Alcuni mandati internazionali di arresto sono apparentemente più pesanti ed efficaci di altri e a sperimentarlo in prima persona è stato l’ex presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, preso in custodia martedì mattina all’aeroporto di Manila dalle autorità di polizia del suo paese in seguito a un ordine emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI). Ci sono pochi dubbi che il 79enne ex sindaco della città di Davao abbia gravi responsabilità nei fatti contestati dal tribunale de L’Aia, da collegare alla guerra scatenata contro il traffico di droga durante il suo mandato alla guida del paese del sud-est asiatico. La rapidità con cui l’attuale governo, guidato dal presidente Ferdinand Marcos jr., ha eseguito l’arresto è dovuta però in primo luogo al feroce conflitto interno alla classe politica indigena, conseguenza a sua volta dello scontro in atto sulla direzione da dare alla politica estera filippina nel pieno della competizione tra Cina e Stati Uniti.

Tra le iniziative che la nuova amministrazione repubblicana aveva promesso per ripulire l’apparato di potere burocratico dentro il governo americano, altrimenti noto come “Deep State”, c’era e sembra esserci ancora l’impegno a rendere pubblici tutti i documenti ancora riservati del caso Jeffrey Epstein. Il primo tentativo, annunciato dal ministro della Giustizia (“Attorney General”), Pam Bondi, si è risolto però nei giorni scorsi in un completo fallimento. Il materiale pubblicato non ha aggiunto nulla di nuovo a quanto già si sapeva sui contatti ad altissimo livello del defunto finanziere di New York. Da allora, ci sono stati ulteriori sviluppi che, secondo il dipartimento di Giustizia, dovrebbero finalmente avvicinare la rivelazione dei “segreti” di Epstein.

La vicenda politico-militare ucraina è estremamente complessa. Oltre a rappresentare la fine di una strategia della NATO lunga 30 anni - che vedeva la Russia come nemico, il circondarla come tattica militare e sconfiggerla come obiettivo politico - la conclusione di questa ennesima avventura a perdere del capitalismo liberista messianico porta con sé problemi di natura non semplice.

Il futuro immediato di Gaza e della tregua firmata lo scorso 15 gennaio continua a rimanere avvolto nell’incertezza per via delle manovre del regime di Netanyahu e della doppiezza dell’amministrazione Trump. Il presidente americano ha recentemente respinto il piano alternativo per la ricostruzione della striscia, presentato dall’Egitto e dalla Lega Araba, e lanciato un nuovo feroce ultimatum a Hamas per il rilascio dei rimanenti prigionieri israeliani. Dall’altro lato, però, mercoledì è circolata la notizia di trattative dirette tra gli inviati della Casa Bianca e il movimento di liberazione palestinese che controlla Gaza. Quello in atto sembra essere un gioco di equilibrismi tra il sostegno ai progetti coloniali e genocidi dello stato ebraico e gli sforzi per evitare che la regione esploda in un conflitto generalizzato.

Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha rivelato martedì che il governo russo si è proposto di mediare un eventuale negoziato diplomatico tra gli Stati Uniti e l’Iran per raggiungere un accordo sull’annosa questione del nucleare di Teheran. L’offerta sarebbe stata discussa a margine del vertice tra gli inviati di Trump e Putin a Riyadh lo scorso mese di febbraio, dopo che i due presidenti avevano toccato l’argomento nella telefonata che aveva preceduto l’evento. L’interesse della nuova amministrazione repubblicana per una possibile intesa con la Repubblica Islamica non è una sorpresa, ma lo stesso Trump continua a tenere un atteggiamento a dir poco ambiguo sull’argomento, mentre dal lato pratico sembra assecondare le solite fallimentari politiche della “massima pressione” promosse dai falchi “neo-con” e dal regime sionista di Netanyahu.


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