di Daniele Rovai

Le bugie sul Ponte sullo Stretto le ha iniziate a dire Matteoli, scrivendo una lettera aperta a La Nazione in risposta a chi chiedeva di spendere i soldi non per il Ponte ma per aiutare gli alluvionati del messinese. Nella lettera, pubblicata da quel giornale il 7 ottobre, il ministro spiega che “Il ponte sullo stretto è un’opera considerata una priorità dal governo” e che “verrà realizzata, per oltre 5 miliardi di euro facendo ricorso a capitali privati, attraverso il project financing”. Soldi, precisa il ministro, che non possono essere “dirottati altrove e nel caso specifico per mettere in scurezza i territori colpiti dall’alluvione di Messina”. A questi soldi dei privati, dice poi, si aggiungeranno “un miliardo e trecento milioni di euro di fondi pubblici, già stanziati dal Cipe, che serviranno per realizzare gli interventi propedeutici sulle coste siciliana e calabrese e posso assicurare che si tratta di opere stradali, ferroviarie e di consolidamento dell'assetto urbano”.

Secondo quanto scrive il CIPE nella delibera del 6 marzo 2009, che fa il punto sulle opere da realizzare da qui al 2014, il Ponte sullo stretto è ancora a livello di “progetto preliminare” per il quale si è calcolato un costo di 4.684,300 milioni; soldi che nè il CIPE, nè il governo, hanno ancora stanziato e che sono imputati alle “risorse private”. Per quanto riguarda i 1.300 milioni non si tratta di soldi che stanzierà il CIPE, ma di soldi che il governo ha dato “in conto impianti” direttamente alla società Stretto di Messina, grazie ad un articolo delle legge n. 133 del 6 agosto 2008. Soldi che non serviranno per costruire strade e ferrovie, come ha detto il ministro, ma per “rimuovere gli ostacoli frapposti al riavvio delle attività, anche mediante l'adeguamento dei contratti stipulati con il contraente generale e con la società affidataria dei servizi di controllo e verifica della progettazione definitiva, esecutiva e della realizzazione dell'opera, e la conseguente approvazione delle eventuali modifiche del piano economico-finanziario”.

Soldi che provengono da un fondo per le infrastrutture che doveva servire sopratutto alla “messa in sicurezza delle scuole” e alle “opere di risanamento ambientale”. Un fondo che a dicembre del 2008 è stato rifinanziato dal CIPE - delibera n. 10 del 18 dicembre 2008 - con ben 7.635 milioni di Euro, molti provenienti dai fondi FAS, gestiti interamente dal ministero delle Infrastrutture, dal quale non solo si sono prelevati i 1.300 milioni di Euro per far ripartire il progetto di un Ponte che il CIPE non ha ancora approvato, ma che è stato usato anche per la salvaguardia dei prezzi sul materiale per l’edilizia (1.900 milioni), per attuare la privatizzazione della Società Tirrenia di Navigazione spa (390 milioni), per rifinanziare il “Fondo per gli investimenti del Gruppo Ferrovie dello Stato” (960 milioni) e per il finanziamento dei nuovi contratti di servizio dello Stato e delle Regioni con Trenitalia s.p.a (1.440 milioni).
    
Le bugie sul ponte le ha poi continuate a dire il nostro Presidente del Consiglio, dichiarando, come riporta Il Giornale il 15 ottobre 2009, che “a dicembre e gennaio cominceremo un’altra infrastruttura, che è il Ponte sullo Stretto”. Poche ore e il ministro Matteoli lo segue a ruota, fornendo altri elementi: si tratta, lo riporta il quotidiano La Repubblica di quello stesso giorno, dei “primi lavori propedeutici alla realizzazione del manufatto che riguarderanno lo spostamento della linea ferroviaria di Cannitello nei pressi di Villa San Giovanni, in un'area dove sorgerà un pilone del Ponte”. Lavori che partiranno il 23 dicembre 2009.

L’opera alla quale si riferisce il Presidente del consiglio ed il ministro, lo scrive il CIPE nella delibera n. 10 del 6 marzo 2009, è relativa al potenziamento del “CORRIDOIO PLURIMODALE TIRRENICO - NORD EUROPA”: 10 cantieri per un valore di circa 10 miliardi di Euro dei quali fa parte, per un importo di 16 milioni di euro, la“variante alla linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria in località Cannitello”. Il progetto è stato approvato dal CIPE a marzo del 2006 e, come ha specificato il Centro Studi per l’Area dello Stretto “Fortunato Pellizzeri” a La Repubblica il 17 ottobre, quella variante è solo “la prima fase di un più ampio progetto di miglioramento ambientale per la costa calabrese, rientrante nell’interramento del tracciato ferroviario”. Quell’opera con il Ponte non c’entra nulla.
    
La conclusione di questa triste storia, e delle sue bugie, la lasciamo al ministro. Ecco cosa scrive Matteoli a conclusione della lettera aperta inviata a La Nazione e pubblicata il 7 ottobre: “Si ritiene che i fondi per il Ponte possano essere dirottati altrove e nel caso specifico per metetre in sicurezza I territori colpiti dall’alluvione di Messisna. Cosi non è […] il governo ha l’obbligo politico di mantenere gli impegni programmatici senza lasciarsi trascinare da polemiche strumentali e senza avvallare le richieste di chi utilizza una tragedia immane per bloccare una infrastruttura così necessaria. Cambiare idea non è sempre possibile e corretto, questa è un’occasione per il governo per andare avanti dimostrando razionalità e determinazione”. Per il ponte il CIPE non ha ancora deliberato fondi. Gli unici soldi per quel progetto li ha dati il governo prendendoli da un fondo che deve servire a finanziare anche le “opere di risanamento ambientale”. Categoria nella quale, a quanto pare, non rientrano i paesi alluvionati del messinese.
    

di Alessandro Iacuelli

Dopo lo scandalo sullo smaltimento di scorie nucleari nelle zone rurali del Paese, scoperto da France 3 con un recente documentario, in Francia scoppia l'ennesimo scandalo nucleare, che investe direttamente lo Stato e le istituzioni pubbliche preposte alla gestione della produzione energetica nucleare. Stavolta è stata la rete televisiva Artè a scoprire, con un documentario-inchiesta intitolato "Déchets: le cauchemar du nucléaire", dove vanno delle grosse quantità di scarti nucleari transalpini. L'inchiesta, ripresa dal quotidiano Libération, ha scoperto che la Francia ha stoccato in modo totalmente abusivo degli elevati quantitativi di scorie nucleari in Siberia.

L'inchiesta di Artè ha svelato che il 13% delle scorie radioattive francesi sarebbero attualmente stoccate nel complesso atomico russo di Tomsk-7, in Siberia e che ogni anno 108 tonnellate di uranio impoverito provenienti dalle centrali atomiche francesi verrebbero spedite in Russia e scaricate a cielo aperto. "Come e perché le scorie francesi sono arrivate in Siberia?", si chiedono gli autori del documentario, prima di seguire le scorie. I container vengono imbarcati a Le Havre, su navi che attraversano la Manica ed il Baltico, fino a San Pietroburgo, poi sono caricati a bordo di un treno che li porta fino al complesso atomico di Tomsk-7, in Siberia. In questo impianto l'uranio viene sottoposto ad un processo di arricchimento, appena il 10% dell'uranio trattato viene così recuperato, e rispedito in Francia dove viene reintrodotto nel processo di produzione di energia.

Il resto, il 90% del materiale che arriva in Siberia, non è riutilizzabile, diventa di proprietà dell'impresa nucleare russa Tenex e rimane stoccato a cielo aperto. Gli ecologisti russi e francesi di Greenpeace accusano il governo francese di abbandonare le proprie scorie radioattive in Russia, e di non essere capaci di gestire il plutonio, una materia molto pericolosa. Naturalmente questo risultato, portato alla luce e all'attenzione dell'opinione pubblica, pone delle serie questioni. Prima di tutto, come si legge su Libération: "La scarsa sicurezza del trasporto delle scorie per ottomila chilometri, la pericolosità dell'accumulo di questi materiali e la dubbia efficacia del trattamento a cui vengono sottoposti".

Fortissimo l'imbarazzo di Edf, un cui portavoce ha affermato che "I rifiuti radioattivi prodotti dal trattamento dei combustibili restano in Francia dove sono custoditi in depositi in tutta sicurezza". Nonostante questo tentativo "a caldo" di rassicurare, restano vive le immagini dell'inchiesta condotta da Eric Guéret e Laure Noualhat, che mostrano in maniera inequivocabile e dettagliata contenitori con combustibile nucleare usato stoccati accanto ad una ferrovia in Siberia senza nessuna precauzione. Direttamente sul terreno.

In Francia, alle rassicurazioni da parte dei vertici di Edf, soprattutto dopo le fughe radioattive di Tricastin, oramai non crede quasi più nessuno, ad iniziare dall'associazione ambientalista "Sortir du nucléaire", che dichiara: "Mentre il ministro dell'ecologia si accontenta di chiedere un'inchiesta,  con l'obiettivo evidente di guadagnare tempo perché l'affaire sparisca dall'attualità, la nostra associazione chiede il ritorno in Francia delle scorie radioattive francesi abbandonate da Edf in Russia". In effetti, il segretario di Stato all'ecologia francese, Chantale Jouanno, ha dichiarato di essere favorevole all'apertura di un'inchiesta interna dell'azienda energetica Electricité de France (Edf) sullo stoccaggio di scorie nucleari francesi in Siberia, pur senza "trarre conclusioni affrettate", quasi a mettere in dubbio la validità del lavoro di Artè, poi ha aggiunto: "A partire dal momento in ci sarà un dubbio, è normale che l'opinione pubblica sarà informata".

Si tratta certamente di una forte manifestazione di imbarazzo nell'affrontare questo nuovo pasticcio, che arriva dopo anni di incidenti, fughe radioattive, ritrovamenti di scorie sepolte in zone rurali della Francia stessa. Tutti eventi che minano e screditano quel nucleare che i francesi stessi hanno sempre definito "sicuro". Così com’é completamente ingiustificabile che l'industria nucleare francese si sbarazzi all'estero dei suoi rifiuti radioattivi. L'argomentazione ingannevole di Edf che pretende che non si tratti di scorie ma di "materiale valorizzabile", e quindi recuperabile e riciclabile, non può essere posta: si recupera il 10% del materiale, il resto rimane in Russia, e si tratta di rifiuti nucleari.

"Bisogna che la Francia nucleare si assuma le conseguenze delle sue attività e ne renda finalmente conto davanti all'opinione pubblica", continua il comunicato di "ortir du nucléaire", "I cittadini francesi devono in questa occasione prendere coscienza dell'accumulazione drammatica di diverse categorie di rifiuti e  residui radioattivi prodotti dall'industria nucleare e dell'assenza di soluzioni per queste scorie. Il rimpatrio in Francia delle scorie radioattive spedite in Russia obbligherà le autorità francesi a tentare di trovare un sito di stoccaggio, pur sapendo che è più difficile trovare un sito del genere in Francia che in fondo alla Siberia. Questo permetterà di ricordare che, malgrado le manovre indegne, lo Stato francese non riesce, da molti mesi, ad imporre la realizzazione di un sito di interramento delle scorie radioattive: i tentativi fatti nell'Aube all'inizio del 2009 sono stati respinti dalle popolazioni locali e dalle associazioni antinucleari".

Gli ambientalisti francesi fanno la lista di altre scorie che la Francia ha nascosto in altri Paesi come gli "sterili", vere montagne di residui dell'estrazione di uranio abbandonati a cielo aperto in Niger da Areva. La scoperta della discarica nucleare francese in Russia mette fortemente in dubbio quel che Edf ed Areva propagandano con una massiccia campagna sui media: "Il 96% delle scorie nucleari francesi sono riciclate", secondo alcuni quotidiani francesi, si tratta invece di una campagna di disinformazione che Edf dovrebbe addirittura rettificare.

A dimostrazione di questo, l'inchiesta di Artè arriva appena una settimana dopo l'incidente avvenuto nell'impianto in dismissione di Cadarache vicino Marsiglia, che produceva fino al 2003 carburante MOX, incidente valutato livello 2 dal Commissario per l’energia atomica: durante la dismissione sono stati registrati livelli di radioattività decisamente oltre la soglia consentita. Analizzando l'accaduto, è stato scoperto che nei depositi c'è molto più plutonio di quanto ne fosse stato dichiarato: 39 chili al posto di 8 chili.

Un errore pericolosissimo, poichè come ricorda l'ASN (Autorité de sûreté nucléaire): "Quando vi è una massa critica di materiale nucleare e vi sono determinate condizioni ambientali, si può innescare una reazione nucleare a catena. Di certo vi è che i margini di sicurezza a questo punto si sono abbassati", ma anche un errore grossolano e madornale, nella valutazione della quantità del materiale depositato. Un errore che un qualunque tecnico nucleare non dovrebbe mai commettere. Un errore di superficialità. Cosa che nel settore del nucleare nessuno può permettersi. L'impianto in questione, forniva carburante specialmente al mercato tedesco, era in attività dal 1961 e l'attività fu sospesa nel 2003 perché la zona si rivelò ad alto rischio sismico. Nel corso della pulizia e della dismissione di 450 contenitori di plutonio, il Commissario per energia atomica a potuto constatare che la quantità del materiale radioattivo era nettamente superiore a quello dichiarato.

Quanto accade in Francia, dove oramai l'intero sistema nucleare sta svelando i suoi scheletri nell'armadio, è l'ennesima dimostrazione del fatto che non esiste una soluzione sensata al problema delle scorie. Problema che nella nostra Italia viene addirittura affrontato con estrema superficialità, nel programma berlusconiano di rilancio del nucleare. Infatti da noi si preferisce annunciare, con la pomposità di uno spot elettorale, nuove centrali, ma mai si racconta come si prevede di smaltire i rifiuti radioattivi.

Eppure, in preda ad una follia collettiva da parte delle forze di governo italiane, mentre il resto del mondo ragiona sul come abbandonare la produzione per via atomica di energia elettrica, da noi da qualche anno si è tornati a parlare dell'energia nucleare addirittura come di "un'energia verde". Si racconta che la filiera nucleare è chiusa, che i materiali radioattivi sono riutilizzabili, che si ridurrebbe la dipendenza dal petrolio e si attenuerebbero le emissioni di anidride carbonica. Peccato che la realtà sia quasi all'opposto.

di Alberto Mazzoni

Gran parte del dibattito politico-ecologico ruota al momento attorno alla definizione di impatto “sostenibile” dell'attività umana sulla natura. Sul numero di Nature del 23 settembre 2009 un nutrito gruppo di scienziati da 27 istituzioni scientifiche diverse propone di ridefinire in senso dinamico la sostenibilità ambientale utilizzando il concetto di punto critico. Cos'è un punto critico? Una molla a riposo è un sistema in equilibrio: se viene compressa o estesa ritorna alla situazione di partenza. Ma ogni sistema può essere portato fuori dall'equilibrio se la perturbazioni sono sufficientemente forti: esiste sempre una lunghezza di estensione al di là della quale la molla si deforma permanentemente o si spezza. Il sistema raggiunge così una nuova configurazione. La lunghezza di estensione a partire dalla quale la molla non torna allo stato di partenza, l'intensità della perturbazione che non consente il recupero dell'equilibrio originario, è il punto critico.

La proposta degli autori è di definire come ecologicamente sostenibile solo una azione che non porta l'ambiente al di là del suo punto critico - in modo tale che sia possibile tornare all'equilibrio una volta che l'azione termina. Un’azione che porti l'ambiente oltre il punto critico causa danni irreversibili e non può quindi essere definita sostenibile.

Vengono individuati una serie di aspetti della condizione del pianeta che sono stati in equilibrio  grosso modo negli ultimi 10000 anni (periodo denominato Olocene) e che sono stati pesantemente perturbati negli ultimi 200 anni, ovverosia da quando, in seguito alla rivoluzione industriale, l'attività umana è diventata tra i principali agenti dei cambiamenti ambientali (Antropocene). 

Le perturbazioni analizzate sono: il cambiamento climatico (nel senso di effetto serra), l'acidificazione degli oceani, il buco nell'ozono, i cicli del fosforo e dell'azoto, le risorse di acqua dolce, l'intensità di utilizzo del territorio, la perdita di biodiversità, la quantità di aerosol nell'atmosfera, infine la quantità di sostanze non smaltibili nel terreno (dalle scorie radioattive alla plastica). Ognuna di queste perturbazioni è associata a un punto critico al di là del quale il sistema sarà troppo deformato per tornare al punto di equilibrio. L'articolo su Nature presenta una serie di ricerche scientifiche in cui si è valutato se queste perturbazioni hanno superato il punto critico o quanto esso sia lontano. Al momento tre limiti sono stati passati.

1) Riscaldamento climatico: gli autori propongono un punto critico tra le 350-550 parti per milione di diossido di carbonio nell'atmosfera. Siamo a 387. Alcuni processi irreversibili sono già stati innescati (come la diminuzione del ghiaccio estivo nell'Artico). Incredibilmente, nessuno si stupisce del fatto che l'obiettivo massimo del G20 di Copenaghen non sia di mantenere le temperature attuali, ma di limitare l'aumento a 2 gradi rispetto all'era pre-industriale. Il riscaldamento ormai ce lo teniamo. Per comprendere i danni che anche solo pochi gradi di riscaldamento medio causeranno per l'uomo è indispensabile la lettura dei chiarissimi report dell'International Panel on Climate Change, Nobel per la pace nel 2007, scaricabili da  www.ipcc.ch/publications_and_data/publications_and_data_reports.htm.

2) Darwin insegna che le specie si sono sempre estinte. A seconda del periodo il tasso di estinzione è variato tra lo 0.1 e l'1 specie per milione ogni anno. Gli autori stimano che un tasso di estinzione di 10 significhi perdere integralmente e irrimediabilmente svariati ecosistemi, rendendo quindi più fragili quelli che sopravvivono. Il tasso di estinzione attuale è superiore a 100.

3) Le quantità di azoto prelevato dall'atmosfera e di fosforo iniettato nel mare (quale conseguenza del ciclo dell'azoto in agricoltura) sono oltre 1000 volte superiori alla quantità dell'era pre-industriale. I fossili suggeriscono che la presenza eccessiva di fosforo negli oceani sia stata in passato responsabile per “large scale ocean anoxic events”: reazioni chimiche che hanno deossigenato l'oceano e causato estinzioni di massa di vita marina. Anche essendo disinteressati al destino dei pesci potremmo almeno pensare ai pescatori.

L'approccio dinamico degli autori consente da una parte di evitare il catastrofismo, poiché tiene conto dell’intrinseca robustezza della natura che è in grado di controbilanciare molti dei nostri interventi, dall'altra chiarisce che per diverse cause correlate - dal consumo di combustibili fossili al modello di agricoltura - la società attuale semplicemente non è sostenibile. Per quanto gli autori stessi ammettano che ulteriori studi siano necessari, dato che il metodo è nuovo, i risultati al momento sono netti.

A tale riguardo è doloroso vedere che sui media italiani vengono talora definite “controverse” delle verità scientifiche solidamente provate, cioè il riscaldamento in atto e il fatto che sia causato dall'attività umana. E' doloroso non solo perché la censura sul cambiamento climatico ricorda ormai quella vaticana sull'eliocentrismo, ma anche perché il vero dibattito cruciale al momento non è sull'esistenza di un’emergenza ambientale, ma su cosa fare a proposito. Questa sarà una delle scelte politiche chiave dei prossimi  dieci-venti anni, questa è la controversia in corso.

Nessuno scienziato ambientale sostiene che cambiamenti cosmetici siano sufficienti. La divisione è tra chi ritiene necessario un cambiamento di paradigma economico, introducendo forti elementi di regolazione ambientale del mercato (vedi Nature special issue del 30 aprile 2009) e chi ritiene che ci voglia “more of the same” e che quindi si debba inventare un nuovo settore del mercato volto a produrre tecnologie diffuse che riparino in tempo reale i danni prodotti, come ad esempio le tecniche di assorbimento del carbonio (vedi Science special issue 25 settembre 2009, o, più cauto, l'articolo del New Scientist tradotto da Internazionale sempre del 25 settembre). Il fatto che le riviste di scienza più importanti al mondo si combattano a colpi di numeri speciali indica da una parte la portata della battaglia, dall'altro che le sue sorti non sono ancora decise.

di Liliana Adamo

Disinvolta programmazione territoriale, condoni a pioggia a far cassa, concessioni edilizie discutibili elargite come scambi di favori o per ingrossare le entrate dei comuni. E poi urbanizzazione violenta con cui si continua a invadere l’integrità dei corsi d’acqua, mancata manutenzione ordinaria, pulizia dei canali, fiumi e tombini, fondi destinati alla tutela del territorio regolarmente convogliati altrove, incendi dolosi e conseguente devastazione del patrimonio boschivo; tutto questo significa rischio idro-geologico. Poi succede che il precario equilibrio giunge alla sua naturale saturazione, ecco che da rischio si passa al dissesto, alle frane, agli alluvioni.

Nel prolifico mainstream mediatico, tanto inarrestabile quanto caro ai nostri politici, spuntano regolarmente due locuzioni che, a parer loro, si integrano empaticamente per ammaliare il pubblico: al primo posto del marketing parolaio, i sinonimici di meritocrazia, al secondo si può incorniciare quell’argot connesso a una sola voce: prevenzione. Per ciò che spetta alla meritocrazia, croce e virtù di una collettività frantumata che si sforza di volersi palesare formalmente “perbene”, ma nei fatti si rivela ordinariamente furbetta e ipocrita, rimanderemo in una prossima occasione. Viste le circostanze, meglio attaccarsi al modello presunto, inerente alla difesa, alla protezione, vale a dire alla prevenzione così com’è cucita addosso all’intero assetto del nostro paese.

E se arriva l’acquazzone e la montagna scende a valle a sommergere in quintali di fango intere comunità, non bastano, allora, la commozione esibita, le lacrime e gli applausi rivolti alle bare (giusto a legittimare lo show e il dramma, il commiato e la parata dei funerali di Stato, dinanzi alle telecamere). Occorrerebbe, piuttosto, opporre un ragionamento chiaro e semplice: abbiamo in atto un brusco cambiamento climatico e, a dispetto delle controparti, che seguitano a supportare tesi di non veridicità e attendibilità, questo determina eccessi meteorologici concreti e inconfutabili. Ed è irritante l’affermazione sovente del mainstream: ci dovremo abituare. Quindi prendersi l'abitudine a eventi come quelli di Sarno, Giampilieri e Scaletta Zanclea; abituarsi a che? All’alluvione invece dell’ottobrata?

In questa condizione s’innesca una concomitanza ad altissimo rischio: il dissesto idrogeologico che persiste nonostante da Sarno in poi si sia protratto anche il vaniloquio e i cambiamenti climatici che si manifestano in quelle che il mainstream ha cominciato a sostenere come tempeste extra tropicali. Allo stato attuale delle cose, si attivino molto Bertolaso e Protezione Civile, perché da qui a trovare soluzioni passerà del tempo. Anche se, a salvare la vita agli abitanti di Giampilieri e Scaletta sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato semplicemente dare ascolto alle loro segnalazioni. Ad esempio, il 25 ottobre 2007. Una colata di fango invade il paese, nessuna vittima e dunque va bene così, tutto come prima.

L’11 dicembre 2008, ancora un allarme maltempo, l’unità di crisi della Prefettura allerta l’Esercito che si dà da fare con un’unità mobile del Genio Guastatori di Palermo. Il paese di Olivieri, a sud di Messina, resta completamente allagato, come tutte le vie d’accesso di Montalbano Elicona. Si continua imperterriti a costruire, senza regole, senza infrastrutture; due anni dopo, puntuale, il disastro.

Certo, WWF, Lega Ambiente, un gruppo di geologi, hanno segnalato e denunciato. Il deputato messinese del PD all’Assemblea Regionale Siciliana, Filippo Panarello, si era battuto per avviare una serie d’interventi proprio nel territorio di Giampilieri, alla fine si erano destinati dei fondi, modici, gestiti male e intempestivamente. In una rivendicazione sindacale dell’1 maggio 2003, sottoscritta da sessantadue operai forestali precari della Flaica-Cub di Messina, si contestò all’Amministrazione forestale, Assessorato Regionale Agricoltura e Foreste, agli altri organi di competenza, la mancata applicazione per normative di legge a tutela di un territorio sfigurato da scempi edilizi e abusi d’ogni genere. Si tracciava già un quadro preoccupante, originato dall’inefficienza dell’amministrazione regionale che della stessa classe politica, ritenuti unici responsabili di una gestione fallimentare del limitatissimo patrimonio boschivo, delle risorse umane, economiche, a scapito degli interessi della collettività.

Messina è una città a enorme rischio idrogeologico e sismico, che si sviluppa alle pendici dei monti Peloritani, a colpi di cemento e di sregolate opere urbanistiche. Le montagne sono geologicamente giovani, soggette quindi a frane e smottamenti, mentre tutte le vie perpendicolari fino al mare sono fiumare ricoperte e trasformate in asfalto. Il torrente Boccetta, il torrente Trapani, il torrente Annunziata sono cambiati in Viale Boccetta, Viale Trapani, Viale Annunziata. Tra queste strade sono sorti palazzi, interi quartieri per centinaia di migliaia di metri cubi e due scuole, una delle quali ha subito l’alluvione del 1996. Dove ancora non si è costruito, al posto dei torrenti, si vedono discariche a cielo aperto. Occupate da strade e cantieri, le aree d’impluvio hanno completamente sovvertito i pendii, rendendoli fragili per la costante erosione del terreno, gli incendi dolosi hanno fatto il resto, desertificando l’intero territorio.

Da marzo 2006 a luglio 2009, il WWF Italia ha identificato le aree della città e del suo comprensorio, tutte densamente popolate, più a rischio. Non basta: sempre dal WWF, nell’aprile  2009, sono partiti ben quattro esposti con richiesta di revoca immediata per lottizzazioni e progetti urbanistici già approvati. Gli esposti sono stati inviati all’amministrazione comunale, alle forze dell’ordine e, infine, alla magistratura. Due di queste denunce sono state inspiegabilmente insabbiate e archiviate.


 

di Alessandro Iacuelli

Il documentario mandato in onda dall'emittente televisiva d'oltralpe France 3 ha scosso un po' tutto il Paese transalpino. Anche perché i francesi stessi non se l'aspettavano: i rifiuti speciali pericolosi sono stati usati per realizzare stadi, strade e parcheggi. Ma il documentario televisivo è andato anche oltre, misurando e mostrando al pubblico un elevato livello di radioattività sia in molte zone rurali sia nelle aree urbane del Paese. L'inchiesta, firmata dai giornalisti Emmanuel Amara e Romain Icard, denuncia per la prima volta pubblicamente come le scorie pericolose siano state utilizzate per realizzare opere infrastrutturali, delle quali tra l'altro la Francia va fiera. Nel documentario vengono riprese alcune passate inchieste giornalistiche, vengono messi assieme i dati di circa 80 siti, soprattutto per quanto riguarda il massiccio utilizzo di materiali di scarto delle miniere di uranio per realizzare terrapieni, strade e parcheggi e quant'altro.

Praticamente, un vero e proprio smaltimento a costo zero di materiali e detriti, definiti "sterili" sulla relativa documentazione, ma ovviamente niente affatto innocui. I detriti cosiddetti "sterili" sono quelli a basso contenuto di uranio, scartati perché non utili all'industria nucleare, ma con l'accumulo in anni e anni di costruzioni, stanno procurando un danno sanitario che inizia ad assumere una notevole gravità.

In Francia esiste un unico laboratorio indipendente che si occupa di ricerca e informazione sulla radioattività, il CRIIRAD, che ha denunciato già da un paio di anni alle autorità e all'opinione pubblica l'esistenza di aree con una radioattività anche 60-100 volte superiore a quella naturale. Nel marzo del 2007, il CRIIRAD ha pubblicato un primo rapporto, nel quale si stimava un totale di circa 225.000 tonnellate di materiali di scarto dell'industria statale Cogema (Compagnia Generale delle materie radioattive), sotterrati nell'area dello stadio nella cittadina di Gueugnon, in Borgogna. La denuncia suscitò una grande sorpresa ed un altrettanto grande allarme tra gli abitanti.

L'inchiesta televisiva di Amara e Icard dimostra che di casi come questo ne esistono quasi un centinaio in tutta la Francia, con i cittadini rigorosamente all'oscuro. Ed è andata così per trent’anni. Trent’anni in cui un vero e proprio segreto di Stato ha coperto i gravi danni all'ambiente ed alla salute dei francesi. Gli unici a sapere, oltre i dirigenti statali, erano i lavoratori. Ha destato impressione, nel documentario, l'intervista a Jules Rameau, impiegato nell'officina di trattamento dell'uranio dal 1955 al 1980: "L'uranio", racconta l'uomo", arrivava in forma di pietre dalla cava e qui veniva frantumato. Successivamente, una macchina lo filtrava. Tutto ciò che era acqua e sabbia è stato portato qui. Vedete lo stadio? Il terrapieno è stato costruito con lo sterile".

A fare tutto questo sono stati in due: la CEA (Commissariato dell'energia atomica) e la Cogema, cioè due aziende statali. La Cogema da tre anni è diventata Areva, il principale operatore nucleare francese. I numeri sono preoccupanti: dal 1946 in poi, sul territorio francese sono state sfruttate circa 210 miniere di uranio per fornire materia prima alle centrali nucleari nazionali, ma anche alla fabbricazione di armi nucleari. Ancora una volta, il costo ambientale e sanitario viene pagato dagli abitanti dei 25 dipartimenti coinvolti. A partire dal 1999, ma qualcuno ipotizza anche prima, è stata tralasciata ogni forma di controllo sulle scorie radioattive prodotte nella filiera nucleare, per non parlare dei controlli sanitari sui minatori, gran parte dei quali sono già deceduti precocemente per malattie collegate all'estrazione e all'esposizione alla radioattività.

La denuncia che emerge dall'inchiesta di France 3 è che chi effettua i controlli dovrebbe essere invece il controllato. Ad oggi, le aziende statali francesi, prima di tutto l'Areva, non sembrano volersi assumere le responsabilità della situazione. Mentre alcune aree vengono misteriosamente recintate e ne viene proibito l’accesso, altre vengono lasciate disponibili alle popolazioni. Inoltre, non si parla di bonificare, ovviamente dove possibile, cioè solo in casi abbastanza rari, i siti più inquinati. La cosa che fa riflettere è che addirittura Areva nega la pericolosità di queste aree: o prende tempo, oppure scarica le responsabilità sull'amministrazione pubblica in merito alle decisioni di recintare le zone a rischio o informare i cittadini. Così come non prende atto, e questo è chiaramente dimostrato dalle domande dell'intervistatrice ad un portavoce della compagnia, di uno studio dell'Istituto di Radioprotezione e sicurezza nucleare (IRSN) che afferma come prolungate esposizioni a basse dosi di radioattività, possano creare nella popolazione problemi ai reni, di respirazione, di comportamento, di alimentazione e di riproduzione. Areva non intende rispondere né di questo né di altro.

Ad essere particolarmente in imbarazzo è certamente l'ASN, cioè l'Agenzia Nucleare di Stato, che è incaricata di fare i controlli su tutti gli aspetti del nucleare, compresi la protezione della popolazione e la loro informazione. Per il suo presidente, in carica da oltre 15 anni, non c'è alcun motivo di timore. E si tratta di un'Agenzia di Stato. Quel che emerge dal documentario shock mandato in onda, è che in tema di nucleare i pericoli nascono dall'assenza di trasparenza. E quando si tocca questo tema, il pensiero va all'Italia, dove ci si sta imbarcando in un'avventura nucleare con un atteggiamento da sprovveduti da parte dello Stato, e dove prima ancora della costruzione della filiera già è stato imposto il segreto di Stato sui siti.

Ancora sulla trasparenza, gli autori dell'inchiesta indagano su un altro tema importantissimo: in tutti questi anni, di questo modo di smaltire le sostanze radioattive, la politica francese sapeva? La conclusione può solo essere affermativa, visto che ben diciotto anni fa era stato realizzato un rapporto a cura del direttore del Consiglio per la Sicurezza delle Informazioni Nucleari, dove veniva evidenziato che il problema scorie era stato ampiamente sottovalutato, in particolare la nocività dei cosiddetti “discendenti dell'uranio”. Si parla quindi dei prodotti del decadimento dell'uranio, come torio e radio 226. Questo rapporto, e tutti quelli successivi, sono sempre stati accantonati e nascosti dai ministri di turno, indipendentemente dalla loro provenienza politica.

Il nucleare in Francia è stato trattato come una questione riservata alle alte sfere dello Stato, ma in cima non troviamo l'Eliseo o il Parlamento, ma sempre l'Areva. Cioè, l'industria nucleare è stata trattata politicamente come qualcosa che non può avere alcun ostacolo, un terreno sostanzialmente coperto dal segreto e dagli interessi statali e delle grandi aziende energetiche. In pratica, ad essere assente, è stata la responsabilità sociale di questo settore. Questo dovrebbe far riflettere non solo i francesi, ma anche noi italiani. Magari adesso, e non tra 15 o 20 anni, quando le centrali nucleari saranno già in produzione.

 

 

 

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy