di Tania Careddu

E’ bastata una grandinata, seppure dai chicchi di enormi dimensioni, a far crollare l’interno di una scuola elementare di Lazzeretto, frazione di Cerreto Guidi, vicino a Empoli. Danni: cinque feriti, tutti adulti. E’ solo l’ultimo, in ordine cronologico, dei trentasette episodi del tipo verificatisi in quest’anno, a confermare quanto riportato dal XII Rapporto su “Sicurezza, qualità, accessibilità a scuola” di CittadinanzAttiva. E cioè che le scuole italiane non sono sicure.

Su duecentotredici strutture monitorate, quattro edifici su dieci hanno una manutenzione carente, oltre il 70 per cento ha lesioni strutturali sulla facciata esterna, nei corridoi, nelle mense e nei bagni, e le aule presentano distacchi di intonaco. Fatiscenti i laboratori, le palestre e le segreterie.

Gli interventi per porre riparo alla situazione vengono attuati in un caso su tre. Mancano scale di sicurezza, vetrate a norma, porte con apertura antipanico. Solo una scuola su tre possiede il certificato di agibilità statica, di agibilità sanitaria solo il 15 per cento degli istituti, e il 23 per cento quello di prevenzione incendi. I cortili, centosettantotto su duecentotredici, con mura di cinta nell’80 per cento dei casi, hanno una pessima recinzione in una scuola su cinque.

Il loro uso è promiscuo: da magazzini, con ingombri e rifiuti non rimossi, a parcheggi per personale e famiglia. In due cortili su tre è presente un’area verde, utilizzata come spazio ricreativo o sportivo. Dove, nell’80 per cento delle scuole, si svolgono attività didattiche, e, nel 49 per cento dei casi, culturali, sportive e ricreative. Se non fosse per la cattiva abitudine di lasciare i cancelli aperti durante le ore di lezione. Anche perché il sistema di vigilanza è attivo nel 77 per cento delle scuole ed è svolto da collaboratori scolastici. Cosicché, oltre a essere dubbia l’incolumità degli studenti, si possono verificare atti di vandalismo ed episodi di criminalità all’interno degli edifici.

Più della metà dei quali è ubicata in zone ad alto rischio sismico, una su quattro in aree a rischio idrogeologico, il 7 per cento in quelle a rischio industriale, il 5 per cento a rischio vulcanico, il 14 per cento è sistemata in luoghi a elevato inquinamento acustico, il 2 per cento “contiene” amianto e radon.

E abbondano le barriere architettoniche: una scuola su quattro è priva di posti ad hoc, nel cortile interno, per disabili e quasi una su due non ne possiede nemmeno nei pressi dell’edificio; sebbene nel 46 per cento di essi vi sia un ascensore, o non è funzionante o non è abbastanza capiente per consentire l’ingresso di una carrozzina per disabili.

La quale non trova alloggiamento, talvolta, nemmeno nei banchi (che dovrebbero essere adattabili a uno studente diversamente abile) e fa difficoltà ad accedere ai bagni, sprovvisti, per tutti, di carta igienica, di sapone, di asciugamani e di scopini per il wc. Anche le aule computer, in un caso su tre, non possiedono sussidi didattici adatti agli studenti inabili, i quali non possono neppure usufruire delle attrezzature tecnologiche.

Unica nota positiva: il piano di evacuazione è presente in tutte le scuole e le prove per la sua applicazione sono state effettuate nel 90 per cento di esse, per lo più relative al rischio incendio e sismico. Riscontrabile, soprattutto in Sicilia e in Campania, in più di quattromilaottocento scuole, e in Calabria, in circa tremila. Almeno si può scappare.

di Tania Careddu

In dieci anni di crisi, diecimila notizie di casi criminali e undici notizie sui bambini soldato. Centoquarantatre notizie sul royal baby in sei mesi e zero notizie sulla Repubblica Centrafricana. E’ il risultato, esposto nel "10° Rapporto. Le crisi umanitarie dimenticate dai media" di Medici Senza Frontiere e Osservatorio di Pavia, di un’analisi sulla rappresentazione, nei telegiornali italiani, delle crisi umanitarie internazionali. Di un decennio, dal 2004 al primo semestre del 2014, importante dal punto di vista degli sconvolgimenti geopolitici avvenuti in molte aree del mondo.

E, di fronte all’inasprirsi di alcune crisi, il trend è apparso di segno opposto: dalle agende dei telegiornali di prima serata, le crisi scompaiono progressivamente. E sempre peggio: milleseicento notizie che si occupano di crisi umanitarie internazionali nel 2013 versus le cinquemilasettecento del 2004. E a sparire sono quelle crisi umanitarie che non soddisfano i requisiti di notiziabilità, ossia che non hanno le caratteristiche tipiche dei grandi eventi epocali, con tutta la loro portata di drammaticità e gravità.

Guerre, malattie endemiche, emergenze sanitarie, carestie, malnutrizione, riaffiorano sui nostri schermi solo al verificarsi di eventi speciali e specifici che li rendono (momentaneamente) “veri” e “reali”. La loro visibilità viene occultata da scenari di conflitti che coinvolgono i principali attori della politica internazionale o che accadono in aree regionali strategiche (per chi le racconta).

Per l’eccezionalità dell’evento, per la prossimità, la possibile minaccia per l’Italia e il coinvolgimento di occidentali - più il contesto di crisi è vicino all’occidente per ragioni politiche, geografiche e culturali o perché è sede di sequestri e attentati ai danni di cittadini occidentali, tanto più alta è la possibilità che trovi spazio tra le notizie nei nostri tg - oppure per la presenza di testimonial vip che la descrivono.

Il record di attenzione spetta ad una zona ben definita: Israele, Libano, Palestina, Iraq e poi Afghanistan. Si, perché quando si parla di crisi nell’occhio del tubo catodico, in due terzi dei casi, con ventitremila e rotti notizie in dieci anni, ci si riferisce a scenari di guerra con, però, un’attenzione marginale alle condizioni dei paesi teatri dei conflitti, alla situazione della popolazione civile, al coinvolgimento di vittime minori, alla difficile posizione delle donne.

Si privilegia, piuttosto, la “cronaca degli attacchi e degli attentati” che si esaurisce nel resoconto dell’accadimento. Con un focus particolare sulla partecipazione dei militari italiani nelle missioni o sulle strategie internazionali per risolvere i conflitti.

Va da sé che fra le crisi più citate ci sono quei contesti che godono di una “visibilità continua” oppure quelli che attirano l’attenzione in concomitanza di eventi tragici, secondo una logica informativa catastrofica, la quale da spazio agli eventi spettacolari, provocando una “telegenia dell’orrore”.

Cioè, tanto più un evento rompe la routine di fallimenti a cui siano abituati, tanto più entra a gamba tesa nei telegiornali. Oppure hanno una “visibilità a singhiozzo”, quando  i riflettori si accendono su quell’emergenza in coesistenza di alcuni fatti significativi. Vedi le crisi umanitarie connesse alle calamità naturali.

Che sono state affrontate in duemilacinquecento servizi; fra questi il triste primato di visibilità va allo tsunami del sud est asiatico, seguito dal terremoto di Haiti e dalle alluvioni in Indonesia, Pakistan e Filippine. E poi, esistono le crisi invisibili. Dimenticate eppure gravi. Ma immobili tanto da rimanere silenti fino all’accadere di eventi più idonei a essere urlati nei tempi delle ‘rap news’ dei telegiornali sincopati.

E’ il caso della Repubblica Centroafricana assente in dieci anni di analisi, dei conflitti in Uganda e in Sierra Leone, nel Mali e in Congo - nominato solo nelle nove notizie relative al blocco delle adozioni internazionali a seguito degli scontri tra ribelli e forze governative ma nessun riferimento al conflitto cronico che infiamma il paese da oltre venti anni.

E’ questo un caso di “provincializzazione” e di “decontestualizzazione” delle notizie che, insieme alla “personalizzazione”, finisce per riservare maggior spazio al nostro Belpaese piuttosto che a quello in cui è in corso la crisi umanitaria, la quale rimane sullo sfondo perché il suo approfondimento richiede tempi poco compatibili con i notiziari. Che preferiscono aprire a tabloidizzazione e infotainment.

Via, dunque, a elementi di intrattenimento, cronaca rosa e gossip: trecentottanta notizie in sei mesi dedicate alle nozze di William e Kate contro le undici dedicate alle condizioni drammatiche dei bambini soldato; nel 2007 l’estate di Paris Hilton merita l’attenzione di sessantatre notizie mentre la Repubblica democratica del Congo tre; le vacanze della coppia Briatore-Gregoraci trentatre notizie versus dodici per un mese di colera nello Zimbabwe.

E ancora: per il caldo torrido del 2009 sono state scritte duecentoquarantasei notizie contro le centosedici per un anno di fame; nel 2012 impazza la fine del mondo secondo la profezia Maya riportata in trentanove notizie e zero per le malattie tropicali, nel 2013 otto notizie riservate ai disordini decennali del Sud Sudan e settantatre alle nozze e alla maternità di Belen Rodriguez.

E così cadono nell’oblio, con una media di trenta notizie all’anno, la povertà, la malnutrizione e le emergenze sanitarie. A meno che l’Ebola non oltrepassi i confini nazionali.

di Tania Careddu

“Sono stanco, la sera non riesco nemmeno a dormire da quanto sono stanco. Non voglio più lavorare così tanto, voglio vivere tranquillo e avere qualcuno che mi dice di andare a scuola. Io voglio studiare. Ho lavorato per quattro settimane dalle sette del mattino all’una di notte. Dormivo tre ore, guadagnavo centocinquanta euro a settimana. Vorrei guadagnare almeno duecento euro da mandare a casa. Se potessi esprimere un desiderio, vorrei fare lo chef e girare il mondo”. M., tredici anni, egiziano. Uno dei trecentoquarantamila minori tra i sette i quindici anni coinvolti nel lavoro minorile in Italia.

Paese fra quelli europei, stando a quanto si legge nel Dossier 2014 di Save the children ‘Piccoli schiavi invisibili’, nel quale è stato segnalato il maggior numero di vittime accertate e presunte. Quelle presunte sono ventottomila, coinvolte in attività definite a “rischio di sfruttamento”: in attività a conduzione famigliare, nel settore della ristorazione, dell’artigianato, nella vendita (anche ambulante), nell’edilizia (manovali, imbianchini, carpentieri), lavoro di campagna e maneggio degli animali. Sono soprattutto maschi e oltre il quaranta per cento ha avuto esperienze lavorative al di sotto dei tredici anni.

Gli stranieri rappresentano il 7 per cento e provengono soprattutto dall’Eritrea, dove i connazionali adulti approfittano della situazione di vulnerabilità o mancanza di conoscenze e informazioni per estorcere denaro in cambio di servizi, come accoglienza notturna, passaggio verso il Nord Italia, accompagnamento ai servizi sociali; dall’Afghanistan, in condizioni di forte rischio di sfruttamento quando questo diventa l’unico modo per guadagnare soldi necessari a proseguire verso la loro meta finale, e dall’Est Europa, sfruttati in attività illegali.

Partono anche dall’Egitto, perché stimolati dai racconti di viaggi portatori di grandi successi economici che ostentano una ricchezza mai ottenuta in Italia o dai post su Facebook che alimentano false speranze. Oppure per l’instabilità politica del loro Paese, la mancanza di principi e ideali o del senso di appartenenza al proprio Stato.

Per intraprendere il viaggio contraggono un grosso debito che dovrà essere ripagato con i soldi che potenzialmente il minore dovrebbe inviare alla famiglia una volta giunto nel Belpaese ed essere stato inserito nel mondo del lavoro, a qualunque condizione.

Sfruttati: in piccole attività commerciali, prevalentemente a Roma, nei mercati generali o negli autolavaggi, dove lavorano per dodici ore consecutive a fronte di paghe irrisorie, pari a due o tre euro l’ora.

Un lavoro cosi pesante da causare dolore fisico che cercano di alleviare con l’assunzione di farmaci oppiacei antidolorifici. Nei negozi di fiori, invece, o vendendo ombrelli per strada e fazzoletti ai semafori, è la sede di lavoro dei minori del Bangladesh. I quali, soprattutto nella Capitale e a Napoli, sono impiegati in lavori continuativi, spesso senza retribuzione.

Quelli più a rischio sono coloro che non hanno conoscenza, che vivono in condizioni di isolamento e dormono per strada senza possibilità di accesso ai servizi di base, compresi quelli sanitari. A volte, tutti loro, entrano nel circuito della giustizia per il coinvolgimento in attività illecite che hanno cominciato parallelamente all’acutizzarsi di problemi a scuola, culminati in bocciature o abbandoni: furti in appartamenti o in negozi, furti di auto e spaccio di sostanze stupefacenti. Con questa dinamica: gli sfruttatori permettono di trattenere una parte del guadagno per dare loro una motivazione o una parvenza di autonomia. Per non sentirsi troppo sfruttati.

di Tania Careddu

Una violenza endemica, di genere, che oltraggia i diritti umani. Profondamente segnato da culture patriarcali e da dinamiche di potere decisamente sfavorevoli al sesso femminile. Silente eppure frequente: il matrimonio forzato. Occuparsene, per capirlo, significa interrogare le culture, affrontare l’accesso delle donne ai beni sociali ed economici nelle diverse realtà culturali. Soprattutto in quelle caratterizzate da società “poco sviluppate”, in cui le tradizioni definiscono l’identità individuale e sessuale e dove le scelte del nucleo famigliare prevalgono prepotentemente su quelle soggettive.

Le quali, spesso, sono condizionate da un gioco di valori, dall’esperienza (poca), da un calcolo del rapporto costi/benefici, dalla consapevolezza (o meno) di sé e del proprio desiderio. O ancora: affrontare la profonda e strutturale differenza tra i sessi, fare i conti con una limitazione della libertà degli individui e una prevalenza di usi, costumi e sistema di valori collettivi che investe uomini e donne, considerare i radicalismi religiosi, spesso abbinati a una rigida gerarchia di norme codificate dalla tradizione.

Vuol dire tenere in conto del livello di povertà - fattore primario di rischio per i matrimoni (forzati, ovviamente) infantili, dove l’obbligo di sposarsi imposto alle minorenni origina dalla speranza che il matrimonio porti alla famiglia dei vantaggi finanziari o sociali - o dal valore della “purezza sessuale” fisiologica delle ragazzine.

In Italia, secondo quanto si legge nella pubblicazione del dipartimento per le Pari opportunità “Il matrimonio forzato in Italia: conoscere, riflettere, proporre. Come costruire una stima del numero delle donne e bambine vittime in Italia di matrimoni forzati”, non è possibile quantificare il fenomeno per la sua liquidità, la difficoltà di racchiuderlo in una definizione univoca e condivisa, la carenza di basi di rilevamento e di rappresentatività statistica.

Si possono, però, considerare sia i casi di matrimoni forzati (isolati e sporadici) in cui agiscono fattori di costrizione tradizionali anche all’interno di famiglie native - dove si può rilevare un aumento dei matrimoni precoci, in particolare nel Sud Italia e in quelle piccole comunità in cui sia fortemente presente l’elemento del controllo della sessualità femminile e dell’onore familiare - sia le forme di conflitto che si generano nell’esperienza migratoria tra prime, seconde e terze generazioni di migranti.

Le cui figlie vivono in bilico tra due culture: laddove i legami identitari sono più radicati, le pressioni riescono ad avere presa anche fra quelle ragazze che, vivendo nel Belpaese, sembrano aver conquistato autonomia di pensiero e libertà di scelta. I matrimoni forzati si “celebrano” più frequentemente fra i migranti del subcontinente indiano e dei paesi musulmani. Gli immigrati del Marocco e dell’Albania rappresentano le comunità maggiormente degne di interesse, perché si tratta di gruppi in cui la folta presenza di donne da una parte e di seconda generazione dall’altra sono componenti importanti per poterne intravedere il rischio.

La cui concretizzazione ha serie conseguenze: intrappolamento in situazioni di violenza da parte dei mariti, gravidanze forzate o precoci, ridotto accesso all’educazione, abbandono scolastico e sempre più scarse opportunità di impiego, compromissione dello sviluppo psicologico. “Io non voglio fare del male, io voglio essere libera”. H., vittima di matrimonio forzato.

di Tania Careddu

Ventinovemilaquattrocento. Tanti sono i minori allontanati dalla famiglia di origine in seguito a un provvedimento del Tribunale per i minorenni. Di questi, stando ai dati emersi durante un convegno alla Camera dei deputati, per il lancio de ‘Il Manifesto #5buone ragioni per accogliere i bambini e i ragazzi che vanno protetti’, 14.991 si trovano in una comunità educativa e 14.397 in affido famigliare.

Di questi, 6.986 sono affidati a famiglie della stessa rete parentale e 7.411 vivono fuori del nucleo. Il 59,3 per cento sono maschi e il 37,3 per cento femmine e hanno, principalmente, fra gli undici e i diciassette anni, con il 6,8 per cento ha da zero a due anni.

Il 32 per cento di essi è straniero e il 51 per cento “non è accompagnato”, ossia è arrivato in Italia senza adulti di riferimento e si trova senza una famiglia sul territorio italiano, mentre i minori italiani sono 10.148. Finiscono in comunità per “inadeguatezza genitoriale” - che non si riferisce ai normali limiti umani nell’esercitare un ruolo così difficile come quello del genitore ma a un’incapacità grave di rispondere ai bisogni evolutivi e alle esigenze dei figli -, per maltrattamenti, incuria, abusi sessuali o violenza assistita. O anche - dove uno dei due genitori non è in grado di tutelare il minore di fronte alla violenza dell’altro - per problemi di dipendenza da sostanze tossiche di uno o entrambi i genitori o per problemi di rapporti all’interno della famiglia.

In un caso su tre, i minori sono stati sottratti temporaneamente alla loro famiglia in base a una “misura di protezione urgente” per maltrattamento conclamato, abbandono o per altre ragioni particolarmente gravi o impellenti. Va precisato che le difficoltà socioeconomiche, che spesso caratterizzano questi contesti, non costituiscono, da sole, motivo sufficiente per l’allontanamento. Che, nel 31 per cento delle situazioni, è “consensuale”, cioè stabilito con l’assenso dei genitori, e nel 69 per cento è di natura “giudiziale”, ossia effettuato dietro provvedimento delle autorità competenti.

La loro permanenza in comunità può durare pochissimo, per meno di tre mesi e fino a quattro anni, e solo il 10 per cento li supera. La dilatazione dei tempi è determinata da particolari situazioni. Tipo: un problema sanitario proprio o del genitore, la perdita di uno o di entrambi i genitori, la dipendenza del padre o della madre da sostanze psicotrope, o per i casi di “inadeguatezza genitoriale” di cui sopra.

Nel frattempo, la maggior parte dei bambini mantiene rapporti regolari con le famiglie. Che sono 19.500, soprattutto monogenitoriali (aumentate dal 1998) in cui la metà dei padri è disoccupata mentre fra le madri lo è un terzo.

Fra gli ospiti delle comunità educative si contano anche 1.023 neo maggiorenni i quali, grazie a un provvedimento che garantisce loro una progettualità educativa che li accompagni al futuro, sono accolti, a volte gratuitamente, senza il sostegno delle amministrazioni locali. Mentre le comunità, per svolgere al meglio il loro lavoro, avrebbero bisogno di una retta giornaliera per ciascun bambino, compresa tra i centoventicinque e i centocinquantuno euro.

Ma, nella quasi totalità del Paese non si arriva a questa cifra. Tanto per fare un esempio: a Roma ammonta a sessantanove euro circa, e a Milano arriva a settantotto. I bilanci delle strutture sono in rosso: pesano una drastica riduzione delle risorse destinate e un ritardo corposo nei pagamenti.

In Campania, pur percependo la retta giornaliera più alta d’Italia, pari a centotrenta euro per minore (seguita dall’Emilia Romagna, nella quale, però, più del 70 per cento delle strutture lamenta bilancio negativo, e dal Veneto), gli educatori non ricevono lo stipendio da trenta mesi.

Molte comunità hanno serrato i battenti e altre sono in procinto di chiudere. Eppure in Italia i minori fuori famiglia sono meno numerosi che nel resto d’Europa: sono il tre per mille a fronte del  nove per mille in Francia, l’otto per mille in Germania, il sei per mille in Gran Bretagna e il quattro per mille in Spagna. E dal 2007 a oggi non sono aumentati.


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