Il totale fallimento del progetto ucraino non sembra avere influito minimamente sulle scelte di politica estera degli Stati Uniti, visto che uno scenario simile a quello dell’ex repubblica sovietica continua a essere promosso dall’amministrazione Biden sull’isola di Taiwan. L’ultima della lunga serie di provocazioni di questi anni è avvenuta nei giorni scorsi con la visita a Taipei di una delegazione “bipartisan” di deputati del Congresso di Washington, in concomitanza con l’insediamento del nuovo presidente taiwanese favorevole all’indipendenza, William Lai Ching-te.

Anche a Taiwan sembrano tuttavia aumentare le più che legittime preoccupazioni per il percorso distruttivo che il governo del Partito Democratico Progressista (DPP) sta seguendo.  Sempre più, i leader di quest’ultimo assecondano la promozione delle tendenze separatiste, attraverso la messa in discussione della politica di “una sola Cina”, riconosciuta formalmente anche da Washington e che nega appunto l’esistenza di una nazione o entità statale indipendente – o potenzialmente tale – a Taiwan. Ciò avviene con l’intensificazione delle relazioni diplomatiche, ma anche con il continuo invio di armi a Taipei e il dispiegamento di militari americani sull’isola.

I governi di Irlanda, Norvegia e Spagna hanno riconosciuto formalmente martedì lo stato palestinese, con una mossa che potrebbe convincere altri paesi europei a muoversi nella stessa direzione, aumentando così le pressioni su Israele. La decisione non avrà comunque effetti concreti sulla drammatica situazione nella striscia di Gaza. Il regime genocida di Netanyahu continua infatti ad agire in violazione di tutte le norme del diritto internazionale grazie all’irremovibile sostegno dell’amministrazione Biden. L’isolamento internazionale di Tel Aviv inizia però a rappresentare un serio problema per i governi in Occidente, dove in molti temono che la reputazione dello stato ebraico sia irreparabilmente danneggiata, con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare sul piano dei loro interessi strategici in Medio Oriente.

"La Russia che sta per attaccare l'Europa è una montatura propagandistica. Non occupa uno Stato della NATO. È l'Europa che sta preparando piani per attaccare la Russia". Parole e musica di Vicktor Orban, Presidente dell'Ungheria, membro dell'UE e della NATO. Si può nutrire ogni sorta di sentimento nei confronti di Orban, ma il riarmo contro Russia e Cina è impossibile da confutare.

I 1.26 trilioni di dollari che la NATO spende annualmente in armamenti rappresentano il 62% della spesa militare globale e si stima che l'aumento dall'attuale 2 al 4% del PIL di ogni Paese membro, con l'aggiunta di Svezia, Norvegia e Finlandia, porterà al 74% del totale, con l'Occidente davanti a Russia e Cina con una differenza abissale. Nello specifico dei tre giganti gli USA spendono 877 miliardi di Dollari, la Cina 296 e la Russia circa 90.  Ciò annulla ogni possibile argomentazione sul necessario equilibrio militare: la realtà dei numeri denuda la propaganda.

Il mercato bellico anglosassone è sovraeccitato. Dieci delle maggiori aziende di difesa del mondo hanno ordini per oltre 730 miliardi di dollari. La Germania investirà 100 miliardi di euro in armamenti nei prossimi tre anni con un chiaro orientamento russofobico e il Giappone ha avviato il più grande processo di riarmo della sua storia in evidente funzione anticinese.

La crisi irreversibile del governo britannico del primo ministro, Rishi Sunak, è culminata mercoledì con la decisione, presa da quest’ultimo e ratificata dal sovrano, di indire elezioni anticipate per il prossimo 4 di luglio. In un clima domestico e internazionale esplosivo, in buona parte responsabilità dello stesso gabinetto conservatore di Londra, la classe dirigente d’oltremanica ha ritenuto evidentemente urgente un passaggio di consegne nel Regno Unito, senza cioè attendere la scadenza naturale del mandato legislativo (gennaio 2025). Tutti i sondaggi danno favorito il Partito Laburista e il suo leader, Keir Starmer, la cui agenda è per molti versi indistinguibile da quella del governo e della maggioranza uscenti.

La crisi esplosa oltre una settimana fa nella colonia francese della Nuova Caledonia ha raggiunto un livello tale di gravità da spingere il presidente Macron a recarsi personalmente sull’arcipelago situato in posizione strategica nel Pacifico meridionale. Il governo di Parigi sta cercando in tutti i modi di soffocare le proteste della popolazione indigena contro una recente modifica costituzionale che minaccia di alterare gli equilibri elettorali in questa “collettività francese d’oltremare”. Il malcontento della fascia più povera della popolazione caledoniana va ricondotto però anche all’aggravarsi della situazione economica, per via soprattutto delle difficoltà in cui si dibatte l’importante industria estrattiva di questo territorio, a sua volta collegata alle mire strategiche francesi e occidentali in genere.


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