di Rosa Ana De Santis

Al termine della partita di domenica Mario Balotelli non ha risparmiato parole dure contro i tifosi veronesi. Davanti alle telecamere, super Mario, il fuoriclasse dell’Inter che sembra destinato a scatenare continue polemiche, non ha quasi voglia di parlare del goal che ha reso la sua squadra “campione d’inverno”. “Il pubblico di Verona mi fa sempre più schifo”. Lo dice così, in modo semplice e diretto, con il volto carico di chi è stato sommerso di fischi e insulti per tutti i 90 minuti di gioco. Non è la prima volta che accade con Balotelli. Colpa secondo alcuni, come il CT della Nazionale Lippi ha sostenuto più volte, soltanto del carattere arrogante e spavaldo che lo contraddistingue e di un comportamento scomposto e indisciplinato sul campo.

E’ davvero difficile spiegare in questo modo i cori razzisti delle tifoserie, soprattutto quando l’insulto esce fuori dal campo di calcio e sorprende Mario Balotelli per le strade di Roma, dove quest’estate era in ritiro con l’Under 21. Episodio grave che proprio quello stesso ragazzino immaturo e attaccabrighe non ha voluto denunciare. Le tifoserie, con la benedizione di tanta ipocrisia del calcio italiano, rivendicano le ragioni di una persecuzione verbale che non ha a che vedere con il colore della pelle, ma con il giocatore.

Eppure gli dicono sporco negro. Non una parolaccia come tante altre. Eppure gli tirano banane e lo chiamano scimmia. Le parole, tutte, anche quelle dell’insulto e dell’offesa, non sono mai neutre e denotano sempre l’anima e le viscere di una cultura, di un umore collettivo, di un costume sociale. Lo stesso, per intenderci, per cui a una donna, una certa cultura machista nostrana preferisce dare della puttana o della gallina che non della stronza.

Ma perché Balotelli è diventato il bersaglio preferito dei vandali, dei teppisti e dei neofascisti infiltrati nelle tifoserie di tante squadre? Perchè lui e non altri calciatori che come lui hanno la pelle nera? Per Mario non vale il furore ragionato e condiviso cavalcato dalla politica di destra che investe gli stranieri in Italia, quelli anonimi dei barconi, quelli diventati famosi come l’albanese Kledi, quelli dei rotocalchi con il visto scaduto come la bellissima Belen. Balotelli è italiano.

Nasce a Palermo da immigrati ghanesi e viene affidato dal Tribunale dei Minori alla famiglia Balotelli di Concesio. A 18 anni, come previsto dalla legge, diventa cittadino italiano. Ma non basta. Non è lo status giuridico di un diritto acquisito a renderlo italiano, ma un sentimento di appartenenza che rivendica e ribadisce ad ogni occasione utile. “Sono italiano, mi sento italiano, giocherò sempre con la Nazionale italiana”. Sarà proprio questo a dare fastidio? Che un negro, nerissimo come il Ghana che gli scorre nelle vene, si senta italiano come lo sono - purtroppo - quelli degli spalti?

Basterebbe questo a rendere evidente che dietro al comodo pretesto del carattere difficile c’è un giovanissimo campione scomodo che toglie spazio ai vip del calcio; che la spavalderia, giustamente redarguita più volte dallo stesso allenatore dell’Inter, nulla spiega dell’insulto razzista. Cosa distingue, ad esempio, Balotelli da un calciatore italiano come Cassano duramente penalizzato anche lui dal proprio comportamento arrogante e spavaldo? Uno dei due ha la pelle nera. Ed è proprio questo ciò su cui si accaniscono i cori degli stadi. Cos’é se non questa l’aggravante del razzismo e della discriminazione?

Il sindaco Tosi ha replicato alle parole di Balotelli profetizzando che non sarà mai un grande campione. “Un immaturo e un presuntuoso”, lo definisce così. Una raffinata forse anche legittima lezioncina sul caratterino di un ventenne di successo che fa sorridere rispetto al panorama che offrono i nostri stadi ogni domenica e di cui sarebbe il caso di occuparsi più seriamente e non solo nelle trasmissioni di calcio.

Lo sfogo fuori misura di tantissimi giovani ossessionati di “pallone”, spettri di un passato resuscitato, pericolosi proprio per tutto quello che la loro vita non ha più. Un progetto da realizzare, un sogno da costruire. Lo stadio come l’arena dei romani. Il volto peggiore della nostra gioventù o giovinezza, come amavano chiamarla non molti anni fa. Una violenza che dimostra di saper solo impazzire ancora di più se un ragazzo con la pelle nera, talentuoso, di successo, coperto di soldi e di donne, né umile, né remissivo come un vago senso di colpa dovrebbe spingerlo ad essere, osa dire di essere e sentirsi “italiano”.

Il sindaco di Verona farebbe bene ad occuparsi sul serio della sua città che in quello stadio ha gridato “Non ci sono negri italiani!”. E’ questo il coro che nessuno racconta mai fino in fondo. Ed è questo lo scomodo caso di Mario Balotelli. Non un negro e basta. Non il solito razzismo delle periferie invase dagli stranieri. E’ un negro ed è italiano. Da qui l’odio per il sangue e il colore della pelle. Il razzismo vero, quello dei bianchi. Quello che tutti fanno a gara a non vedere e che si affannano con veemenza a negare.


 

di Emanuela Pessina

Berlino. Da principio erano i battitori d'asta, le sale riservate a pochi eletti, le offerte e la base d'asta, le opere d'arte e l'aggiudicazione. Nell'era del web, le aste sono divenute alla portata di tutti. Ebay rappresenta certamente una dimensione dell'asta che, pur essendosi sostituito al battitore d'asta, prevede comunque le tecniche di rialzo delle offerte per compratori in cerca d'affari e - questa la novità - include lo scambio. Ora però, anche il sesso é tra i prodotti da compravendita all'asta e Internet il suo veicolo. Le donne si mettono all'asta e lo fanno sul web. Il sito dove si offrono si chiama Gesext.de e il successo che riscuote nei navigatori tedeschi rende bene l’idea di quale sia l’ultima frontiera dell’incapacità d’amare.

Gesext.de funziona in modo semplicissimo. Le donne decise a vendersi si registrano al sito procurandosi un nome fittizio, mettono i loro annunci - con tanto di descrizione pregi, difetti e prestazioni offerte - e decidono un prezzo di partenza. Poi entrano in gioco gli "astanti", anch'essi registrati ma protetti da un nickname, con le loro offerte. Prede e cacciatori possono comunicare e trattare fino al raggiungimento dell'accordo finale che soddisfa le aspettative di entrambi. In poche parole, una sorta di ebay del sesso.

E, proprio come in ebay, venditrici e astanti si possono permettere di lasciare un feedback rispetto all'incontro avuto: da "fantastico incontro" a "mi aspettavo qualcosa di più", passando per giudizi meravigliati tipo "la ragazza ha qualcosa in testa". Come per Studigirl85: una ragazza di 24 anni che si è messa all'asta per la notte di Natale. L'audizione si è conclusa a 810 euro offerti da Ditschi75.

Casalinghe, studentesse, segretarie o architetti poco importa, le donne che si mettono all'asta sul portale di gesext.de sono per la maggior parte "ragazze della porta accanto" che, oltre all'esistenza borghese, conducono una specie di doppia vita segreta. Secondo quanto scrive il quotidiano tedesco Tagesspiegel, le iscritte a gesext.de sarebbero, al momento, poco più di mille, di cui pochissime professioniste del sesso.

Il sito gesext.de è nato 5 anni fa da un'idea di Herbert Krauleidis. Krauleidis, 54 anni, è originario di Stoccarda e ha lavorato per diversi anni come tecnico presso la Standard Elektrik Lorenz, un'azienda leader della comunicazione virtuale, per poi passare alla Daimler come esperto informatico. Un tipico uomo serioso in giacca e cravatta, insomma, che tuttavia non vuole passare inosservato: Krauleidis viaggia su una voluminosa Mercedes dalla targa a dir poco inusuale, S-EX 660.

Gesext.de registra ogni giorno più di 60 mila visite: un enorme successo che ha assicurato, nell'ultimo mese, un aumento del volume di affari del 32 percento. Krauleidis, che incassa in media il 15 percento della somma raggiunta in ogni asta virtuale, non può che eesere soddisfatto dei risultati raggiunti. Il successo, tuttavia, non costituisce per lui alcun mistero: in un'intervista rilasciata al Tagesspiegel ha spiegato che "l'uomo è cacciatore" di natura, intendendo probabilmente con ciò che il successo era prevedibile. Inutile aggiungere che la rivista Playboy costituisce per lui un punto di riferimento negli affari e una lettura obbligatoria: in altre parole, il suo Financial Times.

Ma ogni tanto qualcosa va storto anche per l'orgoglioso Krauleidlis. Una signora di Jena è rimasta incinta e ha voluto conoscere i nomi reali dei sei "personaggi" con cui ha avuto i suoi incontri tramite Gesext.de. La signora vorrebbe scoprire chi è il padre effettivo del suo futuro bimbo. E Kraudeilis ha dovuto fornire le identità degli uomini in questione, sebbene a malincuore: l'anonimità è forse il desiderio più grande di chi partecipa all'asta, uomo o donna non importa.

Inutile dire che l'iniziativa di gesext.de è molto controversa: da parte sua, il tribunale di Stoccarda ha giudicato il portale come "non immorale", rilasciando un certificato di legalità ai contratti firmati con le varie audizioni. La pubblicità di gesext.de dice "mercato e lifestyle per soli adulti dalla mentalità aperta". La schiettezza può far paura, certo, ma gli affari di gesext.de non sono poi più immorali di quelli proposti "inufficialmente" sulle strade di tutto il mondo.

 

 

di Giovanni Cecini

Internet, videofonini, digitale terreste e satellitare: viviamo ormai nella società della comunicazione totalizzante. Nessuno può dire più di non essere informato o di non poter partecipare anch’egli al mondo della divulgazione attraverso Youtube o altri pirotecnici mezzi mediatici. Ovviamente ciò è valido solo nella parte dove la tecnologia esiste ed è fruibile come bene prevalentemente superfluo, avendo già risolto problemi come la fame, la sete, l’igiene e la difesa dagli agenti atmosferici. Premesso questo, pare quasi scontato che nel nostro Paese, a titolo d’esempio, vista la grande diffusione d’innumerevoli metodi di divulgazione, dalle apparecchiature elettroniche più sofisticate alle ormai primitive carta e penna, ciascun individuo possa parlare, ascoltare, leggere e comprendere notizie e dati resi dagli altri.

Se crediamo questo, incappiamo in un grave errore, perché se facciamo i conti con le competenze base degli italiani, si scopre che una parte considerevole degli abitanti della Penisola è - secondo i canoni odierni - completamente analfabeta. Circa il 15% saprà anche scrivere o leggere, ma ciò non è sufficiente affinché esso possa comprendere un testo o sappia riprodurre per iscritto il suo pensiero. Questo elemento non dovrebbe apparire sorprendente se circa il 36% possiede solo un titolo di licenza elementare o neppure quello, e se il tasso dei laureati non arriva al 10%.

La notizia è sconcertante, ma in un momento storico in cui l’attenzione generale è rivolta alla crisi economica, al sempre più schizofrenico dibattito politico, ai problemi di ordine pratico e materiale, una calamità sociale di questo tipo passa in sordina e suscita poca considerazione. Tullio De Mauro, insigne studioso di lingue e linguaggi, lancia in toni molto preoccupati l’allarme, prefigurando uno scenario dove solo il 20% della popolazione nazionale sarebbe capace di apprendere o esprimersi in maniera adeguata attraverso la forma scritta dell’italiano.

Le colpe e le origini di questo dramma culturale e umano sono molteplici e ricche di significato antropologico: dall’uso distorto delle forme lessicali negli sms o nelle rapide risposte delle chat, fino all’eccessivo impiego di formule derivanti dall’inglese o da qualsiasi altra spuria variante linguistica. Ecco quindi come, non solo l’italiano “vivo” cambia pelle, ma gli italiani in generale perdono l’uso della propria lingua sia nel lessico, sia nelle costruzioni verbali.

Di fronte quindi all’ardore orgoglioso dei dialetti come forma demagogica di cultura locale, l’idioma nazionale è vittima di un analfabetismo funzionale o di ritorno dalle proporzioni impressionanti. A tutto ciò si aggiunge che la scuola, come l’università, prediligono in modo prevalente il canale orale. La gran parte degli studenti, che frequentano gli atenei, s’imbattono nell’elaborazione di un testo scritto complesso, solamente al momento della tesi di laurea, riducendo gran parte delle prove intermedie con carta e penna a una scelta multipla, importata direttamente dai quiz televisivi.

Tutto questo apparato si va a sommare alla già consistente presenza sul suolo nazionale di numerose comunità straniere, che coltivano i propri idiomi alloglotti, ma si trovano nella quotidianità ad approcciarsi con un mondo linguistico senza regole e dove l’incomunicabilità divampa oltre qualsiasi confine. In queste condizioni sembrerebbe quindi ipocrita e inutile richiedere un esame di lingua, storia e cultura nazionale agli stranieri, per ottenere la cittadinanza, quando la stragrande maggioranza degli italiani sono privi di una solida base d’identità comune in fatto di comunicazione.

Per chi ha i capelli grigi, forse tornano alla mente le lezioni del maestro Alberto Manzi e del suo “Non è mai troppo tardi” che, in una televisione in bianco e nero, insegnava ad adulti senza preparazione scolastica, i rudimenti di educazione sociale attraverso la lingua. In un Paese, come l’Italia, che è regredito culturalmente sotto ogni punto di vista, tale esperimento tornerebbe d’attualità, in barba a tutta quella serie di pantomime pseudo culturali, più vicine a un ciarpame mediatico, che a vera diffusione del sapere. Come si dice in questi casi, meglio ridere che piangere. Per questo ci possiamo consolare con la spassosissima e senza senso lettera di Totò e Peppino: «Abundantis abundantum… che poi dicono che siamo provinciali, siamo tirati».

di Mario Braconi

Lo scorso gennaio, a margine di una conferenza dal titolo "Chiesa in Rete 2.0", il portavoce della CEI, don Domenico Pompili, emetteva il dubbioso verdetto della confessione che egli rappresenta sui "social network". Niente anatemi questa volta, ma un atteggiamento cauto, suggerito dal presunto rischio che gli utenti di Facebook, Twitter e simili si ritrovino nella paradossale condizione di "individualismo interconnesso" (concetto formulato dal sociologo Manuel Castells per descrivere quelle persone che trascurano le relazioni personali con i loro simili, pur vantandone numerose e complesse di tipo elettronico-virtuale).

I (legittimi) dubbi della Chiesa, però, hanno per oggetto i soli social network realizzati dagli altri; sembrerebbe di capire che, per la Chiesa, essi risulterebbero "pericolosi" se impiegati per fare amicizia, condividere interessi, scambiare informazioni, mentre la benedizione è assicurata su quelli, anzi su quello, che viene impiegato per pregare. E' questo infatti lo scopo principale di Prex-Communion, il "social network della preghiera" lanciato lo scorso 19 novembre in occasione del convegno "Fede e Tecnologia", tenutosi nel palazzo apostolico di Loreto - presenti il "padrone di casa" Monsignor Tonucci (il quale, a mo' di chiusura dei lavori, benedice tutti i partecipanti); la giornalista berlusconiana Cesara Buonamici; il vaticanista del Corriere della Sera Luigi Accattoli; rappresentanti della società informatica che ha realizzato il prodotto (la EDE, Euro Digital Equipment, che fa capo al gruppo More Technologies, di cui è stato impossibile reperire notizie aggiornate); più due alti dirigenti della Saatchi & Saatchi Italia, società cui è stata affidata la cura dell'immagine della piattaforma e la relativa campagna pubblicitaria.

Il nome del social network della Chiesa, invero non molto sexy, è emblematico della immensa distanza culturale che separa il milieu dal committente: Prex sta per "preghiera" in latino, mentre community (ossia "gruppo di persone accomunate dagli stessi interessi che corrispondono tra loro attraverso una rete telematica") viene miracolosamente promosso a "communion" (cioè, questa volta in inglese; comunione, ovvero il corpo dei cattolici.

Per inciso, la grafica del sito - cielo azzurro a nuvolette, aura di luce attorno ad una colomba a sinistra della testata, silhouette di una famigliola sulla destra - è dozzinale. Mentre lo spot per la televisione è un capolavoro kitsch: vi si susseguono, mentre una voce femminile canta l'Ave Maria di Schubert, uno scenario da paese in guerra, l'immagine di un’anziana signora borghese dignitosamente seduta nel suo salotto, un simpatico nonnino intento a prepararsi il caffè, un giovane "bello e dannato" che percorre una banchina battuta dai flutti, una bella ragazza relativamente vestita a pancia in sotto su un letto (incongruo tocco sexy, che, oltre a sancire l'onnipresente uso commerciale del corpo femminile, ha il merito di tener viva l'attenzione).

L'unica caratteristica comune a tutti i personaggi è la solitudine; in effetti, se proprio si volesse estrarre senso da questa pubblicità, parrebbe che a dedicarsi al rosario (digitale o "analogico") siano persone infelici cui non resti molto altro nella vita se non dedicarsi ad biascicare una sequenza di preghiere preconfezionate, che la ripetizione meccanica tende a svuotare di significato. Da questo punto di vista sono rivelatrici, quasi un lapsus, le parole dell'arcivescovo monsignor Tonucci, intervistato da Jenner Meletti di La Repubblica: "Io penso che tecnologie come questa, almeno in questa fase, aiutino le persone che sono sole - per giorni, per mesi o anche per pochi minuti - a sentirsi meno sole."

Nel tentativo improbo di intercettare consenso in una società quasi completamente secolarizzata e tendenzialmente consapevole, la Chiesa Cattolica ha accettato la difficile sfida di far proprie le dinamiche tipiche dei mezzi di comunicazione di massa: va interpretato in questa ottica il lancio di un canale tematico su YouTube in tre lingue, dedicato alle parole del Papa. Come anche la realizzazione del "rosario elettronico", un piccolo riproduttore MP3 a forma di uovo in due versioni, base (prex) e accessoriata (lux - luce in latino, o lusso?) - dotato, quest'ultimo, di cuffiette "per un ascolto più discreto". E' la risposta clericale all'iPod. Mentre Apple propone al resto del mondo un apparecchio per riprodurre musica, filmati o podcast, la chiesa mette in campo uno strumento per assistere il fedele nelle preghiere strutturate e formalizzate che essa prescrive.

L'ovetto santificante, che ha venduto 40.000 unità praticamente senza pubblicità, è disponibile in diverse versioni: standard (giallo, bianco e celeste con i segni della delegazione pontificia di Loreto), ovvero personalizzato per altri gruppi di fedeli, quali "papa-boys", Croce Rossa, Carabinieri, Cavalieri di Malta e Aviazione. Tutto questo per dire che, se Gesù tornasse sulla terra, dopo aver parlato di pace e di uguaglianza (temi sempre attuali) non dovrebbe dimenticare di andare al tempio a tirare qualche altra legnata ai sempre attivissimi mercanti che, ancor oggi, si nascondono dietro le sue colonne.

E' evidente, quanto inevitabile, che la Chiesa, nel suo tentativo di penetrare in territori tipici della modernità, e pertanto lontani dalla sua cultura, si muova in modo goffo ed inefficace: realizzare un applicativo da far girare sull'iPhone per recitare il rosario è una contraddizione in termini troppo difficile da riconciliare. Da una parte la modernità, con la sua nevrosi e le sue infinite possibilità di comunicare, condividere, creare; dall'altra, la rigidità di una monarchia che si è ben poco evoluta dal Medioevo a oggi. In effetti, i dati statistici sugli accessi a Prex Community ad un mese dal suo lancio non sembrano particolarmente incoraggianti: secondo quanto dichiara la EDE, se si eccettua un picco, il sito sta ricevendo circa 400 visitatori unici al giorno, un risultato che potrebbe essere raggiunto da un blog, il quale però, a differenza di Prex Communion, viene di solito ideato, gestito e manutenuto da una sola persona (o da una piccola redazione informale di amici) e senza metterci sopra nemmeno un euro.

Prex Communion consente di creare gruppi di preghiera con obiettivi specifici; in questo esso è simile a Facebook: chi vuole promuovere una certa causa non deve fare altro che costituire un "gruppo" cui altri possono aderire. Strumento potentissimo, benché l'obiettivo del gruppo possa essere modificato impunemente dal creatore (o amministratore) anche dopo aver raccolto le adesioni (a chiunque potrebbe capitare di diventare membro di un gruppo contro il riscaldamento globale, salvo poi trovarsi iscritto ad un gruppo che predica la pedofilia!).

In ogni caso, chi è dotato di fede robusta crede che la preghiera possa costituire uno strumento potente per risolvere i suoi guai e quelli degli altri. In mondo di spirito e di astrazione, come quello in cui ci stiamo muovendo, appare incongruente ricorrere a ragionamenti quantitativi: eppure, sembra che quanto più sono numerosi i fedeli che chiedono un dato intervento al Signore, tanto più le orecchie del Vecchio Barbuto si facciano ricettive. Se questa è la "logica", ed è difficile accettarla, ben venga Prex Community: anzi, verrebbe quasi da dire che, a costo di qualche compromesso di coscienza, dovremmo - tutti - registrarci. Chissà che, biascicando tutti assieme una preghierina online, non si riesca a far sparire gli incubi della fame, della guerra e del riscaldamento globale.

di Rosa Ana De Santis

È bufera sulle carceri italiane. Numerose e drammatiche le denuncie che negli ultimi tempi hanno evidenziato i grandi mali della detenzione. Il sovraffollamento, i diritti negati, anche quelli di cura, le condizioni disumane e i pestaggi. Le morti nere. Quelle rimaste senza causa e colpevoli. L’ultimo a morire venerdi scorso è Uzoma Emeka, testimone chiave del pestaggio avvenuto nel carcere di Teramo il 22 settembre. Era un nigeriano di 32 anni arrestato per spaccio di stupefacenti, ed è soprattutto "il negro che ha visto tutto", come dissero i secondini autori del famigerato pestaggio.

Era testimone di quell’orribile racconto di pestaggi e violenze riservate ai detenuti, che abbiamo ascoltato dalla registrazione resa nota dal quotidiano La Repubblica. Un’interrogazione parlamentare del PD chiede al guardasigilli Alfano di aprire un’indagine su questa morte oscura. Si chiede che l’autopsia sia filmata e che non si ripeta la sepoltura veloce riservata poco più di un mese fa al giovane Cucchi, riesumato per scoprire tutta la verità di una morte trovata sempre in carcere. Sempre per mano della polizia.

"Il negro" è morto per cause naturali. Si dice per arresto cardio-circolatorio. Era già svenuto qualche tempo fa sotto la doccia. Ammesso che l’autopsia lo confermi, va precisato che nessuna assistenza sanitaria, né trasferimento in struttura ospedaliera, gli era stato ovviamente riservato. Emeka era stato lasciato lì, testimone di un fatto tanto delicato e difficile, in mezzo a ogni possibile pressione, minaccia, violenta solitudine. Senza il diritto di alcuna protezione o trattamento speciale. Privato del diritto di cura e in totale insicurezza come non si conviene per un testimone di un fatto tanto scomodo.

Come lui, molti altri. Una prassi diffusa, a quanto pare, non proteggere quanti possono smascherare l’abuso extra legem che vige come regola nel carcere. Ricordiamo il tunisino Ama Tbini, che denunciò al procuratore John Woodcoock le violenze subite dai poliziotti e dagli operatori sanitari del carcere di Potenza nel 2000. Fu lasciato in mezzo agli aguzzini che aveva denunciato e fu ritrovato poco dopo nella sua cella, impiccato. Le morti dei detenuti avvenute per abbandono terapeutico o per fatti di violenza rimasti senza colpevoli o per storie di testimoni scomodi come Emeka sono tante e disegnano il quadro di un’emergenza. I morti dietro le sbarre nel 2009 arrivano a  172. Una matematica degli orrori e un record nella storia della Repubblica.

I numeri delle associazioni che lavorano per i diritti dei detenuti, “Antigone” e “Ristretti Orizzonti”, da tempo ormai denunciano l’ingiustizia che ribolle dietro le sbarre. La popolazione carceraria sfiora i 70mila detenuti, il 65% dei quali per pene inferiori ai 3 anni, per i quali bisognerebbe attuare, come previsto, pene alternative. Suicidi e morti in aumento. Ammalati lasciati morire, giovani pestati. Testimoni che non parlano o che non devono.

Quello del caso Cucchi, anche lui con la sfortuna di essere un clandestino di pelle nera, per ora ha visto essergli riservato un programma di protezione speciale che lo sottraesse al pericolo di rimanere a Regina Coeli o di finire in un altro carcere. Troppo sconvolgente il caso di Stefano e troppo straziante per le famiglie italiane la pubblicazione di quelle foto per poter permettere che un altro testimone tacesse per infarto o per una corda al collo.

Proprio il caso Cucchi ha mostrato all’opinione pubblica, senza perifrasi e senza sconti, l’intreccio diabolico che ha visto uniti medici, giudici e poliziotti in un’alleanza di morte, di abusi e omissioni che hanno ucciso. In quel modo lì, che abbiamo visto su quel lettino d’obitorio. E forse proprio quella storia, aldilà del suo epilogo giudiziario, ha restituito all’attenzione delle Istituzioni dignità alla vita dei prigionieri. La pena, spiegava Cesare Beccaria, deve avere due funzioni: quella di garantire sicurezza alla società e quella, non meno importante, di correggere il detenuto.

Cosa è successo a distanza di secoli, alla nostra ormai matura democrazia costituzionale, se questo non interessa più nessuno? Se diventa normale morire in abbandono terapeutico, senza protezione quando si diventa testimoni di abusi e illegalità come il giovane Emeka, quando non è previsto riscatto o recupero, ma pochi metri quadri da dividere stipati come bestiame, in pasto di quei secondini kapo che non diventeranno forse mai imputati? Da questi soprattutto dovrebbe essere difesa la nostra società. Da quelli che hanno spaccato la schiena di Stefano Cucchi, da quelli che non l’hanno curato e da quelli che hanno chiuso gli occhi mentre un giovane di 32 anni moriva. Di infarto o di paura. O di scomoda testimonianza.


 


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