di Carlo Benedetti

Le manganellate di Mosca e San Pietroburgo sembrano avere una certa continuità. A Mosca dissidenti ed oppositori sono sotto accusa. Si muovono polizia e magistrati. E ancora una volta c’è, in Russia, una situazione delicata e difficile che va esaminata con molta attenzione (e preoccupazione…) proprio perché tutto è in movimento, mentre si dispiega una competizione senza frontiere tra mercati finanziari vecchi e nuovi. Si è così di fronte ad uno sfacciato tradimento delle promesse e ad una sorta di fallimento politico di quel disegno “democratico” - post-eltsiniano - tanto propagandato. Cerchiamo di districarci in questo labirinto geopolitico che si è andato sempre più caratterizzando, negli ultimi tempi, con il prevalere di un dibattito politico che ha solo enfatizzato i contrasti tendendo a risolvere ogni confronto in una questione di schieramenti. E, di conseguenza, lacerando il Paese. Partiamo, per questo tentativo di ricostruzione analitica, dagli ultimi fatti.

di Laura Bruzzaniti

Il 9 maggio prossimo in una piazza de L’Aja (Paesi Bassi) sarà tolto il velo ad un nuovo monumento ai caduti. Un grande acero collegato tramite webcam ad un sito internet, realizzato dell’artista olandese Voebe de Gruyter, sarà posto a memoria di una categoria particolare di caduti in guerra: non i caduti di una guerra in particolare, né i caduti di tutte le guerre, ma le vittime delle armi chimiche, morti in battaglie e guerre diverse, per mano di nemici diversi, nel corso dell’ultimo secolo. Come i 5.000 morti a Ypern il 22 aprile 1915 per il gas di cloro usato dall’esercito tedesco, o i morti in Abissinia per mano italiana, i caduti del Vietnam, o quelli dello Yemen per l’acido cianidrico impiegato dall’Egitto, o i Curdi morti ad Halabja nel 1988 per i gas nervini iracheni.

di Carlo Benedetti

Boris Nikolaevic Eltsin passa alla storia per aver ordinato il bombardamento del Parlamento, per aver posto la sua firma nell’atto di scioglimento dell’Unione Sovietica, per aver combattuto contro il sistema socialista dell’Urss, per aver gettato le basi di un capitalismo selvaggio. E soprattutto per essere stato uno zar rozzo, inflessibile e astuto: espressione di una potenza irrazionale, convinto di voler e poter rifare tutto da capo. Non, comunque, un liberale impegnato sul terreno delle riforme democratiche, ma un populista capace di cogliere gli umori della gente. Era arrivato al vertice sull’onda lunga di una lotta alla corruzione e ai privilegi della nomenklatura, ma una volta al Cremlino si era scordato platealmente di tutto. E’ stato – ricordiamolo - il primo presidente della Russia - dal 1992 al 2000 – sino a quando lasciò il Paese nelle mani di Vladimir Putin. Travolto da scandali, circondato da oligarchi e mafiosi, è stato in tutti questi anni in chiaro declino fisico e psicologico. E’ morto a 76 anni. Ed ora il Cremlino – “liberatosi” della ingombrante presenza – potrà riuscire a fare i conti con la storia dell’intero periodo della transizione post-sovietica. E vedere, forse, le cose più obiettivamente, gettando nuova luce su una gestione che si caratterizzò con intrighi e lotte di palazzo.

di Agnese Licata

Questa volta i sondaggi non hanno tradito: Nicolas Sarkozy doveva essere e Nicolas Sarkozy è stato. La percentuale definitiva delle schede favorevoli al leader della destra ha superato anche quel 30% che in tutte le intenzioni di voto era indicata come soglia massima. Alla fine di una domenica in cui tanti, tantissimi francesi - ben l’85% degli aventi diritto - non hanno voluto rinunciare a esprimere la propria preferenza, Sarkozy ha conquistato il 31,11% dei voti. Una percentuale, questa, raggiunta al termine di uno scrutinio che ha progressivamente ampliato la distanza tra lui e la sua avversaria, Ségolène Royal. La candidata del partito socialista non è andata oltre il 25,84%, abbastanza comunque per garantirle la sfida con Sarkozy al secondo turno del 6 maggio. Oltre il 18% (precisamente al 18,55%) il centrista Fran¸ois Bayrou. Il vero deluso dai risultati delle urne è Jean-Marie Le Pen e il suo partito di estrema destra, che supera di poco il 10%, lontano da quel 16% del 2002. Cinque anni fa Le Pen era riuscito nell’impensabile: arrivare al ballottaggio mettendo fuori gioco il candidato socialista Lionel Jospin. Questa volta gli slogan contro l’immigrazione e contro l’Unione europea non sono bastati a garantirgli un secondo colpo di scena. Gli altri candidati? Solo comparse, fermi tutti al di sotto del 5% (a raggranellare qualche voto in più degli altri è il trotzkista Olivier Besancenot, con poco più del 4%). Comparse che però avranno un ruolo non indifferente al secondo turno, scegliendo il candidato su cui far confluire i propri voti.

di Bianca Cerri

Il 22 aprile del 1994 moriva Richard Nixon, 37 presidente degli Stati Uniti d’America e uomo dalle tante vite. A 13 anni di distanza, gli storici incontrano ancora qualche difficoltà nel riassumere la sua figura perché, a parte la data di nascita e la fede quacchera dei genitori, tutto il resto è opinabile. Dopo l’elezione alla Camera dei Rappresentanti nel 1946, la sua ascesa politica fu veloce come una meteora, ma già allora si intravedeva in lui una straordinaria propensione alla menzogna. Nel 1960, Richard Nixon ottiene la nomination repubblicana e tenta la carta presidenziale, ma l’aria tirata e gli abiti da provinciale non possono reggere il confronto con il giovane e sorridente Kennedy. La sconfitta è una batosta formidabile, ma quattro anni dopo Nixon tira di nuovo fuori le unghie e si ripresenta alle elezioni sfidando il democratico Humphrey. Stavolta la vittoria è sua, soprattutto grazie ai voti della cosiddetta “maggioranza silenziosa”.


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