di Alessandro Iacuelli

La stazione della metropolitana di Deák Ferenc tér è quella principale di tutta Budapest. E' lo snodo, il punto di intersezione ed anche la più estesa di tutte tre le linee sotterranee della capitale. La maggiore differenza tra la stazione come è oggi e come era nel 2000 sta nel numero di senzatetto che vi abitano. Nel 2000 non ce n'era nessuno, oggi si incontrano difficoltà a trovare un posto libero per un vecchio sacco a pelo. Sono persone, spesso pensionati, che non possono permettersi un alloggio, neanche un posto letto in un appartamento condiviso con altre persone. La capitale è anche circondata da boschi bellissimi, soprattutto seguendo il Danubio verso nord. Le statistiche ci dicono che diviene sempre più alto il numero di persone che vive in quei boschi, in capanne costruite alla meglio, perchè non possono più reggere i costi di un alloggio vero. E' il bilancio attuale del secondo mandato del governo Gyurcsány, l'uomo più ricco del Paese, che è anche leader della coalizione socialista guidata dal MSZP. E' il bilancio di un Paese che fa parte dell'Unione Europea e che anche quest'anno vede tutti gli indicatori economici e sociali con il segno meno davanti. L'inflazione è attorno all'8,3%, la crescita è nulla.

di Eugenio Roscini Vitali

L’amministrazione Bush ha chiesto un nuovo finanziamento, 46 miliardi di dollari, necessari a portare avanti la guerra in Iraq e in Afghanistan. Uno stanziamento di “emergenza” che si va ad aggiungere ai 150 miliardi di dollari già approvati per l’anno fiscale 2007. Un supplemento che, se accordato, porterebbe la spesa militare post “11 settembre” a 806 miliardi di dollari. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale questa cifra non era mai stata raggiunta in nessun conflitto, un triste record che difficilmente potrà essere superato. Ma la cosa non finisce qui: il piano di investimento pubblicato dal “Congressional Budget Office” - l’agenzia americana di analisi politico-finanziaria che studia i bilanci e le proiezioni di spesa che devono essere approvate dal Congresso - prevede che entro il 2017 gli Stati Uniti dovrebbero sborsare, per le due missioni in Asia minore e per la lotta al terrorismo, qualcosa come 1.7 bilioni di dollari, cifre che non sembrano neanche reali e che potrebbe permettersi solo il buon vecchio Paperon de’ Paperoni.

di Giuseppe Zaccagni

Un’ondata di proteste sconvolge la Georgia e quella “Rivoluzione delle rose” - che gli americani - Casa Bianca, Cia, Pentagono - avevano organizzato e sostenuto con tutti i mezzi - si sta appassendo a gran velocità. Gli scontri nelle piazze ne sono la prova più lampante, con centinaia di migliaia di georgiani che attaccano il presidente Michail Saakasvili chiedendo le sue dimissioni immediate (accusandolo di abuso di potere e di cattiva gestione economica), elezioni anticipate e una riforma costituzionale che abolisca la carica di capo dello Stato. Il caos, intanto, regna in tutto il paese che conta 5 milioni di abitanti. Le manifestazioni più imponenti avvengono nella capitale Tbilisi, ma molte sono le notizie che si riferiscono ad analoghe azioni di protesta sia nelle oltre cinquanta province che in quelle repubbliche autonome da sempre in rotta con il potere centrale: Abchasija, Adzaria ed Ossezia del Sud. Situazione quindi più che mai a rischio, mentre si delinea all’orizzonte un vero e proprio pericolo di “guerra civile”. Il Paese - un assetto etnico a pelle di leopardo - sembra proprio giunto alla fase finale della resa dei conti. Escono dagli armadi della storia più recente i tanti scheletri di vicende politiche interne, tutte manovrate dalle forze d’oltreoceano che hanno sempre considerato la Georgia come un trampolino di lancio per sferrare l’attacco alla Russia e alla sua influenza nel Caucaso.

di Carlo Benedetti

C’è stata la “stagnazione” sovietica che ha segnato il periodo di Breznev ed ora si scopre che c’è stata anche una “stagnazione” religiosa che ha segnato la gestione del papa polacco in riferimento ai rapporti con gli ortodossi. Lo rivela, pur con tutta la diplomazia tipica dell’Oltretevere, una nota dell’Osservatore Romano (passato ora sotto la direzione di Giovanni Maria Vian, docente di Filologia patristica all'università di Roma “La Sapienza”) nella quale si precisa che “un passo deciso nel dialogo ecumenico tra cattolici e ortodossi” rimette in moto “una situazione stagnante”. Il riferimento è preciso perché proprio in questo momento la diplomazia vaticana avvia una nuova fase distensiva nei confronti del mondo ortodosso del “Patriarca di Mosca e di tutte le Russie” Aleksei II. Quanto avviene ora non è quindi casuale. Si è, forse, alla vigilia di un atteggiamento più aperto e flessibile, perché Papa Ratzinger azzera la nomenklatura vaticana presente in Russia e ricomincia da capo la costruzione di una strada che faciliti l’incontro tra la Chiesa di Roma e quella di Mosca. Come prima mossa è sostituito quel monsignore polacco Tadeusz Kondrusiewicz, Arcivescovo metropolita dell'Arcidiocesi della Madre di Dio, da anni rappresentante del Vaticano a Mosca. Personaggio controverso e non sempre accettato dai “pope” russi che lo hanno considerato come una figura prettamente politica. Al suo posto, nel piccolo vaticano della capitale russa, arriva l’arcivescovo italiano Paolo Pezzi (un ravennate di 47 anni) finora Rettore del Seminario Maggiore "Maria Regina degli Apostoli" a San Pietroburgo. Kondrusiewicz va a fare l’arcivescovo Metropolita a Minsk-Mohilev, in quella Bielorussia dove ha vissuto i primi anni del suo ministero episcopale dal 1989 al 1991.

di Agnese Licata

Nehru e Gandhi, i due grandi padri dell’India, avevano sempre avuto idee molto diverse su quale sarebbe dovuto essere il futuro di una nazione che oggi è abitata da oltre un miliardo di persone. Il primo, favorevole allo sviluppo industriale e a un progresso di stampo occidentale. Il secondo, la “grande anima” non-violenta, sostenitore dell’importanza di dare forza e centralità alla società rurale, come unica via per garantire la convivenza tra le mille etnie che da secoli abitano la penisola indiana. Lo scontro tra queste due ideologie non si è certo risolto con l’uccisione dei suoi leader. Anzi, giorno dopo giorno, nonostante tassi di crescita imponenti che potrebbero far pensare a un assoluto successo del modello occidentale, più di un Paese asiatico si trova oggi di fronte a disuguaglianze sociali enormi che condannano alla povertà chi vive nelle campagne. A dimostrare che i nodi stanno arrivando al pettine e che bisognerebbe ripensare il sistema, ci sono le manifestazioni di contadini e povera gente, sempre più diffuse e sempre meno facili da nascondere.


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