Il primo ministro canadese Justin Trudeau, dimessosi ufficialmente dal suo incarico nella giornata di lunedì, è in qualche modo vittima, oltre che delle politiche implementate dai suoi governi nell’ultimo decennio, della rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Il rapido precipitare delle fortune del 53enne ex icona della galassia “liberal” occidentale può infatti essere ricondotto ai fermenti che stanno infiammando la classe politica canadese in preparazione di una possibile offensiva, in primo luogo sul fronte commerciale, della nuova amministrazione repubblicana oltre il confine meridionale. Il suo Partito Liberale dovrà ora trovare un nuovo leader in tempi brevi, ma nulla servirà a impedire la vittoria nelle molto probabili elezioni anticipate di un Partito Conservatore sempre più orientato verso l’estrema destra populista.

Immigrazione, dazi, Ucraina. A sentire le promesse elettorali di Donald Trump, quello che inizierà il prossimo 10 gennaio è una sorta di rito purificatorio degli Stati Uniti. La serie di misure annunciate dovrebbero mostrare in tempi brevi la ripresa della leadership statunitense nell’economia, nella conduzione politica degli affari globali, nella reiterazione della potenza militare. Un ritorno del dominio imperiale che arresterebbe la caduta in tutti i campi del modello a stelle e strisce. Ma davvero si ritiene che il Make America Great Again sia alla portata di un impero che ha problemi maggiori delle sue risorse? E che possa invertire la rotta in un quadriennio presidenziale?

La destra internazionale incrocia le dita e si prepara a questa riscossa imperiale, ma la mappa del pianeta è decisamente cambiata, anche solo volendo prendere a riferimento il primo mandato del tycoon. Oggi la ricchezza mondiale si trasferisce da Nord verso Sud e verso Est: per lo sviluppo accelerato delle economie emergenti e perché la capacità di interlocuzione degli USA è stata duramente danneggiata dall’uso arrogante delle sanzioni e degli embarghi ai 4 angoli del pianeta.

Gli attentati terroristici avvenuti a New Orleans e Las Vegas durante il periodo di Capodanno hanno scosso gli Stati Uniti non solo per l’efferatezza dei crimini, ma anche per il modo in cui sono stati immediatamente strumentalizzati dal presidente eletto Donald Trump. Attraverso post sui social media e dichiarazioni pubbliche, Trump ha cavalcato l’onda emotiva suscitata dagli eventi per alimentare ulteriormente l’odio contro gli immigrati e rafforzare il sostegno della sua base politica. In un contesto di crescente polarizzazione e crisi sociale, la narrazione promossa da Trump rappresenta un pericoloso tentativo di deviare l’attenzione dalle reali cause del malessere americano, ricorrendo a un linguaggio divisivo che prepara il terreno per nuovi attacchi contro i diritti civili e politici.

Chi pensa che l’uscita di Biden dalla Casa Bianca sia il segnale di scampato pericolo, finirà presto per ricredersi. Se è vero che il delirio da crociati 3.0 dei democratici statunitensi portava il mondo verso una crisi militare da cui sarebbe stato difficile tornare indietro, è altrettanto vero che la compagine che s’insedierà tra poco più di venti giorni al 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington DC, contiene in sé ogni possibile allarme verso i governi che scelgono politiche sovrane di difesa degli interessi nazionali e che provano a creare un ordine internazionale più giusto, almeno più equilibrato.

Un recente articolo del New York Times ha rivelato l’esistenza di documenti ufficiali delle forze armate israeliane che autorizzano l’uccisione di venti civili non combattenti per ogni presunto sostenitore di Hamas. In alcuni casi, il rapporto raggiunge addirittura 100 a uno. Questi documenti gettano una luce inquietante sulla strategia di Israele, confermando anche in maniera formale che l’obiettivo della guerra a Gaza non è solo quello di colpire i combattenti di Hamas, ma anche e soprattutto di infliggere il massimo danno possibile alla popolazione civile palestinese.


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