L’area del Pacifico è in questi giorni nuovamente interessata da gravi tensioni tra il fronte filo-americano e la Cina dopo che Pechino ha mandato in porto un accordo di “cooperazione strategica” con il governo delle isole Cook. Questo arcipelago di appena 15 mila abitanti è una sorta di semi-colonia della Nuova Zelanda e qualsiasi iniziativa della sua classe politica che metta in discussione lo status quo, tanto più aprendo spazi alla penetrazione cinese, viene vista come una minaccia inaccettabile. Il primo ministro delle Cook, Mark Brown, ha cercato in tutti i modi di rassicurare il governo neozelandese, ma in un quadro regionale segnato dalla crescente competizione con la Cina è improbabile che la questione venga dimenticata in fretta, nonostante il pieno diritto del piccolo paese del Pacifico a esplorare qualsiasi opportunità di sviluppo economico.

I colloqui preliminari conclusi martedì a Riyadh tra le delegazioni di Stati Uniti e Russia non hanno prevedibilmente avvicinato una soluzione diplomatica alla crisi ucraina né resettato del tutto le relazioni tra le due potenze nucleari. Dopo un summit di oltre quattro ore dai toni cordiali, tuttavia, il risultato più importante è stato l’accordo sulla preparazione di un vero e proprio negoziato, basato sul riconoscimento degli interessi strategici di entrambe le parti. Il prossimo passo potrebbe essere ora l’atteso faccia a faccia tra Putin e Trump, ma le variabili sulla strada della pace in Ucraina restano moltissime, a cominciare dal comportamento dei vassalli europei, messi da parte dalla nuova amministrazione repubblicana, e dello stesso regime di Zelensky, il cui futuro appare cupo come non mai in questi ultimi tre anni.

Mentre Trump e i suoi uomini hanno definito chiaramente gli obiettivi in relazione alla guerra tra Russia e Ucraina, sia pure tralasciando o posticipando i dettagli cruciali, l’Europa resta ancorata a una realtà superata da tempo dagli eventi e continua a impegnarsi pubblicamente per un progetto irrealizzabile, sia esso la vittoria di Kiev o una “pace giusta” oppure, ancora, l’ottenimento di adeguate garanzie di sicurezza per il paese dell’ex Unione Sovietica.

Nonostante le minacciose dichiarazioni di Trump e Netanyahu dei giorni scorsi, la tregua nella striscia di Gaza sembra potere resistere, almeno per il momento, dopo che giovedì Hamas ha confermato che procederà con la liberazione concordata di altri tre prigionieri israeliani entro la giornata di sabato. La minaccia dello stop all’implementazione delle condizioni previste dal cessate il fuoco era legata alle ripetute violazioni da parte di Israele, ma anche al piano delirante del presidente americano per trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente” sotto il controllo USA. Se confermato, il momentaneo passo indietro di Washington e Tel Aviv, alla base della decisione di Hamas di sbloccare la liberazione dei prigionieri, è probabilmente dovuto proprio al disastroso impatto di quest’ultimo progetto criminale, che, tra l’altro, rischierebbe seriamente di destabilizzare vari paesi arabi alleati di Washington.

Con l’arrivo di Trump alla casa Bianca un cambio di rotta ci si aspettava e un cambio di rotta è arrivato. I paesi europei che si sono fatti trascinare con entusiasmo russofobico nella crociata anti-russa hanno ricevuto conferme precise ai loro peggiori timori nella vicenda ucraina. In una telefonata intercorsa tra i due presidenti di Usa e Russia, si è aperto il negoziato tra Casa Bianca e Cremlino e si sono ipotizzati colloqui diretti e reciproci viaggi nei rispettivi paesi quale segno della ripresa di un rapporto positivo, come dimostra lo scambio di prigionieri avvenuto in assoluta rapidità. Dunque la road map negoziale sull’Ucraina è iniziata e dalle prime indiscrezioni, peraltro confermate quasi apertamente da Washington, sembra che le richieste di Putin per porre fine all’operazione militare speciale russa possano essere accettate nella sostanza.

La tregua a Gaza sembra essere ormai sull’orlo del collasso. Hamas ha annunciato la sospensione della liberazione dei prossimi ostaggi, un passo che compromette seriamente l'implementazione degli accordi di cessate il fuoco. Questa decisione è motivata dalle reiterate violazioni dell’accordo da parte di Israele, che continua a condurre operazioni militari e bloccare l’ingresso di forniture essenziali. Tra le infrazioni documentate, si segnalano l’uso quotidiano di droni da ricognizione, l’uccisione di decine di civili e ostacoli sistematici all’ingresso di materiali di soccorso, inclusi medicinali e attrezzature per la rimozione delle macerie. A peggiorare la situazione, Israele continua a ritardare il ritorno dei palestinesi sfollati nel nord della striscia, violando uno degli impegni centrali della tregua.

Questa escalation arriva dopo l’ennesima dimostrazione di arroganza politica da parte degli Stati Uniti. Durante un’intervista, Donald Trump ha ribadito il suo progetto di spopolare Gaza e trasformarla in una sorta di proprietà personale, descrivendola come "un’opportunità immobiliare per il futuro". Le dichiarazioni dell'ex presidente delineano un piano criminale di pulizia etnica, che include il trasferimento permanente dei palestinesi verso paesi terzi come Giordania ed Egitto, minacciando sanzioni contro chiunque non collabori.


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