La conferma della validità dell’accusa di genocidio presentata dal Sudafrica contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) si sta avendo in questi giorni, oltre che dai massacri senza sosta nella striscia di Gaza, dalla vicenda dei finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA). Le responsabilità in questo senso non sono solo dello stato ebraico, ma anche dei paesi occidentali – Italia compresa – che hanno vergognosamente assecondato le macchinazioni del criminale di guerra Netanyahu, tagliando una parte vitale dei fondi da destinare a una popolazione letteralmente allo stremo.

Lo stesso giorno in cui i giudici della ICJ hanno deliberato preliminarmente contro Israele, il governo di Tel Aviv ha avanzato l’accusa contro 12 dipendenti della UNRWA di avere partecipato con vari compiti all’operazione “Diluvio di al-Aqsa” del 7 ottobre scorso, portata clamorosamente a termine da Hamas e Jihad Islamica. Le accuse non sono in nessun modo dimostrate e si basano esclusivamente su confessioni estorte tramite tortura. Se anche i fatti sostenuti da Israele corrispondessero alla realtà, sarebbe comunque semplicemente assurdo boicottare un’agenzia che svolge un compito cruciale per i civili palestinesi, in particolare negli ultimi tre mesi, sulla base delle azioni di una dozzina di funzionari sui 12 mila circa impiegati complessivamente a Gaza.

L’uccisione di tre soldati americani in una base al confine tra Siria e Giordania nel fine settimana ha tutte le sembianze dell’episodio di sangue che potrebbe far salire a un nuovo pericoloso livello la crisi in corso in Medio Oriente. L’amministrazione Biden ha promesso ritorsioni e indicato senza indugi che i responsabili dell’operazione vanno ricercati a Teheran. L’escalation degli attacchi contro le installazioni militari USA sono però la diretta conseguenza della guerra criminale condotta da Israele nella striscia di Gaza e, ancora prima, di una presenza americana nella regione, soprattutto in Siria e in Iraq, sempre meno sostenibile. Per entrambe le questioni, il prezzo che Washington deve pagare aumenterà inevitabilmente nel prossimo futuro, al di là della risposta che verrà eventualmente data al blitz dei giorni scorsi.

La sentenza emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia ha suscitato reazioni diverse, come prevedibile e previsto. E’ innegabile che l’impatto politico complessivo della sentenza riguardi la condotta di Israele, che infatti ha duramente criticato la decisione dei giudici dell’Aja, non meno e non diversamente da quanto fatto verso le stesse Nazioni Unite, delle quali il tribunale internazionale è importante strumento. Alcuni l’hanno definita una sentenza salomonica, ma lo si può dedurre solo da una lettura frettolosa.

Uno degli effetti della guerra di Israele contro la popolazione palestinese a Gaza è la destabilizzazione dell’equilibrio strategico, già di per sé precario, che in Medio Oriente garantisce la superiorità e l’influenza degli Stati Uniti sulle vicende della regione. Uno dei fronti su cui agisce questo processo, che sta già penalizzando Washington, è quello iracheno-siriano, dove i militari americani sono quasi quotidianamente presi di mira dai bombardamenti delle milizie sciite filo-iraniane che appoggiano la Resistenza palestinese nella striscia.

Con il sostegno incondizionato al genocidio in corso, l’amministrazione Biden sta andando incontro all’inevitabile epilogo dell’impegno militare USA in Siria e in Iraq. La presenza americana, già di per sé illegale quanto meno per il primo di questi due paesi, è infatti oggetto di discussioni interne alla Casa Bianca, come hanno confermato notizie circolate questa settimana anche sui media ufficiali.

Alla fine, anche il governatore della Florida, Ron DeSantis, riuscirà in qualche modo a incidere sulla campagna elettorale per le primarie del Partito Repubblicano. Non però con un successo in qualche stato o stravolgimenti del proprio staff, ma in conseguenza del suo ritiro dalla competizione, che avrà probabilmente un certo impatto sugli equilibri tra i candidati rimasti. L’annuncio è arrivato alla vigilia delle primarie in New Hampshire e dopo la presa d’atto inevitabile non solo dell’impossibilità di ambire alla nomination, ma anche di poter compere per la posizione di principale sfidante dell’ex presidente Trump.


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