L’ultima parte dei negoziati in programma questa settimana, con al centro il deteriorarsi delle relazioni tra la Russia e l’Occidente, si è conclusa nuovamente e come previsto in un sostanziale nulla di fatto. I rappresentanti del governo di Mosca e della NATO non hanno infatti raggiunto nessuna intesa, così come in precedenza gli emissari dell’amministrazione Biden avevano respinto le richieste del Cremlino in materia di “sicurezza”. Le parti coinvolte si sono quanto meno accordate sulla necessità di continuare a trattare, ma la rigidità delle posizioni di Washington fa apparire i colloqui più come un tentativo di mettere all’angolo la Russia e provocare una reazione che verrebbe sfruttata per rilanciare gli obiettivi strategici americani, primo fra tutti la creazione di una spaccatura definitiva tra l’Europa e il suo potente vicino orientale.

Managua. Con una cerimonia sobria, è iniziato oggi il quarto mandato presidenziale del Comandante Daniel Ortega. Alla presenza di delegazioni internazionali rappresentanti 21 paesi, e di oltre 300 rappresentanti di partiti e movimenti di europa, USA e America Latina, tra fazzoletti rosso e neri e guayaberas bianche, la banda presidenziale è stata indossata per la quarta volta consecutiva dal Comandante.

Le forze armate yemenite sotto il comando del governo guidato dal movimento sciita Ansarullah (“Houthis”), per la prima volta dall’inizio della guerra, hanno intercettato e posto sotto sequestro una nave-cargo di uno dei regimi responsabili dell’aggressione contro il paese della penisola arabica. L’imbarcazione appartiene agli Emirati Arabi Uniti ed è stata fermata al largo delle coste della provincia occidentale di Hodeidah, controllata appunto dai “ribelli” Houthis. Se questi ultimi durante il conflitto avevano già più volte distrutto con attacchi missilistici navi saudite ed emiratine nelle acque dello Yemen, il sequestro avvenuto lunedì rappresenta un nuovo e ulteriore passo avanti nella lotta contro la “coalizione” sunnita, proprio mentre la guerra sembra essere vicina a un possibile punto di svolta.

I governi di Cina e Giappone si sono accordati questa settimana per l’istituzione di una linea diretta di comunicazione che dovrebbe favorire la de-escalation delle tensioni nel caso una situazione di crisi dovesse far precipitare i rapporti tra le due potenze. Il gesto di distensione arriva in un momento segnato dal deliberato aumento delle pressioni su Pechino da parte di Tokyo, in parte come conseguenza delle richieste americane e in parte sull’onda della retorica ultra-nazionalista che ha accompagnato le recenti vicende elettorali nipponiche.

La recente cancellazione da parte del governo degli Emirati Arabi Uniti (EAU) di un contratto di acquisto per 50 aerei da guerra F-35 americani ha rappresentato un evento con pochi o nessun precedente e potrebbe avere in futuro riflessi non indifferenti sulla proiezione degli interessi strategici degli Stati Uniti a livello planetario. Ufficialmente, la questione è ancora oggetto di negoziati tra i due paesi, ma la ferma presa di posizione di un regime altrimenti prudente, come quello di Abu Dhabi, consegna l’eventuale risoluzione della disputa nelle mani della Casa Bianca. Per l’amministrazione Biden non sembrano esserci però vie d’uscita “morbide”, soprattutto perché l’oggetto della contesa sui caccia della Lockheed Martin è in fin dei conti la Cina e la penetrazione dell’influenza di Pechino nei paesi alleati di Washington.

L’affare da 23 miliardi di dollari era stato approvato l’ultimo giorno della presidenza Trump e includeva anche la vendita di 18 droni armati MQ-9B, di fabbricazione della compagnia General Atomics. Il contratto era soggetto alla revisione dell’amministrazione democratica entrante che, malgrado la retorica dei diritti umani e gli scrupoli per la guerra in corso nello Yemen, aveva deciso di ratificarlo. Gli Emirati Arabi avevano a lungo insistito con gli USA per ottenere gli F-35 e altrettanto a lungo c’erano state resistenze per svariate ragioni.


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