di Liliana Adamo

Durante il Discorso della Montagna, nel sermone rivolto da Gesù ai discepoli si recita: "Voi siete il sale della terra…siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa…" Per circa quarant’anni il fotografo brasiliano, Sebastião Salgado, si è reso testimone di un aspetto profetico e “materico” del mondo: conflitti internazionali, carestie, sfruttamento, migrazioni, così come le polimorfie di grandiosi paesaggi naturali e la bellezza violata del pianeta, sembrano volerlo accompagnare nelle sue ultime opere fotografiche.

Il fim-documentario di Wim Wenders, regista, oltre che fotografo, si avvale la collaborazione del figlio di Salgado, Juliano Ribeiro, raccontando, con inquadrature in b/n di tale potenza visiva come raramente si è visto al cinema, gli inizi in America Latina fino agli orrori del Ruanda e oltre. E di tutta questa rappresentazione d’umanità e natura, c’è una frase emblematica che compendia alla perfezione la “cifra stilistica” dell’autore, “L’uomo è l’animale più crudele ma capace di elevarsi sopra se stesso…”.

Passando da Lo stato delle cose a Paris Texas, da Il Cielo sopra Berlino a quel capolavoro che è Buena Vista Social Club, Il Sale della Terra si annovera senza riserve tra i migliori film di Wim Wenders (per alcuni, addirittura il migliore), sicuramente, tra le opere cinematografiche più belle e complesse degli ultimi anni.

Come Salgado, anche Wenders accetta l’idea del viaggio fuori e dentro se stesso, tra l’immagine statica della foto e quella in successione della pellicola. La produzione del fotografo “sociale” è via via scandagliata, offerta agli occhi dello spettatore, il quale ne rimane sconvolto e al contempo inebriato (senza provare, tuttavia, le peculiari risposte emotive dinanzi a una proiezione, piangere, ridere, riflettere).

Per lui, con una carriera spianata in banca, che decide, di punto in bianco di seguire univocamente le orme del cuore e dell’azzardo, il viaggio si compie in cento diversi paesi, testimone di eterogenee culture, di problematiche sociali e aspetti inediti, documentando esodi di massa, genocidi, catastrofi ambientali, il dramma delle comunità minacciate (soprattutto gli indios dell’Amazzonia).

Un viaggio forgiato dalla terra e dalla luce (attraverso il diaframma, l’occhio della macchina fotografica e della macchina da presa), ma anche esito d’esperienza e conoscenza su tutto ciò che ha smosso il mondo alla fine del Novecento: Salgado si reca in Ruanda e scatta, fotogramma per fotogramma, l’orrore dei massacri; in Kuwait, a riprendere le esplosioni dei pozzi petroliferi, ma è nel suo ultimo lavoro, Genesis, testamento di amore e arte, che si rende omaggio alla Terra e alle sue creature. Quasi un atto di riconciliazione.

di Sara Michelucci

Trent’anni fa moriva il genio di Eduardo De Filippo e nei teatri italiani, in suo omaggio, torna uno degli spettacoli più divertenti, Sogno di una notte di mezza sbornia. Andato in scena al Secci di Terni, il 4 e 5 novembre, e pronto a sbarcare nel week end in Sardegna, al Teatro Stabile, il progetto portato in scena da Luca De Filippo ripropone l’opera scritta dal maestro napoletano nel 1936.

È la famiglia, ancora una volta, ad essere messa sotto i riflettori. Sono i rapporti tra i singoli componenti che De Filippo sceglie di raccontare, divisi tra sogni, vincite al lotto, superstizioni e credenze popolari. È una umanità dolente, che si aggrappa alla scaramanzia e alla fortuna per andare avanti. Che pone il denaro anche di fronte agli affetti, pur di ottenere un posto nel mondo.

I personaggi di De Filippo sopravvivono e solo in questo modo riescono ad affrontare un presente fatto di incertezza. Una riflessione sull’esistente, generata attraverso l’ironia, e orchestrata in modo beffardo e intelligente, pungente e raffinato. Il comico e il grottesco si combinano con la tradizione teatrale napoletana, offrendo uno spettacolo tragicomico, ma altamente riflessivo.

La storia è quella di Pasquale Grifone che condivide una vita grama con sua moglie e i suoi due figli. Una notte, però, riceve in sogno la visita di Dante Alighieri che gli dà i numeri per una quaterna secca. Ma la vincita rappresenterà anche il conto alla rovescia all’ora della sua morte. I numeri vengono estratti davvero e Pasquale vince 600 milioni.

Se la famiglia inizia a godere della nuova ricchezza, trasferendosi in una nuova casa e circondandosi di ogni lusso possibile, la felicità di Pasquale è offuscata dal dubbio che la predizione fosse giusta anche sulla data della sua dipartita.

A nulla valgono i tentativi di sua moglie Filomena, di suo figlio Arturo e di sua figlia Gina, volti a spazzar via quella che considerano una sciocca superstizione. Il giorno annunciato da Dante, però, la famiglia si veste a lutto: tutti, ormai, sono convinti che quelli sono gli ultimi momenti di vita del padre di famiglia. E forse ci sperano anche un po’. Si attende soltanto l’ora stabilita (le tredici) e, al suo scoccare, Pasquale, preso dal terrore, sviene ed è considerato morto.

Viene chiamato il medico, il quale si rende conto che l’uomo è vivo e vegeto. Preso dall'euforia, il capofamiglia invita il medico a pranzo per festeggiare lo scampato pericolo, ma in realtà alle tredici mancano ancora cinque minuti.

di Sara Michelucci

Il dramma della violenza sulle donne è reso sapientemente nell’opera firmata da Serena Dandini, Ferite a Morte. Il doppio registro, drammatico e ironico, scelto dalla regista per raccontare la morte subita dalle donne per mano dei loro uomini, fa si che ci si trovi di fronte a un’opera di grande valore, che porta lo spettatore di fronte a un dramma quotidiano. Il femminicidio lascia dunque lo spazio della mera cronaca e si “eleva” a tema affrontato sulla scena teatrale, ma in maniera diretta, sotto forma di racconto dall’aldilà.

Un’antologia di monologhi sulla falsariga della famosa Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, costruita con la collaborazione di Maura Misiti, ricercatrice del Cnr. I testi attingono alla cronaca e alle indagini giornalistiche per dare voce alle donne che hanno perso la vita per mano di un marito, un compagno, un amante o un familiare. Scarpe rosse e abiti neri per Lella Costa, Orsetta de’ Rossi, Giorgia Cardaci e Rita Pelusio che si alternano sulla scena e narrano la storia di differenti donne.

Un’occasione di riflessione, un tentativo di coinvolgere l’opinione pubblica, i media e le istituzioni. “Tutti i monologhi di Ferite a morte - spiega Serena Dandini - ci parlano dei delitti annunciati, degli omicidi di donne da parte degli uomini che avrebbero dovuto amarle e proteggerle. Non a caso i colpevoli sono spesso mariti, fidanzati o ex, una strage familiare che, con un’impressionante cadenza, continua tristemente a riempire le pagine della nostra cronaca quotidiana. Dietro le persiane chiuse delle case italiane si nasconde una sofferenza silenziosa e l’omicidio è solo la punta di un iceberg di un percorso di soprusi e dolore che risponde al nome di violenza domestica. Per questo pensiamo che non bisogna smettere di parlarne e cercare, anche attraverso il teatro, di sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica”.

Il teatro, quindi, diventa condivisione e denuncia, grido d’allarme verso una società che deve cambiare la sua base culturale, prima di tutto, per poter sopperire a tali atrocità. Ed è proprio questo il messaggio che viene lanciato dal palcoscenico. Gli omicidi, basati sul genere, si manifestano in forme diverse, ma ciò che accomuna tutte le donne del mondo è proprio l’uccisione a seguito di violenza pregressa subita nell’ambito di una relazione amorosa.

Sono delle morti annunciate e i numeri in Italia sono drammatici: muore di violenza maschile una donna ogni due o tre giorni. Ma non esiste, in realtà, un monitoraggio nazionale che metta insieme i dati delle varie associazioni. Una situazione che va guardata in faccia e su cui non può calare il silenzio.

di Silvia Mari

Il film di Mario Martone è un’immersione purissima e fedele nella biografia esistenziale e letteraria di Giacomo Leopardi. Con qualche incursione di modernità, forse un po’ forzata o soltanto inutile, e con un punto di vista interessante sulle inquietudini del giovanissimo poeta. Un bene e non un caso che si torni a ricordare Leopardi in un tempo storico cosi travagliato, come quello che attraversa l’Italia, proprio come allora.

Quando il paese cercava la sua unità, tentava di superare il giogo dei vari sovrani e serpeggiavano idee fresche e liberali, quando la coercizione di un papa imperatore soffocava la filosofia e l’arte.

In questo fermento e conflitto il giovane poeta di Recanati sfidava tutti per ingegno e per assenza di paura e pur nelle sue condizioni fisiche precarie portava con sé la forza di una novità incontenibile. Forse è un po’ questa la metafora che ricorre e che può restituire piena attualità all’opera di questo giovane che non fu mai soltanto del proprio tempo.

L’Italia piegata dalla crisi ha bisogno di ritrovare il suo passato, non quello sepolto e superato, ma quello che non è mai estinto e che è ancora gloria vivissima, ben al di fuori dei confini nazionali.

Ricordare Leopardi oggi è pensare al presente dell’Italia. Il suo genio e la sensibilità estrema asfissiati dalla morsa di Recanati, la sterminata biblioteca, la malattia e poi la morte della Musa Silvia dei Grandi Idilli:, tutto è riportato in un ritratto perfetto. Formidabile Elio Germano, piegato e ritorto in un fisico sofferente e provato che Leopardi trascinava nel suo viaggio per l’Italia, rivendicando nei salotti letterari e agli intellettuali del tempo la dignità filosofica e psicologica del suo male di vivere, senza scorciatoie legate alla sua condizione.

Un’anticipazione miracolosa dello spleen e delle grandi inquietudini dell’uomo del Novecento. Ateismo, materialismo, attaccamento forsennato all’esistenza, pur in una spietata filosofia del dolore cosmologico, emergono con forza nella scena dell’Italia attraversata da rinnovamento e ansie di restaurazione, restituendo a Leopardi un’originalità fuori dal tempo, dirompente. Non c’è la militanza politica che il Giordani prova ad instillare nel giovane Giacomo, ma non c’è nemmeno la compostezza e la sobrietà di Manzoni. Leopardi è oltre.

Il suo pensiero e la sua poetica non possono che creare disordine e scompiglio. Un tormento interiore vivissimo che non può andare d’accordo con le regole rigide del Conte Monaldo, tutto sovrano e Dio, e della ieratica madre Adelaide. Eppure non c’è militanza in alcun partito o corrente o appartenenza fissa ai salotti della letteratura. Perché nulla è abbastanza per contenere la visione del mondo di Leopardi.

Anche per questo, nel film, risulta un po’ stucchevole la colonna sonora melodica e moderna che accompagna la sua disperazione dopo il rifiuto della donna desiderata, Fanny. Per questo è troppo didascalica l’esplicita lettura psicologica che trasforma la natura delle Operette Morali in una grande statua di sabbia che ha il volto di Adelaide Antici. Come a voler spiegare per bene che tutto il dolore esistenziale provenisse dal mancato rapporto affettivo con la figura materna.

“Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” scriverà Montale un secolo dopo nella devastazione di una storia che non ha riferimenti e di una filosofia che non ha più sistemi.

Leopardi precorre tutto questo mente traduce l’Odissea all’impronta, scrive i suoi versi e annota le sue osservazioni matematiche in una sintesi tra passato e futuro unica e irripetibile. In cui manca con un silenzio assordante il presente. Quello che sfugge al telaio di Silvia. Che serve appena a rubare l’infinito dietro alla siepe. Quello che ai tempi del colera porterà Leopardi a finire in una fossa comune, lasciando vuoto il sepolcro che lo commemora ancora nella città di Napoli. Come accade solo agli immortali.


di Emanuela Pessina

Berlino. Berlino, la città “povera ma sexi” per eccellenza - così come l’ha definita l’attuale sindaco Klaus Wowereit - non poteva che riservare un posto d’onore a Pier Paolo Pasolini, l’artista e intellettuale italiano che ha raccontato il fascino delle periferie più povere della Roma degli anni sessanta. E così, dopo la rassegna dedicata a David Bowie, ora il Martin Gropius Bau di Berlino ospita “Pasolini Roma”, una mostra interamente dedicata agli anni romani dell’intellettuale friulano.

“Pasolini Roma” racconta il rapporto intimo e imprescindibile che si sviluppa tra Pier Paolo Pasolini e la capitale italiana, divenuta sua città adottiva dai ventisette anni in poi. Eletta a teatro di molti dei suoi film e protagonista dei suoi migliori romanzi, Roma assume un ruolo cruciale soprattutto nell’evoluzione personale di Pasolini.

L’intellettuale sbarca a Roma dopo essere stato allontanato, a causa della sua omosessualità, dall’insegnamento e dal Partito Comunista locale a Casarsa della Delizia, in Friuli, il paese dove viveva,. La “voce pubblica” di Casarsa lo accusa di adescamento di giovani e lo costringe ad andarsene: la dea Fama è offesa e per Pasolini e famiglia non vi è più nulla da fare in un paese che conta oggi poco più di novemila anime.

Perché è proprio a Roma che Pasolini si riconosce finalmente come intellettuale a tutto tondo, accettando con coscienza la propria sorte di - come dice lui stesso - “poeta maledetto”. Negli anni ’50 Roma è una città piena di stimoli filosofici e letterari ed è culturalmente più aperta delle campagne del nord Italia. Gli anni romani per Pasolini significano letteratura, cinema e politica, così come periferie preindustriali, cultura di borgata e sessualità finalmente manifesta.

“Pasolini Roma” si apre con l’immagine di un treno che va, parte da Casarsa e arriva alla stazione Termini. Dai finestrini si vedono le foto del passato che Pasolini si lascia alle spalle: l’infanzia, i poeti con cui ha studiato la lingua friulana, i ragazzi cui insegnava e con cui giocava a calcio, la famiglia, il fratello Guido, morto con i partigiani a soli venti anni. Con un solo cortometraggio la rassegna risolve il passato friulano di Pasolini e introduce l’esperienza romana dell’intellettuale.

Ed è proprio qui, nella capitale, che si comincia a delineare l’elemento distintivo del Pasolini intellettuale, la sovrapposizione imprescindibile tra vita e arte: perché l’autobiografia, per Pasolini, non esiste se non come rappresentazione propria, e quindi interpretazione, di sé stesso, e la sua critica alla società non ha ragione d’essere senza i fatti che hanno caratterizzato la sua esistenza.

“Pasolini Roma” vuole mettere in risalto proprio il margine di sovrapposizione tra vita e arte dell’artista e lo fa attraverso le categorie di spazio e tempo che la città di Roma offre. La mostra si compone di sei sezioni cronologiche, comincia con l’arrivo di Pasolini a Roma nel 1950 e finisce con il raccontare la sua morte, avvenuta il 2 novembre 1975.

Ogni sezione è introdotta da immagini di Roma su uno schermo gigante e qualche frase in sovraimpressione che riassume il periodo che ci si accinge a raccontare dell’artista. Per il resto, le stanze sono coperte da scritti di Pasolini e immagini di suoi film, commentate dall’autore stesso. Ne esce un’autobiografia completa, raccontata dai commenti dell’autore stesso. Poi mappe, pannelli con stralci dei suoi film, fotografie.

I curatori della mostra definiscono Roma “la storia d’amore più importante di Pasolini”. Di sicuro la città è il frammento di vita che Pasolini sceglie per analizzare l’esistenza e la società, è il campione da scomporre ed esaminare. Al centro dell’arte di Pasolini ci sono le periferie romane, costruite dai fascisti, ci spiega l’artista, perché intese a essere “campi di concentramento per i poveri”. Pasolini ci vive mentre scrive i suoi primi romanzi e ne fa parte davvero, ci tiene a sottolinearlo. I suoi libri e i suoi film raccontano le periferie romane con lo stesso linguaggio delle borgate. Un vocabolario romanesco italiano introduce la prima stazione cronologica della rassegna.

Con la sua arte Pasolini ha affrontato tematiche primitive quali destino dell’individuo, vita contadina e borgate, religione e anticlericalismo, sessualità e morte, utilizzando sempre linguaggi che vanno al di fuori della consuetudine, immagini di una lucidità estrema. Ed è così che San Pietro diventa l’emblema di quella “religiosità senza colore, piatta, grigia, parrocchiale, uno dei prodotti più sconfortanti della stupidità”.

Con i suoi limiti di “città preindustriale”, Roma è tuttavia il posto in cui Pasolini “trova meglio di altrove il suo modo di vivere ambiguamente”, dove riesce a salvare “eros e onestà” e dove “l’omosessualità diventa un altro dentro di lui” con cui può tuttavia convivere.

Il sesso e la violenza, del resto, sono al centro delle sue opere e sono sempre bersaglio della critica dei moralisti e dei benpensanti e della censura. Un’intera parete delle sale del Martin Gropius è dedicata all’inchiostro consumato dalla stampa per raccontare i processi e le censure a carico delle sue opere, da Ragazzi di vita a Orgia, così come gli scandali nati dalla presentazione delle stesse.

Ma è proprio con le sue vicende personali che Pasolini da forza alla propria visione intellettuale, diventando così il più grande provocatore della società italiana cattolica e medio borghese, e una delle principali icone postmoderne. L’ultima stazione della mostra ricorda la morte di Pasolini solo attraverso il discorso funebre di Alberto Moravia.

I dubbi e le ipotesi sull’omicidio sono citati velocemente da un pannello fuori dalle sale della mostra, in una sorta di rispetto silenzioso. “La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne un male mortale”, scriveva Pasolini nel 1963 per Marilyn Monroe in una poesia indimenticabile. Piace pensare che per lui il male mortale sia stata l’intelligenza, non si vuole forse maltrattare ulteriormente il suo corpo.



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