di Elena Ferrara

Ora è alla sbarra. Si chiama Charles Taylor. Ha 59 anni. Di professione “massacratore di popoli” (con un master in economia nel Massachusetts negli Stati Uniti) e allo stesso tempo “Presidente della Liberia”. Per cinque anni, dal 1997 al 2002 ha seminato il terrore (50.000 vittime) sia nel suo paese che in Sierra Leone. E' accusato di aver sostenuto i ribelli che per undici anni hanno devastato il paese uccidendo o menomando migliaia di civili. Ora il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, così commenta l’avvio del processo: “E’ una giornata significativa per la comunità internazionale perché rappresenta un contributo nella lotta contro l’impunità non solo nell'Africa occidentale, ma nel mondo intero». Quali, quindi, i motivi che hanno portato questo ex presidente dinanzi ad un Tribunale internazionale? Nell'atto d'accusa la Procura recepisce una stretta connessione tra la guerra civile in Liberia e quella in Sierra Leone, entrambe legate al commercio illegale dei diamanti e di altre materie prime delle quali i due Paesi sono ricchi: commercio che ha garantito ingenti entrate nelle casse dei signori della guerra e dei commercianti internazionali di armi.

di Bianca Cerri

Ronald Reagan morì il cinque agosto 2004. La ricorrenza è caduta proprio mentre George Bush era in Europa, e i suoi funerali sono stati celebrati molti giorni dopo proprio per dare tempo al presidente di tornare negli Stati Uniti. Nel frattempo, è iniziata una campagna mediatica tesa a pennellarne l’immagine fino a trasformarla in quella di un eroe. In realtà, Reagan non fu altro che l’espressione peggiore di un’America guerrafondaia all’estero e patriarcale e razzista all’interno; che segregava le donne con il pretesto di proteggerle e sottometteva con la forza i migranti che osavano oltrepassare i suoi confini. Come ha osservato un grande poeta, ci sono uomini simili ai porcospini, che sanno essere furbi solo quando conviene. Il segreto di Ronald Reagan fu tutto qui, nel saper capitalizzare a proprio vantaggio lo scontento del suo paese. Tutti gli attribuiscono oggi doti oratorie che in realtà non ebbe mai. Sono semmai le sue gaffes, che lo resero celebre in tutto il mondo. L’uomo era dotato, soprattutto, di una crassa ignoranza riguardo i temi con i quali un uomo di stato dovrebbe avere confidenza; ma forse proprio questa fu in qualche modo la sua fortuna.

di Raffaele Matteotti

Era Natale quando l’Etiopia cominciò l’invasione della Somalia su richiesta degli USA. Il dittatore etiope Zenawi giustificò l’invasione con il timore di una invasione dell’Etiopia da parte degli islamici somali; una scusa simile nella sostanza a quella delle armi di distruzione di massa per l’Iraq. L’Etiopia è la potenza militare regionale, un paese di sessantacinque milioni di abitanti che aveva ben poco da temere dalle forze somale, forze che peraltro a malapena controllavano parte della Somalia e che non pensavano certo, neppure nei sogni dei più malmessi, di attaccare l’Etiopia. Era capodanno, quando Zenawi espresse la volontà di ritirare le sue truppe in modo che potessero essere sostituite da quelle dell’Unione Africana; truppe che dovevano essere composte da ottomila uomini di diversi paesi, ma che alla fine si sono materializzate in poco più di mille soldati dell’Uganda, uno di quei paesi retti da un autocrate che con Bush va d’amore e d’accordo. Degli altri nessuna traccia, nemmeno di quelli che alcuni stati si erano impegnati ad inviare.

di Agnese Licata

Venerdì scorso, il giorno stesso in cui a Milano iniziava il processo sul sequestro di Abu Omar, al Consiglio Europeo spuntava fuori un rapporto a confermare il coinvolgimento diretto dell’Italia nella pratica - targata stelle e strisce - di sequestrare terroristi o presunti tali. Secondo quanto spiegato dal relatore svizzero Dick Marty, il 4 ottobre 2001, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, Gli Stati Uniti proposero agli alleati della Nato – tra i quali anche l’Italia - una serie di accordi per garantire il via libera di tutti i Paesi aderenti alle proprie operazioni clandestine anti-terrorismo. In particolare, durante quella seduta il Consiglio Atlantico (convocato per discutere di come contrastare l’attacco di al-Qaeda) approvò un’intesa con Washington in otto punti. Unico lo scopo: garantire totale libertà di movimento ai voli della Cia. Voli definiti esplicitamente “militari”, in quanto diretti a combattere una guerra senza fronti e confini nazionali. Secondo gli accordi, il via libera era garantito non soltanto agli aerei dell’aeronautica, ma anche a qualsiasi volo civile, magari con agenti della Cia in borghese diretti a prelevare e interrogare una rendition, una “consegna speciale” come l’ex imam di Milano. Non solo. I vari Paesi Nato decisero di mettere a disposizione degli americani porti e aeroporti per rifornimento e supporto logistico.

di Carlo Benedetti

Con l’Air Force One sette paesi in sette giorni. E’ il giro che Bush – tra baci, contestazioni e preoccupazioni - ha compiuto dal 4 all’11 giugno in Europa. Prima tappa quella di Praga, capitale della Repubblica Ceca (con il presidente Vaclav Klaus),; poi un volo nella Germania di Heiligendamm e della Merkel, per il G8. Quindi una rapida incursione a Danzica (con il premier polacco Kaczynski) e poi Roma (con Prodi e Napolitano), in Vaticano (con il papa tedesco Ratzinger), a Tirana (con il presidente Berisha) e, infine, Sofia (con il presidente Parvanov ed il premier Stanishev). Completata la tournee i grandi e Bush tirano le somme. Il presidente americano alla Casa Bianca e Putin al Cremlino dove convoca gli uomini che lo assistono in questa stagione di rapporti tempestosi. Cosa risulta, quindi, da questo panorama europeo? Messi da parte gli scontri ideologici (tradizionali) risulta ancora una volta che il diktat generale viene dagli Usa che continuano a ritenere il vecchio continente come una parte dei loro Stati Uniti. E, precisamente, Stati Uniti d’Europa come vere filiali della casa-madre.


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