di Tania Careddu

Poco meno di due milioni di euro al giorno. A tanto ammonta, dal 2010 a oggi, la spesa sostenuta dall’amministrazione pubblica italiana per liti e contenziosi. A seguito di sentenze esecutive di cause amministrative o civili che l’hanno vista perdente, o per gli oneri relativi alla difesa dei suoi dipendenti coinvolti in procedimenti civili o penali, le amministrazioni, a vario titolo, hanno sborsato cinque milioni di euro in sette anni.

Lo Stato ha pagato 1533 milioni, il 31,6 per cento del totale, e le amministrazioni locali - tra regioni, province e comuni - hanno generato una spesa complessiva pari a 3354 milioni di euro. Così ripartita: più di due milioni a danno dei comuni, circa novecentosessantasette dalla regioni e duecentoquarantotto dalle province.

Il Sud è più litigioso: otto le regioni, in testa Sicilia, Puglia, Campania, Basilicata e Lazio (sebbene di recente abbia approvato la legge sulla Camera di conciliazione, strumento volto a risolvere in cento venti giorni i contenziosi con la PA per danni di importo non superiore a cinquantamila euro), che hanno sostenuto il 70,9 per cento dei pagamenti a seguito di sentenze esecutive. In coda, con la debita distanza, la Sardegna, la Calabria e la Toscana.

Più pacifiche le regioni del Nord, precisamente dodici: Piemonte in cima, seguita dal Trentino Alto Adige e dalla Lombardia. Virtuose anche la Valle d’Aosta, il Friuli Venezia Giulia, la Liguria e il Veneto. Risparmiano, pure, il Molise, l’Umbria, le Marche, l’Abruzzo e l’Emilia Romagna.

E sebbene il meridione effettui pagamenti superiori di un quintuplo rispetto al settentrione, fatto sta che l’esborso medio per ente locale è pari a quattrocentodiecimila euro, con una crescita dell’1,8 per cento rispetto al 2016, secondo quanto calcola la ricerca Liti e contenziosi, “La mappa degli esborsi della Pubblica Amministrazione italiana”, condotta da Demoskopika.

Denaro sprecato per inefficienze e scarsa professionalità. Che va in fumo per errori e trascuratezze. Da contenzioso verso il personale dipendente, verso i fornitori, per pagamenti di commissioni e interessi bancari per l’impiego di fondi, anche in temporanea assenza di copertura.

Oltre ai soldi spesi a torto, quello che grava sui conti della PA è il suo malfunzionamento. Senza nulla togliere all’ottima qualità dei servizi offerti in alcune aree del Paese da molti enti locali, dalla sanità alla scuola primaria fino all’università - che se estesi a tutte le zone dell’Italia farebbero recuperare due punti di Prodotto Interno Lordo l’anno, producendo circa trenta miliardi di euro per ciascun esercizio - le troppe inefficienze hanno un impatto negativo sull’economia del Belpaese. E costano, stando ai conti fatti dalla CGia di Mestre, sedici miliardi di euro l’anno.

Tra sprechi che derivano dalla sanità e misure di contrasto alla povertà - delle quali però usufruiscono le famiglie abbienti, gli assenteisti e i falsi invalidi - la nostra Pubblica Amministrazione spende il 68 per cento in più rispetto al prezzo di mercato per l’acquisto di una stampante, il 38 per cento in più per un fotocopiatore a noleggio, il 26 per cento in più per un computer e, nonostante la (mai verificatasi) abolizione delle auto blu e la digitalizzazione della PA, le spese per l’acquisto della carta, della benzina e delle bollette sono aumentate, in totale, di ben quattordici miliardi di euro. L’Italia delle cause perse perde anche soldi.

di Liliana Adamo

Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile, è il luogo dov’è nato Sebastião Salgado. Un tripudio di piante, fiori, fiumi, animali, che rivive in funzione mnemonica come un rifugio idealizzato, il paradiso perduto. Considerato il più grande fotografo dei nostri tempi, Salgado si è reso testimone di un aspetto profetico e “materico” del mondo.

Per lui che segue le orme del cuore e dell’azzardo mollando una carriera spianata in banca, il viaggio si compie in cento paesi diversi, osservatore di culture eterogenee, problematiche sociali e aspetti inediti; documentando esodi di massa, genocidi, catastrofi ambientali, il dramma delle comunità minacciate (in primo luogo, gli Indios in Amazzonia), così le polimorfie di grandiosi paesaggi naturali e la bellezza violata del pianeta, sembrano volerlo accompagnare nei suoi lavori più recenti.

Un viaggio forgiato da terra e luce, esito d’esperienze e conoscenze su tutto ciò che ha smosso il corso degli eventi alla fine del Novecento. Salgado si reca in Ruanda e riprende gli orrori del genocidio, in Kuwait, le esplosioni dei pozzi petroliferi, con Genesis, l’ultima, monumentale raccolta di fotografie, rende omaggio alla Terra e alle sue creature, un segno di riconciliazione, testamento d’amore e arte.

Durante il reportage sulla guerra civile in Ruanda, l’incontro con la morte nella prassi più disperata e brutale, Salgado contrae una malattia cui non si conosce la diagnosi. Lasciata l’Africa orientale per raggiungere Parigi alla ricerca di una cura, egli trova la risposta: ha guardato la morte troppo a lungo e la morte gli è entrata dentro, bisogna smettere o altrimenti lui stesso cederà.

Alla soglia dei settant’anni inizia un periodo di cambiamenti e riflessioni. Turbato dall’insensatezza d’alcune esperienze, dalla fotografia e dal mondo intero, Sebastião Salgado si rifugia ad Aimorés, nel suo Brasile, un ritorno alle origini; ma dell’imponente foresta pluviale che si estendeva per metà di un territorio vastissimo, rimane un pietoso 0,5%.

Ancora una volta, l’artista percepisce quel senso di perdita che l’aveva accompagnato durante gli eccidi in Ruanda e nel percorso della sua malattia; riconosce la morte anche qui, nel luogo a lui più intimo: una terra stremata, dove l’utilizzo indiscriminato di materie prime (ferro, manganite e oro), favorisce un’economia distorta a beneficio di multinazionali e classi abbienti, mentre amplifica l’indigenza dei nativi, cancellando il lavoro rurale.

Sebastião Salgado si avvale nuovamente della macchina fotografica. La sua denuncia è potentissima, ripercorre i luoghi che conosceva da ragazzo, espone il suo “paradiso” deforestato: ciò che rimane di una distesa fiorente a perdita d’occhio si riduce a un suolo sterile, renoso, privo di piante e animali. Grazie alla sua fama internazionale esercita pressioni e va oltre; insieme alla moglie, Lélia Deluiz Wanick, elabora un ambizioso progetto di recupero, piantare un albero, poi un altro e un altro ancora… una foresta infine, l’originaria giungla pluviale subtropicale, pressoché distrutta.

Converte in “quartier generale”, il ranch che il padre aveva gestito in passato, crea una comunità a sviluppo ambientale il cui impegno è sensibilizzare, educare, promuovere la ricerca scientifica. Nasce così l’Instituto Terra, che avvia il più grande piano di riforestazione su scala globale; un programma no-profit, continuo e sistematico, per ridare linfa vitale a zone complesse, puntando sul ripristino della biodiversità locale.

Il lavoro si concentra soprattutto a Serra da Mantiqueira (1220 metri d’altitudine), sul delta del Rio Doce (letteralmente "fiume Dolce"), area ricca d’affluenti, eclettici ecosistemi, varietà di microclima, sede della più grande miniera a cielo aperto del mondo, oggetto di un disastro ambientale di vaste proporzioni con milioni di metri cubi di fanghi tossici e acque acide riversate nel maggiore dei suoi emissari, il Rio Carmo. Un intervento non facile, ma grazie al quale l’acqua continua a scorrere dalle sorgenti naturali, reintegrando gli ambiti necessari affinché specie animali a rischio d’estinzione, possano essere salvate.

“Pensiamo all’elemento acqua per ogni attività della nostra vita... ”. Sostiene Salgado: “…Ma l’acqua non si ottiene se non ci sono alberi. Quando c’è pioggia in un luogo senza alberi, in pochi minuti, l’acqua arriva nei torrenti, portando terriccio, distruggendo le nostre sorgenti, danneggiando i fiumi e non c’è umidità da trattenere. Quando ci sono alberi, il sistema di radici trattiene l’acqua. Tutti i rami degli alberi, le foglie che cadono, creano un’area umida, l’acqua si trattiene per molti mesi nel sottosuolo per arrivare ai fiumi e mantenere le nostre sorgenti…”.

Bulcão Farm, ex fattoria paterna, sede operativa del progetto Instituto Terra, coordina 1.754 acri, 1.502 dichiarati Patrimonio Privato Riserva Naturale (PNHR). Nel 2004, la buona pratica fa sì che la confederazione di Minas Gerais dia impulso alla Categoria della Riserva Privata per il Restauro Ambientale (PRER), sollecitando ogni iniziativa privata a muoversi (coraggiosamente) in tal senso. Il primo impianto ha avuto luogo nel dicembre 1999; in un work in progress estenuante, l'Instituto Terra è in fase di completamento nel recupero di tutti i lotti distrutti. Per il Brasile moderno, è un risultato senza precedenti.

La prospettiva di rivalorizzazione ambientale, come pure di un patrimonio storico inestimabile, ottiene tale prestigio e attendibilità da trascinare numerosi sostenitori e un’ingente raccolta di fondi. Il beneficio a lungo termine si estende alle popolazioni autoctone: indicativo è il caso dei Quilombola, discendenti degli indigeni fuggiti dalla schiavitù, che rischiavano di scomparire per sempre, insieme alla cultura e all'identità originarie del Brasile.

Fra acqua e terra, la Foresta Atlantica è depositaria di un ecosistema fra i più straordinari per l’intero continente americano. Con una superficie di 400.000 miglia quadrate (lungo l’asse del Rio Grande, da nord a sud), un tempo si spingeva fino all'estrema Argentina e il Paraguay. Ciò che rimane del “polmone terrestre”, è un deposito di biomasse ancora ricchissimo di biodiversità che, per quanto minacciato, rimane punto fondamentale per ripristinare in origine, l'equilibrio perduto.

In pratica, un record di varietà botaniche: 454 specie in una singola area (appena 2,5 acri) a sud di Bahia, 476 nel dipartimento chiamato Espirito Santo, zona montuosa, di modeste dimensioni. La devastazione di queste regioni spiega il cambiamento climatico avvenuto drasticamente, conseguenti inondazioni e altre calamità, normalmente attribuite a fattori “naturali”.

Obiettivo è reintegrare gli habitat derivanti su trentasette milioni di acri; dal primo albero, che rievoca quel dicembre 1999, fino al 2050, a lavoro concluso. A oggi, 17.000 acri di terreno sono stati riportati a nuova vita, un milione di piantine curate nelle serre, aspetta d’essere collocato nel suo humus primario, come la Mata Atlantica, tipica flora pluviale subtropicale.

Molte aree circostanti cominciano a seguire il sogno di Salgado, lo sforzo diventa collettivo per restituire dignità e speranza: una Biosphere Reserve, eredità di un uomo e dei suoi conflitti interiori a una pluralità d’individui e al futuro dell’intero pianeta.



di Tania Careddu

Per la prima volta nella storia, le donne hanno conquistato il 30 per cento degli incarichi nei consigli di amministrazione delle società quotate nella borsa italiana. Una percentuale degna di nota, questa raggiunta nel 2016, soprattutto se paragonata ai desolanti trascorsi – nel 2008, le poltrone occupate da donne erano, in tutto, centosettanta pari al 5,9 per cento - e ottenuta solo dopo l’obbligo, introdotto dalla legge 120 del 2011, di aumentare progressivamente le nomine femminili negli organi di amministrazione e controllo delle aziende quotate.

Le quali, a un anno dalla promulgazione della legge, sono state vincolate a prevedere, nei propri statuti, disposizioni per garantire l’equilibrio di genere. Che, al momento, sembrerebbe reggersi: ai rinnovi degli organi sociali già avvenuti, infatti, si è superata la soglia minima di amministratrici richieste dalla Golfo-Mosca.

Otto anni dopo la sua applicazione, le donne sono arrivate a occupare seicentottantasette poltrone e nel 68,55 dei casi si tratta di amministratrici indipendenti, non legate ai dirigenti esecutivi o agli azionisti, chiamate a vigilare nel solo interesse delle società.

Ma in questo scenario, che progressivamente assume tonalità rosee, spiace notare che sono solo giusto una manciata le amministratrici delegate: diciassette in totale, appena il 2,5 pe cento delle figure femminili e, per giunta, sono alla guida di aziende a bassa capitalizzazione che, in tutto, raccolgono l’1,7 per cento del valore di mercato.

Aumentano i numeri, quindi m qualitativamente la parità di genere è ancora piuttosto lontana: i ruoli di comando a loro riservati sono poco concreti, meno prestigiosi e non esecutivi tanto che man mano che si sale al vertice diminuiscono contando soltanto il 3 per cento fra i presidenti e il 2,47 fra gli amministratori delegati, secondo quanto riporta il minidossier Trova l’intrusa, redatto da Openpolis.

E sono protagoniste di un fenomeno specificamente femminile, cioè tra i titolari di più incarichi contemporaneamente, le donne – duecentosei nel 2016 a fronte di settantasei tre anni prima – hanno, in media, quasi un incarico e mezzo rispetto a poco più di uno per gli uomini, come a dire che crescono gli incarichi ma non altrettanto i nomi.

E, comunque, loro sono mediamente più giovani – cinquantuno anni circa versus i cinquantanove dei maschi -, più istruite e con meno legami di parentela nelle società in cui ricoprono il ruolo, in cui il merito la fa da padrone tanto che le titolari di specializzazioni post laurea sono quasi il doppio degli amministratori (uomini) così come relativamente all’incidenza della provenienza dal mondo accademico che è doppia per le donne rispetto agli uomini – il 12,2 per cento delle amministratici contro il 6,4 per cento degli amministratori.

A ben guardare, seppure con maggiore lentezza, anche nei board europei la tendenza è la stessa registrata in quelli italiani: negli ultimi anni, gli incarichi femminili negli organi sociali delle aziende quotate in borsa sono passati dal 13,9 per cento del 2011 al 25 per cento del 2015. Anche qui, si tratta, per lo più, di figure di garanzia e controllo rispetto a quelle di carattere esecutivo che, nell’ultimo anno considerato, sono l’esigua minoranza del 6,7 per cento. Ad maiora.

di Tania Careddu

Crimini di guerra, accordi che pregiudicano il diritto a chiedere asilo, leggi che vietano la libertà di espressione, torture, sorveglianza di massa e massicci poteri alla polizia. Si riassumono così le politiche che hanno dominato, nel 2016, l’agenda dei governi dall’Europa agli Stati Uniti. Nessuno escluso. Farcite di retoriche velenose, di discorsi coniugati all’odio, all’insulto e alla violenza, basati sulla demonizzazione di interi gruppi di esseri umani.

Una su tutte, la campagne elettorale di Donald Trump, inneggiante alla xenofobia, alla misoginia e all’omofobia, seguita da quella di Marine Le Pen in Francia e da quella di Teresa May nel Regno Unito. Jorg Haider in Austria, Viktor Orban in Ungheria, Beata Szydlo in Polonia si muovono verso la disumanizzazione del diverso. Sulla divisione etnica e il rigetto del diritto internazionale sono basate le scelte nazionaliste dei nuovi regimi autoritari: dalla Turchia di Recip Tayyp Erdogan alle Filippine di Rodrigo Duterte.

Su centocinquantanove paesi, analizzati nel Rapporto 2016-2017 di Amnesty International, si sono perpetrati ventitré crimini di guerra e trentasei nazioni hanno respinto illegalmente migranti e rifugiati. In Arabia Saudita e in Bangladesh, giornalisti e attivisti per i diritti delle minoranze sono stati condannati con accuse vaghe; in Cina prosegue la repressione di avvocati e le intimidazioni contro i familiari; in Egitto imperversano i divieti di viaggio, le restrizioni finanziarie e il congelamento dei conti bancari; in Etiopia vige lo stato di emergenza; in Iran, i tribunali rivoluzionari hanno giudicato voci critiche pacifiche; in Myanmar, procedono le operazioni di sgombero delle minoranze etniche; in Russia il governo ha stretto la morsa intorno alle organizzazioni non governative; in Siria continua l’impunità per i crimini di guerra.

In Italia, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, la retorica divisiva la fa da padrona sdoganando la licenza (per nulla poetica) di atteggiamenti e comportamenti inaccettabili. Soprattutto quando l’aggravante dei motivi razziali, prevista dalla legge Mancino, non trova (quasi mai) applicazione. Oltre a comportamenti anti-migranti, serpeggiano atteggiamenti derivanti dalla mancata accettazione della diversità di orientamento sessuale e spuntano, a livello locale, sportelli ‘anti-gender’, allo scopo di fornire informazioni legittimanti la discriminazione e il clima di intolleranza di genere.

La lista è lunga e rientra in quel nuovo sistema mondiale in cui i diritti umani sono da ostacolo agli interessi nazionali, economici e di sicurezza, che demonizza l’altro da sé e manipola politiche identitarie allo scopo di ottenere consenso. Spacciando la pericolosa idea che alcune persone siano meno umane di altre.

di Liliana Adamo

Non è stato un giorno come tanti, quel 31 gennaio 2017. Di primo mattino, il giovane fotografo naturalista, documentarista e conservazionista, Rob Stewart e Brock Cahill, suo stretto collaboratore, presero a nolo una barca dalla società Horizon Divers, a Key Largo, in Florida.
L’idea era ancorare nei pressi di un relitto antistante Nassau con un obiettivo ben preciso, messo a punto nei particolari, rischi compresi.

Con loro c'erano il proprietario del noleggio barche, Dan Dawson e un istruttore subacqueo di Ft. Lauderdale, Peter Sotis, con cui Rob e Brock avevano appena ultimato un corso di tri-mix rebreather, un tipo d’immersione “di verifica”, fra le più ardue da eseguire con un non generico scopo d’essere utilizzata, come ravviseremo poi.

Sebbene complicato, immergersi attraverso la nuova procedura è un test che, in teoria, Rob Stewart avrebbe affrontato in sicurezza: il trentasettenne pluripremiato wildlife photographer, regista, strenuo difensore degli squali, ambientalista ed educatore, nato e cresciuto a Toronto, in Canada, ha iniziato a fotografare sott’acqua dall’età di tredici anni. A diciotto, è già un istruttore subacqueo d’altissimo livello e, fra Ontario, Kenya, Giamaica, non tralascia una laurea in Scienze Biologiche; insomma, un attivista a tutto tondo, esperto e attento, dal carattere generoso, immaginifico, innovatore, destinato a incarnare una leggenda vivente sulla variegata scena dell’ambientalismo mediatico.

Aveva detto: “Reputo la probabilità di morire per l’attacco di uno squalo pari allo zero per cento, l’ultima delle mie paure”. Come dargli torto?

Prima d’intraprendere le sue campagne a difesa degli squali e precedente alla realizzazione di Sharkwater del 2007, film documentario che l’ha reso celebre, Rob Stewart trascorre quattro anni nelle zone più remote del mondo, con l’incarico di capo fotografo per le riviste del Wildlife Federation canadese. Nel modo in cui spesso accade, c’è in agguato qualcosa di predestinato, un incontro che cambierà la sua rotta e la sua visione: con l’incombenza di fotografare gli squali delle Galapagos, il giovane fotografo si aggrega a Sea Sphepherd e al capitano Paul Watson, mentore e ideatore della più agguerrita compagine internazionale a difesa degli Oceani.

Fra le isole ecuadoriane, a bordo dell’Ocean Warrior, Stewart scopre un’area di palangari all’interno di una riserva marina protetta, interdetta alla pesca e molti squali uccisi, le cui pinne saranno dirottate (illecitamente) sui mercati orientali. Prova a sensibilizzare sullo scempio dello shark finning attraverso i supporti mediatici ma non conseguendo alcun feedback in termini di “popolarità”, lascia la carriera fotografica e, appena ventiduenne, s’imbarca in un viaggio singolare, durato quattro anni.

Il tempo necessario per filmare un documentario epico come Sharkwater, testimonianza di “prima mano” e grande impatto visivo, che mostra le contraddizioni e la bellezza di questi animali, l’orrore che si prova dinanzi a un corpo cui sono state tranciate le pinne, abbandonato sul fondo del mare ancora vivo, un corpo trascinato dalla corrente e senza speranza. Per un lungo attimo lo spettatore guarda in quegli occhi e intuisce il dolore di una meravigliosa specie che lentamente si avvicina all’estinzione.

Per la conoscenza diretta di questi predatori fragili, vessati da una reputazione costellata d’incapacità e ignoranza, le prime fasi del film sono destinate a entrare nella storia. Rob Stewart è inginocchiato sul fondale sabbioso, accarezza gli squali che gli turbinano attorno, che si avvicinano curiosi, con tocco leggero: “Fin da ragazzino ti dicono che sono pericolosi. Ti avvertono di non avventurarti troppo lontano in mare… ma poi, finalmente, ti accorgi che tutto ciò che ti è stato insegnato nella vita è la paura. E qui è perfetto, nessuno vuole farti del male ed è la cosa più bella che abbia mai visto…”.

Lo stesso Paul Watson rimarca il genio di questo giovane, versatile “guerriero” attraverso le sue ultime dichiarazioni: “Sharkwater è stato proiettato in decine di festival in giro per il mondo cambiando il punto di vista per milioni di persone; ha rimosso profondamente la percezione riguardo a questi animali. Rob era un esperto biologo marino e possedeva le quattro virtù più importanti, passione, empatia, coraggio e immaginazione".

E ancora:"Ha avuto il coraggio di seguire la sua passione con profonda empatia e ha avuto l’immaginazione di trasformare il centro del suo lavoro usando una macchina fotografica…Quello iniziato nel 2002 è stato un viaggio per cambiare il mondo. E ci è riuscito. È riuscito a ripulire il giudizio sugli squali, da animali assetati di sangue ad aggraziati e meritevoli di rispetto ed empatia".

Per Watson "Rob era un uomo appassionato di squali. Li considerava animali senzienti, la cui esistenza contribuisce a un delicato equilibrio dell’ecosistema marino… era anche un eccezionale educatore, in grado d’adottare uno spirito di vita come Jacques Costeau, portare in superficie l’ignoto regno marino e confrontarsi con la sua vera natura. Le sue azioni sono state eroiche, per aver prodotto un documentario in grado di mostrare la realtà e difeso animali la cui considerazione è stata negativa per decenni”.

Al largo di Nassau, dall’imbarcazione di Dan Dawson, Rob Stewart compie tre immersioni insieme al suo cameraman, Brock Cahill e l’istruttore, Peter Sotis. Tre immersioni molto profonde col sistema del tri-mix rebreather. Perché? Il 19 dicembre lui stesso ha inserito un post sul timeline di Facebook: “A gennaio in Florida, mi aspetta un tuffo infinito per rivelare (e filmare), una creatura misteriosa e sfuggente, una specie di cartone animato incredibilmente grazioso”. E’ il sawfish, corporatura di squalo, bocca che si avvicina al profilo di una motosega, molto timido, facilmente spaventato dai flussi del respiratore (bolle), prodotti da una normale immersione “superficiale”.  Il degrado degli habitat minaccia d’estinzione anche questa strana ed eterea creatura che, in rari esemplari, si aggira sul fondo degli oceani.

L’operazione è parte di un progetto scientifico e un nuovo cortometraggio sequel del precedente, Sharkwater Extinction, che esamina questi aspetti: il rebreather, un sistema a circuito chiuso che ricicla anidride carbonica esalando aria respirabile, permette d’avvicinare il sawfish, la creatura nascosta e filmarlo, permette una presenza furtiva, un nuoto in silenzio, privo di bolle, a oltre cento metri in profondità.

I subacquei si muovono alla ricerca del pesce sega per ben tre volte nell’arco di una giornata. Sono le immersioni più profonde mai tentate finora. Al terzo tentativo risalgono in superficie, verso la barca che li attende. Rob Stewart dà il segno di “tutto ok”, va bene. Eppure qualcosa non va: Sotis e il cameramen, Brock Cahill, riescono a risalire in evidente stato confusionale, barcollanti, vittime di un palese stato di decompressione, Cahill ha la telecamera oscurata; a questo punto l’equipaggio comincia a eseguire la prassi prevista per la rianimazione attraverso l’uso di ossigeno.

C’è panico e confusione a bordo, per momento, tutti voltano le spalle all’acqua. Quando si cerca il terzo superstite della tri-mix rebreather, Rob, è già scomparso. Cinque minuti dopo, con un elicottero HH65 decollato da Miami e il personale della Guardia Costiera, cominciano le ricerche in mare e sott’acqua.

Nelle 72 ore che verranno, la sparizione in Florida per l’acclamato direttore di Sharkwater è fra le news che fanno il giro del mondo. Sono ore d’attesa, dove preoccupazione e speranza si accomunano. L’intero equipaggio di Dan Dawson, il noleggiatore dell’Horizon Divers, è tratto in arresto con l’accusa di “tentato omicidio”.

In 72 ore il destino ha già deciso la sorte per il trentasettenne canadese; 72 ore in cui gli equipaggi hanno perlustrato l’oceano, l’oceano che lui ha amato più di se stesso, offrendogli il suo talento e una straordinaria forza di carattere; 72 ore che culminano il mattino del venerdì 3 febbraio, una giornata plumbea e pesante: sospese le ricerche, si recupera in mare il corpo senza vita di Rob Stewart.


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