di Tania Careddu

Nel voto conquistato da Marine Le Pen emerge come oltre alla mancata realizzzione dell'Unione Europea, molti francesi sembrano imputare all'immigrazione la crisi economica e sociale che ha investito la Francia. Malgrado l’immigrazione non sia un fenomeno nuovo in Francia e la sua storia migratoria (e non solo) lo confermi, la politicizzazione della questione è relativamente recente.

Più precisamente nasce negli anni ottanta, quando la ricerca di un’identità nazionale - concetto del tutto assente fino ad allora nella politica francese - si è materializzata nell’opinione pubblica, definendo l’immigrazione come una minaccia di fronte alla crisi petrolifera che avrebbe portato la Francia sull’orlo del declino. Successivamente, negli anni novanta, ha raggiunto le forze politiche con la stessa veste di cui si agghinda oggi: la crisi dell’integrazione, pur avendo, la Francia, un trend migratorio sostanzialmente stabile negli ultimi trent’anni.

Parte della pressione sentita dalla società francese, dunque, non è dovuta ai flussi migratori, considerato che i dati relativi, riportati nel “Paper Immigrazione, Europa ed elezioni francesi” redatto dall’Ismu, non sono del tutto sufficienti a delineare un quadro del contesto migratorio come da loro percepito. Gli immigrati incidono in maniera esigua all’aumento della popolazione francese, per il 20 per cento contro l’86 per cento in Spagna.

E però, in un quadro europeo dove la Brexit ha definito l’immigrazione come un problema da risolvere, le elezioni in Austria hanno decretato vincitore il FPO, e quelle in Olanda hanno applaudito al discorso anti-immigrazione di Wilders, la Francia perde la memoria e risponde con i punteggi molto alti a favore di Marine Le Pen. Che, sul tema, fa sapere che occorre rendere impossibile la regolarizzazione degli immigrati regolari; porre un limite - diecimila - al numero di migranti accettati ogni anno; semplificare le procedure di espulsione; ostacolare il ricongiungimento familiare e l’acquisizione della nazionalità francese attraverso il matrimonio; abolire lo ius soli e la doppia nazionalità.

Ma “dare indietro la Francia ai francesi”, come vorrebbe il Front National, è una contraddizione in termini, perché molti sono i cittadini francesi con un background migratorio e perché equivale ad annullare la storia migratoria della Francia che, come scrive la sociologa Dominique Schnapper, “è un paese di immigrazione che ignora di esserlo”.

La Francia ha come pietra miliare nell’ordinamento legale, il concetto di laicitè nell’accezione liberale, così come propone Emmanuel Macron quando si riferisce all’integrazione: le richieste di asilo verranno valutate entro sei mesi; i rifugiati saranno protetti e i migranti economici ricondotti nei loro paesi d’origine per prevenire l’immigrazione irregolare; la padronanza della lingua francese sarà un prerequisito per ottenere la cittadinanza mentre i programmi scolastici e universitari includeranno moduli sulle differenti religioni e sui valori repubblicani. Sono anche queste due visioni alternative che si conteranno nelle urne in occasione del ballottaggio.

di Tania Careddu

Negato, alterato nelle sue fisiologiche funzioni chimico-fisiche e biologiche, il suolo italiano è pressoché consumato. Da un’urbanizzazione selvaggia, con usi e coperture del territorio, principalmente insediativi e infrastrutturali, che arrivano a configurare un’irreversibile ‘sigillatura’ della crosta terrestre. Fino al 2015, stando ai dati riportati nel dossier “Suolo minacciato, ancora cemento oltre la crisi”, redatto da Legambiente, l’urbanizzazione del territorio del Belpaese ha compromesso circa più di due milioni di ettari, il 7 per cento del suolo nazionale - soprattutto nel quadrante nord-ovest, Lombardia in testa per la caratteristica pianeggiante della sua area - e, principalmente, per dotare le costruzioni private di spazi e pavimentazioni (le cosiddette infrastrutture di mobilità).

Dal dopoguerra a oggi, l’urbanizzazione espansiva come risposta all’uscita dalla crisi, affastellando investimenti infrastrutturali di dubbia utilità, sostenuti oltretutto dalla mancanza di regole nazionali e comunitarie, ha generato uno spreco esagerato del territorio nelle regioni italiane.

Lungi dal fare letteratura, però, negli ultimi due anni, si nota un rallentamento della pressione della trasformazione immobiliare: la crisi del settore delle costruzioni, sentendo il peso della zavorra di tanti edifici in cerca di compratori, ha (forse) innescato nuovi e più salubri meccanismi, riconducibili a meno concessioni edilizie e a uno stand by di piani attuativi. E c’è chi, da oltre un decennio, dice no al cemento selvaggio e al movimento indisciplinato delle ruspe.

Una su tutte, esempio isolato, la Sardegna che, consapevole dell’enorme potenziale economico dei suoi paesaggi, ha scelto di fermarne la dissipazione. Per la prima volta nello scenario delle regioni della Penisola, nel 2016, ha approvato un Piano Paesaggistico Regionale (PPR) finalizzato al recupero e alla riqualificazione integrale del territorio secondo un modello di sviluppo sostenibile, basato sulla programmazione di obiettivi di qualità paesaggistica, che tenga insieme gli insediamenti urbani, agricoli, produttivi e turistici.

Con la finalità strategica, i cui risultati saranno visibili a lungo termine versus il mordi e fuggi dell’uso speculativo dagli effetti immediati, di rafforzare l’identità culturale del paesaggio storico sardo, recuperandone il patrimonio (anche) architettonico e proporzionando le crescite residenziali ai reali fabbisogni.

Nell’immediato, ciò ha permesso l’annullamento di una lunga sequenza di maxi progetti immobiliari: dai trecentomila metri cubi di Cagliari Tuvixeddu ai due milioni e mezzo di metri cubi del Master Plan Costa Smeralda, dai cinquecentomila metri cubi di Arzachena per gli investimenti dell’emiro del Qatar ai duecentoventimila di lottizzazione annessa a un campo da golf a Is Arenas.

Con buona pace di chi sostiene che la protezione del territorio, coste comprese, sia un limite allo sviluppo sociale ed economico, l’identità culturale sarda, tutelandone il paesaggio, attraverso il PPR, è ripensata continuamente nel confronto con la contemporaneità capace di coniugare la conservazione con l’innovazione e la tutela con la ricostruzione. All’orizzonte, un nuovo panorama.

di Tania Careddu

“Nel centro storico, e non solo, si respira un’aria di precarietà, ma anche la forza di andare avanti (…) Ogni mattina non sappiamo se troveremo parcheggio o se troveremo aperta la strada che facciamo abitualmente per raggiungere la nostra attività. Senza illuminazione e con la torcia, se rientri tardi la sera o esci presto la mattina. Ma ci siamo. Col silenzio assordante che dalle diciassette in poi ci avvolge”. Quella di Peppe, titolare di un’attività commerciale nel centro storico, è solo una delle tante storie di vita quotidiana che, girando per L’Aquila, non è raro sentire dopo il 6 aprile del 2009.

Giorno in cui il terremoto (di magnitudo 6.3) ha deturpato la ‘Regina degli Appennini’: il centro cittadino è pressoché abbandonato e la maggior parte delle attività commerciali che hanno trovato la forza economica di ripartire, si è spostata in impersonali centri commerciali fuori città.

Dove, in seguito alla costruzione degli alloggi post sisma - cent’ottantacinque edifici ubicati in diciannove nuovi insediamenti, il noto progetto Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili (C.A.S.E.) - i quartieri sono diventati dormitori in attesa, per le persone che vi risiedono, di tornare a casa.

Ma la ricostruzione sembra lontana da essere compiuta: nel 2016, infatti, stando a quanto riporta il dossier “Visita guidata a L’Aquila”, redatto da Legambiente, a fronte di centoventi contributi emessi, i cantieri realmente partiti sono una decina; per quella relativa agli edifici privati sono stati chiesti dieci miliardi e mezzo di euro e ne sono stati erogati poco meno di quattro e mezzo; per il centro storico è partita effettivamente solo nel 2014 con tutte le difficoltà vincolistiche, che interessano mille e novecento edifici, e logistico-operative e per la ricostruzione pubblica il capitolo è ancora tutto da scrivere.

In fase di attuazione, sul punto, c’è, dal 2015, il cantiere dei sottoservizi, il più grande appalto pubblico post sisma, con un finanziamento pari a ottanta milioni di euro. Progetto: un tunnel sotterraneo, ispezionabile a piedi, che percorre le vie principali della città, all’interno del quale passeranno la rete fognaria e quella elettrica, prevedendo la cantierizzazione di otto aree urbane. Per quanto attiene alla ricostruzione delle scuole, ancora nulla: non c’è un edificio costruito, non è stata indetta nemmeno una gara d’appalto e, stando agli ultimi dati disponibili, le scuole sono ancora ospitate nei venticinque Moduli a uso scolastico Provvisorio.

I tempi lunghi della ricostruzione e la mancanza di una vera programmazione hanno, inoltre, generato cinquemila nuovi poveri, creando un disagio sociale fortissimo caratterizzato da disoccupazione e spopolamento. Visibile anche nell’università che ha registrato un calo del 72 per cento delle immatricolazioni, nonostante la mancata introduzione del numero chiuso in alcuni corsi di laurea, previsto invece negli altri atenei italiani, e frutto dell’inagibilità di alcune sedi e della carenza di tanti servizi, che a otto anni dal sisma, rimangono tali.

Così come quelli relativi al trasporto pubblico, in particolare nelle ore serali e notturne o nei giorni festivi, nelle New Town, difficili da raccordare tra loro, rendendo ostici i legami personali e di comunità, essendo assenti, oltretutto, i luoghi di ritrovo in prossimità degli insediamenti.

Terra di nessuno, alla mercé di chiunque voglia entrare, considerata la mancanza di recinzioni. Porte aperte, oltre che a imprese attigue alla criminalità organizzata, ghiotte dell’occasione, a frodi e truffe rinvenibili nei difetti di progettazione e di costruzione, nella scelta dei materiali e nella messa in posa; fatture false, firme fotocopiate, forniture non pagate per il dichiarato fallimento delle ditte.

Il cantiere più grande d’Europa è in frammenti, con strade chiuse, edifici transennati e pericolanti, impalcature fra arbusti ed erbacce, panorami stravolti in cui spuntano baracche, case e ville come risposta all’emergenza, abusive, non segnalate o, addirittura, sorte in zone a rischio idrogeologico. Dimenticando, forse, che la ricostruzione materiale è legata a doppio filo a quella sociale.

di Tania Careddu

Tremila e settecentotre pratiche legali, in tutta Italia, a difesa degli ultimi. Di coloro che vivono in strada, per il 52 per cento di origine extra Ue, aumentati rispetto a tre anni fa, e mille e centoundici italiani che si sono rivolti ad Avvocati di Strada, un’associazione senza fini di lucro che dal 2007 ne segue le pratiche legali. Nel 2016, mille e trecentosettantasette sono state di diritto civile, mille e cinquantadue di diritto amministrativo, raddoppiate, trecentosessantotto di diritto penale e novecentosei di diritto dei migranti.

Per rivendicare il diritto alla residenza, per risolvere sfratti e locazioni, per il diritto del lavoro, per questioni di pensioni e invalidità o per debiti nei confronti dei privati. Ma la misura delle condizioni in cui versano i senza fissa dimora è indicata dalle pratiche relative ai diritti di mantenimento, alimenti e assegni divorzili, per successioni e problematiche ereditarie, per potestà genitoriale o ricerca dei parenti in vita.

Casi che confermano quanto, troppo spesso, il fallimento di un matrimonio possa portare, soprattutto in assenza di un’adeguata rete familiare o di interventi mirati del welfare, a situazioni di estrema povertà e disperazione. Persone completamente annullate dalle loro famiglie, alle quali è stato negato il diritto a un’ereditarietà che, nella maggior parte dei casi, li avrebbe aiutati a uscire dalla strada, luogo in cui, dopo tanti anni, perdono totalmente il rapporto con i propri affetti.

Tra le pratiche di diritto amministrativo, invece, ce n’è una che sovrasta tutte e che fa il paio con quella riguardante le cartelle esattoriali: quella relativa alle sanzioni per mancanza di titolo di viaggio sui mezzi pubblici, che sono passate dalle trecentocinque del 2005 alle ottocentosettantaquattro di quest’anno: multe non pagate che si accumulano negli anni fino a costituire debiti di migliaia di euro, inaffrontabile per chi vive in strada e ostacolo insormontabile per chiunque di loro voglia ricominciare una vita comune.

Continua a essere alto il numero dei fogli di via che vengono notificati alle persone senza casa affinché si allontanino dalla città dove vivono: una misura ingiustamente punitiva alla quale, per il costo eccessivamente elevato, non riescono ad opporvisi.

Dalle pratiche di diritto penale emerge una vera e propria discriminazione per l’ovvia impossibilità di richiedere pene alternative alla detenzione a causa dell’inidoneità del domicilio, con il risultato di dover scontare in carcere pene per le quali la legge prevedrebbe l’opportunità (per gli altri) di una misura meno afflittiva. Si devono difendere, poi, da un errato luogo comune secondo il quale le persone senza fissa dimora sono pericolose e dedite alla delinquenza.

Senza riscontri nella realtà nella quale, invece, risulta vero il contrario: chi vive per la strada non è tanto autore quanto vittima di atti di aggressione, minacce e molestie. Tanto che nel 2016 si sono verificati quarantanove episodi, da leggersi per difetto: certamente più di qualcuno non avrà avuto la capacità di denunciare.

di Tania Careddu

Definirne il numero è assai complicato, così come rintracciare i dati sulla composizione etnica: potrebbero essere tra i centoventi e i centottanta mila i Rom in Italia, ma certamente sono ventotto mila quelli che vivono in emergenza abitativa. Di questi diciotto mila nelle baraccopoli formali, diecimila (per il 90 per cento di cittadinanza rumena) negli insediamenti informali e circa mille e trecento, in prevalenza sinti, abitano in una cinquantina di microaree, collocate soprattutto nell’Italia centro-settentrionale.

Ma non è necessario avere contezza esatta delle persone Rom per stabilire che l’espressione architettonica delle baraccopoli - circa centoquarantanove sparse in ottantotto comuni italiani - informali o formali che siano, sia rappresentativa della discriminazione più estrema ai loro danni. E, nonostante la segregazione abitativa sia solo una delle tante facce di quella discriminazione e della violenza dei diritti umani, le evidenti ricadute della marginalizzazione spaziale e sociale e delle condizioni al di sotto degli standard sul godimento di tanti altri diritti fondamentali – all’istruzione, all’impiego e alla salute - la rendono la forma prioritaria di antiziganismo.

Soprattutto perché ha caratteristiche di criticità pervasiva e sistematica che non si limita a interessare solo i grandi centri metropolitani ma tocca un numero non trascurabile di piccoli comuni e perché fa i conti con una pratica fortemente lesiva, quella degli sgomberi - per di più forzati - e con un’esclusione della popolazione in questione dall’edilizia popolare.

Ed è la concretizzazione di un’immagine del contesto italiano sul tema, permeato di pregiudizi e stereotipi penalizzanti diffusi e radicati, frutto di una scarsissima conoscenza delle comunità rom e sinte, che ha facilitato la reiterazione di preconcetti attraverso, anche, un linguaggio mediatico impreciso quando non palesemente dispregiativo. Da qui viene un ripetuto etichettamento, pure istituzionale, come comunità dedite al nomadismo, intriso di un lima di generale ostilità, fomentato altresì dalla retorica dell’odio promossa da esponenti di alcune fazioni politiche che ha attecchito  in termini di consenso elettorale.

Atteggiamenti profondamente dannosi nell’alimentare il circolo di esclusione e povertà in cui sono compressi, traducendosi, oltre che in visibili barriere all’accesso ai diritti primari, anche in un humus fertile per ulteriori derive violente e crimini d’odio e in un ostacolo all’attuazione di (poche) politiche volte all’inclusione.

Tuttavia, sebbene a denti stretti, nel 2016, stando ai dati raccolti dall’Associazione 21 luglio che ha redatto il Rapporto annuale 2016, si nota l’avvio di un apprezzabile cambio di tendenza: con un calo del 34 per cento, passando da duecentosessantacinque a centosettantacinque, di cui cinquantasette di grave entità, gli episodi d’odio, mediamente uno ogni due giorni, nei loro confronti sono diminuiti.

Sprizzano odio soprattutto il Lazio, il Veneto, l’Emilia Romagna e la Campania, che invece ha visto incrementare il numero di casi, mentre la più tollerante risulta la Lombardia. Viene da pensare, malauguratamente, che la diminuzione della violenza sia da ricercarsi nello spostamento della (tensione) attenzione verso i flussi di migranti e di richiedenti asilo e in un’acquisita generalizzata capacità di reazione agli insulti da parte delle comunità bersaglio. Augurandosi che non torni in vigore la legge del taglione.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy