasformerà ancora. Con le frontiere reali, quelle economiche, che peseranno sempre più sugli equilibri mondiali. Di qui una attesa silenziosa ed attenta. Ma la diplomazia obbliga pur sempre a muovere le pedine.

di Michele Paris

La possibile diversa spartizione del voto cattolico nelle imminenti presidenziali americane rispetto al 2004 è un’altra delle tante eredità negative che l’amministrazione Bush ha lasciato quest’anno al candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain. Anche se tradizionalmente schierati in grande maggioranza a favore dei democratici, gli elettori cattolici americani avevano in realtà contribuito in maniera fondamentale alla vittoria repubblicana quattro anni fa, facendo spostare l’ago della bilancia verso il presidente in carica in una manciata di stati chiave. I cattolici negli Stati Uniti costituiscono circa un quarto dell’intero corpo elettorale, ma la loro presenza si concentra per lo più in alcune aree del paese strategicamente importanti nell’Election Day. In stati come Michigan, Pennsylvania, Missouri e Ohio – stati che complessivamente assegnano 69 voti elettorali e, in particolare gli ultimi due, ancora in bilico tra Obama e McCain – l’elettorato cattolico ammonta infatti a circa un terzo dei votanti. Senza contare poi la popolazione cattolica di origine ispanica estremamente numerosa in altri quattro “swing states” come Colorado, Florida, Nevada e New Mexico.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Jerry e Martha insegnano spagnolo in un college di Long Island, la lunghissima isola alle porte di New York. Sono le nove di sera alla sede locale del partito democratico, persino dopo un pomeriggio di campagna elettorale Jerry ha ancora l'entusiasmo del ragazzino: “Queste elezioni sono diverse, sta finalmente nascendo un nuovo movimento. Questa è la campagna più importante da una generazione a questa parte”. Jerry ha partecipato attivamente a tutte le elezioni dagli anni sessanta, ma non ha mai visto tanta mobilitazione popolare. Sua moglie Martha, in pensione da pochi mesi, è appena tornata da una settimana di febbrile campagna in Pennsylvania, uno dei famigerati “swing states”. “Ci siamo già stati un mese fa insieme - mi spiega Jerry - abbiamo fatto il giro delle comunità dei latinos, passando porta a porta per registrarli a votare, ma per lei è una missione”.


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