di Michele Paris

Tra Stati Uniti e Canada è scoppiata una accesa polemica nelle ultime settimane in seguito al pronunciamento del giudice federale di Ottawa, Michael L. Phelan, circa il presunto mancato adempimento di Washington degli obblighi derivanti dal trattato che regola i diritti dei rifugiati richiedenti asilo politico in uno dei due giganti nordamericani (“Safe Third Country Agreement”). A seguito di una dozzina di dichiarazioni giurate (affidavit) di esperti di diritto ed avvocati americani, raccolte da tre organizzazioni canadesi (Commissione per i Rifugiati del Canada, Commissione delle Chiese del Canada, sezione canadese di Amnesty International), in merito al caso di un cittadino colombiano rispedito al proprio paese natale dagli USA nonostante le minacce subite dalla sua famiglia, il giudice Phelan, dopo aver valutato anche altri casi simili verificatisi negli ultimi anni, ha preso quella che - a detta dei postulanti - resta l’unica decisione possibile: la richiesta di invalidamento dell’accordo tra i due paesi.

di Raffaele Matteotti

Un anno dopo l'invasione della Somalia, il paese si è guadagnato il primo posto nella poco ambita classifica delle emergenze umanitarie. Poco più di un anno fa il regime etiope di Meles Zenawi dichiarava la “Guerra di Natale” alla Somalia e, di concerto con gli Stati Uniti, invadeva il paese per installarvi l'autorità del Governo Federale di Transizione di Alì Ghedi; governo di dubbia legittimità (eletto da un'assemblea di warlord e rappresentanti tribali somali dopo lunghe trattative in Kenya, un paio d'anni fa), ma soprattutto privo della minima rappresentatività. A scatenare l'ira del Dipartimento di Stato americano era stata la presa del potere a Mogadiscio e poi in tutta la Somalia da parte dell'UIC (Unione delle Corti Islamiche). Presa del potere che, per la prima volta dal 1991, aveva ridato ai somali una parvenza di vita civile e presa del potere fondata sul consenso da parte della società civile, a livello popolare come a quello d'elite. Su questi presupposti politici l'UIC, militarmente inconsistente, aveva guadagnato il controllo quasi totale del paese mentre il governo somalo aveva riaperto porti ed aeroporti, scuole e mercati e i somali avevano potuto finalmente girare per le strade del loro paese senza temere gli assalti di disperati e milizie armate.

di Daniele John Angrisani

Neanche il tempo di stappare lo spumante per festeggiare l'arrivo del 2008 e subito la campagna elettorale per le presidenziali americane entra nel vivo. A partire da oggi, infatti, sia il partito democratico che il partito repubblicano scelgono, attraverso le primarie, il candidato presidente per la Casa Bianca alle elezioni generali previste per il 4 novembre 2008. Si tratta di elezioni primarie di fondamentale importanza, perchè, a differenza di gran parte di quelle precedenti, per la prima volta è realmente in gioco la candidatura in entrambi i partiti, senza che vi siano già da prima, dei vincitori predeterminati. In particolare nel partito democratico la sfida sembra essere tra la ex first lady Hillary Rhodam Clinton, data per favorita dai sondaggi per la nomination finale, e il giovane senatore nero dell'Illinois Barack Hussein Obama, con l'ex candidato vicepresidente John Reid Edwards, dato come outsider, ma possibile vera sorpresa di queste primarie, giusto alle sue spalle. Anche in campo repubblicano vi è un personaggio dato per favorito nei sondaggi, l'ex sindaco di New York Rudolph William Giuliani, ma la lotta è ancora aperta con una serie di altri candidati del peso di John Sidney McCain, Willard Mitt Romney e Mike Dale Huckabee, pronti a sfidarlo. Ma andiamo subito nel dettaglio e vediamo ora quando e dove si vota e quali sono le posizioni politiche dei principali candidati a queste primarie.

di Carlo Benedetti

Per l’americano Time Putin è “l’uomo dell’anno”. Ma per il britannico Guardian è “L’uomo più ricco d’Europa”. Ed hanno ragione tutti e due. Cominciamo dall’uomo dell’anno. E’ un titolo che il presidente russo - impegnato a fare le valigie nel momento in cui lascia il Cremlino - si è meritato sotto tutti i punti di vista. E’ riuscito ad imporre al suo paese una linea politica basata sul fronte della fermezza e della stabilizzazione. Ha messo all’angolo i resistenti ceceni portandoli alle urne e facendo uscire risultati plebiscitari sconosciuti anche al periodo brezneviano. Ha portato in galera personaggi scomodi come alcuni oligarchi a lui ostili o esponenti politici collocatisi nelle schiere della dissidenza. Ha fatto l’occhiolino ai comunisti di Ziuganov ansiosi di occupare qualche posto nella gerarchia ufficiale. Ha mostrato un volto duro agli americani rivelando di voler riportare la Russia ai livelli geopolitici dell’Urss. Si è messo in corsa verso la Cina e l’India rivelando una propensione eurasiatica. Ha teso la mano al Vaticano del papa tedesco segnando così un distacco dalle manovre precedenti quando la Chiesa cattolica era nelle mani del papa polacco. Ha facilitato il riarmo dell’Armata offrendo spazi di intervento alle aziende del complesso industriale legato alla Difesa. Ha riportato i media sotto l’ala protettiva del Cremlino.

di Bianca Cerri

La baraonda giornalistica sulle primarie in Iowa rischia di far dimenticare che non saranno gli elettori ad esprimere le proprie preferenze ma i caucus, ovvero le assemblee popolari che decidono autonomamente quale candidato sostenere. Tanto per precisare: caucus non è una parolaccia, ma un termine pellirossa che indica appunto le assemblee distrettuali di partito. Secondo alcuni non rappresentano un sistema democratico mentre altri sostengono che abbiano una loro utilità, la diatriba è aperta. Una cosa è sicura: da più di 50 anni le primarie rivestono un’importanza vitale nelle campagne elettorali USA. Non a caso, i candidati si sono gettati sull’Iowa come un’orda di lupi famelici. Il repubblicano Huckabee e il democratico Barack Obama sperano forse più degli altri di ripetere l’exploit di Jimmy Carter, che nel 1976 spiccò proprio dall’Iowa il grande salto verso la presidenza.


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