di Elena Ferrara

C’è un altro Kosovo nel cuore dei Balcani. Fa molto meno rumore e desta poca attenzione per quanto riguarda l’opinione pubblica internazionale. Ma il problema esiste e rappresenta un punto interrogativo per la stabilità dell’intera regione. E’ la Macedonia. Una realtà autonoma, indipendente, scaturita il 15 settembre 1991 da quella che era la Federazione Jugoslava. Da quel giorno, infatti, la repubblica di Skopje, ha proclamato la sua sovranità e si è dichiarata stato sovrano con tanto di frontiere (a nord con la Iugoslavia, a est con la Bulgaria, a sud con la Grecia, a ovest con l’Albania), moneta (denar), religione (ortodossa, con minoranze musulmane), presidenza della repubblica e assemblea legislativa nazionale. Ma un piccolo-grande particolare ha posto la nuova realtà geopolitica in grosse difficoltà sin dal suo primo momento. Perché la confinante Grecia si è opposta (e si oppone) decisamente a riconoscere al nuovo stato il nome di “Macedonia”.

di Carlo Benedetti

Boris Abramovic Berezovskij, classe 1946, ultramiliardario proveniente dalla Russia e in esilio (volontario) a Londra, sta scatenando una sua guerra privata contro Putin. Punta ad un colpo di stato che sconvolga il Cremlino e che gli permetta, quindi, di rientrare a Mosca da vincitore e dominatore. Sembra una storia che esce dalle pagine dello scrittore Ian Lancaster Fleming perché ci sono tutti gli ingredienti per un giallo internazionale. C’è un potente, indomito calcolatore, a capo di una personale organizzazione che è una sorta di Spectre mediata dalla saga di James Bond. L’uomo è Berezovskij, appunto, che materializza quell’ Ernst Stavo Blofeld che Fleming poneva a capo della banda terroristica in Thunderball. C’è, dall’altro lato della storia, un personaggio super-potente, allevato nelle scuole dello spionaggio internazionale e ben rodato nelle stanze del potere. Si chiama Putin. Non teme la Spectre perché ai suoi ordini ha una istituzione che si chiama Fsb che conta decine di migliaia di 007 di stanza in ogni angolo del mondo. C’è in palio tra i due personaggi la gestione economica (e politica) di un paese immenso come la Russia: 17 milioni di chilometri quadrati e una popolazione di 142milioni di unità. E ancora: mentre Berezovskij si ricollega alla lobby ebraica antirussa e antislava, Putin si sente l’erede diretto della Santa Russia, slava e nazionalista. Ci sono, quindi, tutte le componenti del giallo anche perché l’elenco dei personaggi fatti fuori è notevole.

di Bianca Cerri

Hillary Clinton ha condannato duramente George Bush per aver concesso la grazia a Lewis Libby, ex-capo di gabinetto di Cheney. Libby avrebbe dovuto scontare trenta mesi di carcere per aver mentito agli investigatori che indagavano su una fuga di notizie che aveva lasciato trapelare il nome di Valerie Plame, agente della CIA in incognito. Bush ha voluto salvarlo in extremis ma la cosa non è piaciuta molto ai Democratici. Nessuno si aspettava però una condanna tanto drastica da parte di Hillary Clinton dal momento che la carriera legale di Libby è strettamente interconnessa con la presidenza del marito. Per capire come andarono le cose è obbligatorio fare un salto all’indietro di alcuni anni ed esattamente ai primi giorni del 2001, quando Lewis Libby giurò davanti al Congresso che il finanziere Marc Rich era un uomo ingiustamente perseguitato da un gruppo di procuratori in malafede. Per la cronaca, Marc Rich era fuggito dagli Stati Uniti lasciandosi alle spalle un debito di 48 milioni di dollari di tasse non pagate e 51 incriminazioni di natura penale. Rifugiatosi in Svizzera assieme alla moglie Denise, il finanziere non si presentò al processo e mandò a rappresentarlo il suo avvocato difensore, che era appunto Lewis Libby.

di Elena Ferrara

E’ rossa di sangue la “Moschea” di Islamabad e il presidente Pervez Musharraf canta vittoria, crede di essere riuscito a domare il covo del fondamentalismo di stampo talebano. Intanto lascia sul campo della rivolta della causa jihadista più di cinquanta radicali islamici che erano asserragliati nell’edificio chiamato Lal Masjid e che le teste di cuoio di Islamabad hanno trasformato in un cimitero. Tutto questo mentre la rivolta degli studenti-miliziani - armati di kalashnikov – prosegue e non si sa ancora come si concluderà. Le ipotesi sono le più tragiche ed allarmanti. Abdul Rashid Ghazi, il capo dei ribelli assediati, annuncia che il sangue dei suoi compagni di lotta scatenerà una rivoluzione islamica. E il governo risponde denunciando la presenza, tra gli insorti della Moschea, di elementi di al Qaida. Fra questi due leader del gruppo Harktul-Jihad-e-Islami (movimento della guerra santa islamica, illegale) che sarebbero coinvolti con l'omicidio nel 2002 del giornalista americano Daniel Pearl. Uno dei due militanti, intanto, è stato identificato come Abu Zar, già stretto collaboratore di Amjad Faruqi, leader del movimento.

di Bianca Cerri

Il calcolo è presto fatto: Live Earth, il bio-megaconcerto globale voluto da Al Gore per salvare il pianeta dai gas serra, è stato seguito da due miliardi tondi tondi di persone. Un evento di grande magnitudine dunque ma, come tutti i fatti della vita, problematico. Per prima cosa non tutto si è svolto in modo ambientalmente corretto e questo è un peccato, visto che gli organizzatori si erano prefissi di motivare le folle sul tema della lotta al riscaldamento globale. In secondo luogo, non è facile liberarsi dal dubbio che la cosa sia servita soprattutto per riportare alla ribalta Al Gore, garantendogli la maggior visibilità possibile in vista di una candidatura in extremis alla presidenza degli Stati Uniti. Che il riscaldamento serra abbia creato una serie di guai irreparabili al pianeta è fuor di dubbio, altrimenti i governi non avrebbero investito nella ricerca delle cosiddette “energie pulite” e nelle campagne educative per convincere la gente a ridurre la produzione di gas serra responsabili dell’aumento della temperatura terrestre. Ma per quanto riguarda i politici, molti hanno intuito subito che terrorizzando il pubblico sul futuro dell’ambiente possono portare molta acqua al loro mulino elettorale.


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