di Fabrizio Casari

La Corte Suprema argentina ha cancellato la sentenza di amnistia verso Santiago Riveros, uno dei boia della Giunta militare argentina che tra il 1976 e il 1983 gettò il paese latinoamericano nell’orrore. Accusato di crimini contro l’umanità, l’ottantatreenne ex-generale della vergogna dovrà subire fino all’ultimo il castigo. Con quattro voti a favore, due contrari e un’astensione, i giudici della Suprema Corte argentina hanno stabilito che non c’è né ci potrà essere perdono, né per Riveros – già condannato in contumacia all’ergastolo dal Tribunale di Roma nel 2003 - né, men che mai, per Videla e Massera, i due peggiori criminali della dittatura militare argentina che si sono accucciati sotto la coperta dell’indulto per non dover rispondere dei loro crimini. Ma la vacanza è finita. Nessun indulto potrà essere chiamato a cancellare l’ignominia, l’infamia. La Corte Suprema argentina ha stabilito che non hanno più valore le leggi del perdono e della dimenticanza, promulgate nel 1986 e 1987 dal governo di Raul Alfonsin, alle quali fece poi seguito nel 1989 la concessione dell’indulto da parte del Presidente Carlos Menem. Annullata la sentenza perché le leggi che stendevano l’oblìo sui crimini non hanno più vigenza, in esecuzione di quanto disposto dal governo Kirchner che, con coraggio civile e politico, nel 2003 abrogò le leggi perdoniste verso i militari argentini che affogarono nel sangue partiti, sindacati e società civile.

di Carlo Benedetti

E’ cronaca di una fine annunciata. Con Putin che, con gli Usa, ha retto il dialogo-confronto sino all’ultimo momento e ha poi deciso di passare all’attacco sospendendo la partecipazione della Russia al Trattato sulle Forze convenzionali in Europa (Cfe). Lo ha fatto con un solenne annuncio alla nazione, ricordando agli americani un vecchio detto popolare del suo paese. E cioè che quando un orso dorme è bene non fare rumore… E di rumore la Casa Bianca (la Cia e il Pentagono) ne hanno fatto già molto battendo con forza su quello scudo spaziale che dovrebbe portare i missili di Washington nel cuore dell’Europa, in Polonia (un sito per 10 intercettori di tipo Kei) e nella Repubblica Ceca (un X-Band Radar) squilibrando la mappa e la tranquillità del continente. Così la Russia - che in questi mesi sta puntando a riconquistare un ruolo mondiale, militare e politico superando la fase post-sovietica della transizione - ha deciso di rispondere colpo su colpo. Prima ha annunciato una serie di iniziative strategiche e militari con la dislocazione di sue postazioni missilistiche in nuove zone della Russia, proponendo contemporaneamente una base comune Usa-Russia in Azerbaigjan, paese più prossimo all’Iran di quanto non sia la Repubblica Ceca. Questo con l’obiettivo di venire incontro alle “esigenze” americane. Ma poi, visto il silenzio statunitense, ha deciso di passare all’attacco.

di Ilvio Pannullo

C’è qualcosa in Italia che pare non funzioni come dovrebbe. Il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici, ha denunciato il Sismi per aver spiato le procure della Repubblica di Milano, Roma, Torino e Palermo, sorvegliando le iniziative di 47 magistrati italiani, con lo scopo di intimidirli e screditarli con azioni “anche traumatiche”. Le intercettazioni e i dossier fabbricati da Pio Pompa, stretto collaboratore del generale Pollari, hanno riguardato anche esponenti politici del centro-sinistra. Inoltre, pare – o almeno questo sostiene il CSM – che i Servizi Segreti Militari Italiani, non contenti di commettere un vero e proprio atto illecito nei confronti dell’Ordinamento Nazionale, abbiano anche spiato 156 magistrati europei, violando, così, la sovranità di paesi con cui intratteniamo costantemente rapporti politici e diplomatici. In un paese normale, dove la democrazia non è una parola con cui riempirsi la bocca, ma un preciso assetto istituzionale dotato di meccanismi di rappresentanza, con organi appositamente creati per tutelare la divisione dei poteri e garantire i diritti che unanimemente si immaginano vigenti, questo basterebbe per creare un’emergenza nazionale. I telegiornali aprirebbero ogni notiziario con gli ultimi sviluppi, le procure lavorerebbero a ritmi serrati con il pieno appoggio del potere politico e la popolazione intera vivrebbe con ansia l’evolversi della vicenda. In un altro paese, forse; in Italia certamente no.

di Giuseppe Zaccagni

Le istituzioni democratiche dell’occidente alzano il tiro sul Kosovo sperando che un giorno sarà tutto diverso. Per la soluzione della controversia politico-istituzionale si parla già di un passaggio all’Onu. Dovrebbe essere il Consiglio di Sicurezza ad occuparsene per garantire un certo equilibrio. Ma Belgrado protesta ed insiste sulla linea di un Kosovo serbo capace di archiviare gli scontri etnici ed ideologici. Dure prese di posizione arrivano anche dal grande alleato del mondo slavo – la Russia – che manda a dire all’occidente (tramite il ministro degli Esteri Serghei Lavrov) che ogni decisione è possibile, ma solo con il consenso delle due parti coinvolte. E nello stesso tempo Mosca ricorda che potrebbe ricorrere al diritto di veto. E così sulle Nazioni Unite si ripresenta un’arma diplomatica che era caduta in disuso dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sin qui le posizioni della realpolitik. Rafforzate anche dall’annuncio di Slobodan Samardzic, responsabile per il Kosovo del governo di Belgrado. E’ lui che annuncia nuove consultazioni che dovrebbero portare ad un accordo sulla regione contestata con un radicale restyling favorevole, però, ai serbi.

di Eugenio Roscini Vitali

Sono ormai due mesi che i militanti di Fatah al-Islam sono asserragliati a Nahr al-Bared, uno dei 12 campi profughi palestinesi che sorge a nord di Tripoli e che negli ultimi tempi è diventato base e centro di addestramento del gruppo radicale guidato da Shaker al-Absi. I sanguinosi scontri di Nahr al-Bared, che per 32 giorni hanno visto di fronte il gruppo integralista sunnita e l’esercito di Beirut, hanno lasciato sul terreno circa 150 persone, metà delle quali militari libanesi. Una lunga battaglia che è per ora non ha visto ne vinti ne vincitori ma che ha mortificato ancora di più le già precarie condizioni dei 40 mila profughi che nel campo, civili senza Patria che si sono trovati improvvisamente ostaggi di una guerra non loro. Ad annunciare il cessate il fuoco unilaterale sono stati gli ultimi sopravvissuti di Fatah al-Islam, protetti da un accordo del 1969 che impedisce a qualsiasi non palestinese di entrare all’interno dei campi profughi libanesi.


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