Per la prima volta da quando è stato eletto presidente, Volodymyr Zelensky ha partecipato quest’anno di persona all’annuale appuntamento del World Economic Forum (WEF) di Davos, nelle alpi svizzere. La necessità di incontrare leader politici e “CEO” da parte dell’ex attore comico deriva dalla situazione drammatica delle forze armate del suo paese sul campo di battaglia e, di conseguenza, dal progressivo raffreddamento della classe dirigente occidentale per la causa ucraina. Zelensky ha comunque voluto rilanciare il suo utopistico “piano di pace”, ben sapendo che le possibilità che venga anche solo discusso seriamente sono pari a zero.

A Davos, Zelensky si è rallegrato del fatto che decine di paesi avrebbero manifestato interesse in quella che viene propagandata come una sorta di sua personale “Formula di Pace”. Il sostegno nominale degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali incide tuttavia poco o nulla sulla sostanziale inutilità del progetto stilato da Kiev. Una serie di condizioni assurde e completamente sganciate dalla realtà sul campo, assieme all’assenza della Russia dall’eventuale tavolo delle trattative, rendono vano e illusorio qualsiasi sforzo per trovare una soluzione pacifica al conflitto tramite questo percorso.

Il governo iraniano ha fatto questa settimana un passo significativo verso il coinvolgimento diretto nel conflitto di portata sempre più vasta che sta infiammando il Medio Oriente a causa della brutale aggressione di Israele contro la striscia di Gaza. Teheran ha infatti risposto tra lunedì e martedì agli attacchi terroristici che nelle scorse settimane avevano provocato oltre cento vittime entro i propri confini, colpendo vari obiettivi in Siria, Iraq e Pakistan.

Se si considera il quadro generale della crisi in corso, l’iniziativa della Repubblica Islamica segna la mobilitazione a favore dei palestinesi dell’ultimo e più importante componente dell’Asse della Resistenza dopo i fatti del 7 ottobre scorso. Oltre a Hamas, sono com’è noto già impegnati contro le forze dello stato ebraico e i suoi più stretti alleati, sia pure con modalità differenti, Hezbollah in Libano, Ansarallah (“Houthis”) nello Yemen e le milizie sciite filo-iraniane in Iraq.

Il primo appuntamento in calendario per le primarie del Partito Repubblicano americano si è tenuto lunedì sera in Iowa e ha registrato come previsto la nettissima vittoria di Donald Trump. L’ex presidente si prende quindi subito il ruolo di favorito nella corsa alla nomination, mentre i suoi più immediati rivali sembrano ritrovarsi precocemente con pochissime prospettive di successo. Dopo i tradizionali “caucus” che aprono la competizione interna a entrambi i principali partiti negli Stati Uniti, la sfida si sposterà tra una settimana nel New Hampshire, dove i sondaggi danno ancora Trump in vantaggio. Un eventuale bis nello stato nord-orientale darebbe già una direzione molto netta alle primarie repubblicane, lasciando probabilmente come unico ostacolo verso la nomination le svariate cause legali che vedono coinvolto l’ex presidente repubblicano.

Nonostante gli Stati Uniti si siano nominalmente adoperati negli ultimi tre mesi per evitare un allargamento del conflitto in Medio Oriente, è stato alla fine proprio il governo di Washington a provocare in maniera diretta un’escalation dello scontro bombardando una serie di obiettivi militari nel territorio yemenita controllato da Ansarallah (“Houthis”). La giustificazione ufficiale è la protezione delle rotte commerciali attraverso il Mar Rosso, ma l’amministrazione Biden, assieme a una manciata di alleati, sta invece di fatto proteggendo e favorendo il genocidio in corso a Gaza per il quale Israele è attualmente alla sbarra davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.

Lo scorso 10 Gennaio si sono celebrati diciassette anni dal ritorno al governo del Sandinismo, anni durante i quali si è realizzato il più grande processo di modernizzazione del Nicaragua. I risultati ottenuti sia nelle politiche sociali che a livello macroeconomico, nelle loro cifre generali e di dettaglio, confermano risultati straordinari per un piccolo Paese di poco più di 6 milioni di abitanti, che aveva ereditato debiti e miseria ed è costantemente sotto attacco da parte del gigante del Nord.

Il Sandinismo ha suscitato speranze e ora, chi spera, non guarda più al cielo ma in terra, testimoniando ciò che si è realizzato. Il complesso della modernizzazione del Paese, trasformazione dopo trasformazione, ha avuto un corso incrollabile, con una direzione chiara e non ondivaga: l'estensione dei diritti sociali in termini concreti, con strumenti concreti per goderne.

la società di rilevazioni M&R Consultores ha appena pubblicato il suo ultimo sondaggio sulla soddisfazione dei nicaraguensi nei confronti del governo e del suo leader. I dati sono schiaccianti ma chiedersi perché, dopo 17 anni, il credito popolare nei confronti del governo e del suo presidente sia così alto può sembrare una domanda retorica: quando un governo  consegna terre e case, cioè restituisce il Nicaragua ai nicaraguensi, si capisce che il gennaio 2007 arrivò per cambiare tutto ciò che doveva essere cambiato. Il Nicaragua di oggi è infatti distinto e distante da quello di 17 anni fa.


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