di Agnese Licata

Di sorprese, alle elezioni politiche che la Spagna affronterà domenica prossima, non ne prevede praticamente nessuno. La vittoria di José Luis Rodríguez Zapatero e del “suo” Partito socialista appare scontata, guadagnata in quei quattro anni di riforme sociali ed economiche che hanno portato la Spagna a fare enormi passi avanti non solo per diritti civili, ma anche per tutele sociali e crescita economica. Difficile immaginare che dalle urne possa uscire un risultato inatteso quanto quello che nel 2004, tre giorni dopo l’attentato di Madrid, decretò la sconfitta del premier uscente José María Aznar. Anche il duello televisivo di lunedì scorso – l’ultimo della campagna elettorale – e i sondaggi successivi non hanno fatto altro che confermare la distanza tra Zapatero e lo sfidante del Partido popular, Mariano Rajoy. Un dubbio però c’è, ed è rappresentato dal margine di vantaggio che gli elettori spagnoli sceglieranno di assegnare ai socialisti. Percentuale che i vari sondaggi faticano a prevedere in modo unanime: 5, 10, addirittura 20 per cento.

di Giuseppe Zaccagni

Si annunciano tempi duri per Sarajevo. Perché dall’Europa di Bruxelles arrivano, firmate dal commissario all’Allargamento Olli Rehn, forti sollecitazioni per accelerare l’ “Accordo di stabilizzazione e associazione” (Asa) con l’Ue e per decidere, di conseguenza, se prolungare o meno il mandato dell'Alto rappresentante speciale, lo slovacco Miroslav Lajcak (che ha la facoltà di legiferare o destituire funzionari pubblici). Ma sulla Bosnia-Erzegovina soffia anche il vento della rivolta che arriva da Pristina. E c’è il pericolo che l’effetto domino si faccia sentire da queste parti. E tutto questo senza tener conto che la questione bosniaca è stata vista dall’occidente sempre e solo come un problema di unità militari da sciogliere ed eliminare. Si è così data pochissima importanza alle pesanti differenze culturali e religiose reputate insignificanti. Tanto da permettere tranquilli anni di lavoro ad intere equipe di agitatori e missionari di vario stampo. E di conseguenza si è arrivati, a poco a poco, all’apparizione di nuove forme di gestione politica cariche di conseguenze sempre più gravi per l’identità e la stabilità nazionale.

di Michele Paris

Con il 54% delle preferenze conquistate in Ohio, a fronte del 44% di Obama, e il 51% nelle primarie del Texas, contro il 47% del Senatore dell’Illinois, Hillary Rodham Clinton ha messo a segno martedì due vittorie fondamentali per la sua permanenza nella corsa alla nomination democratica per le presidenziali di novembre. Oltre ai due Stati più importanti di questa tornata elettorale, l’ex First Lady ha prevalso anche nel Rhode Island (58% a 40%), mentre Barack Obama ha avuto la meglio solo nel Vermont (60% a 38%) e nei caucuses del Texas (52% a 48%) che assegnavano un terzo dei delegati in palio in questo Stato. Messa con le spalle al muro dopo il mancato sfondamento del Supermartedì e, soprattutto, dopo le 11 vittorie consecutive ottenute dal Senatore afro-americano durante il mese di febbraio, grazie ad una campagna elettorale contrassegnata da una crescente aggressività verso il suo avversario nelle ultime settimane, Hillary ha saputo ricompattare il proprio schieramento centrando l’obiettivo minimo necessario per prolungare il testa a testa con Obama. Se i successi in Ohio, Texas e Rhode Island potrebbero segnare una brusca interruzione del “momentum” fino ad ora favorevole ad Obama, per la Senatrice di New York la rimonta nella somma dei delegati conquistati rimane però piuttosto complicata.

di mazzetta

La recente visita in Africa della coppia presidenziale francese, Nicolas Sarkozy e la di lui sposa Carla Bruni, ha dato luogo ad una sequela infinita di foto ad uso propagandistico pari al silenzio tombale sulle responsabilità dell’Eliseo nello scenario africano. Si tenta infatti di risollevare la ormai drasticamente calante popolarità del nano-presidente in patria, con le sue escursioni all’estero, omettendo, ovviamente, il senso e i contenuti delle sue visite. Ma nel caso della sua visita in Ciad, con il suo annesso fotografico, sono state molte le occasioni perse simultaneamente dal mainstream, che ha toppato clamorosamente anche sul fronte del gossip. Perché per una volta, non avrebbe dovuto essere tanto la legale (non proprio regale) coppia presidenziale francese, l’oggetto delle attenzioni, quanto piuttosto quella illegale (e non certo regale) ciadiana. In fondo la figura dell'ottuagenario Deby è degna di Novella 2000 nel suo lato rosa. Dopo una vita spesa in eccessi di ogni tipo l'anziano presidente, (che è un noto alcolizzato, facile all'ira, agli eccessi e alla passione) ha anche uno scheletro rosa nell'armadio: la signora Deby, è in realtà la sua segretaria personale.

di Fabrizio Casari

Rottura delle relazioni diplomatiche, invio di battaglioni armati di tutto punto e tanks alle rispettive zone di frontiera con la Colombia, accuse di servilismo, assassinio, menzogne e violazioni d’integrità territoriali ad Alvaro Uribe, il maggiordomo degli Stati Uniti in America latina. Il presidente del Venezuela Hugo Chavez e quello dell’Ecuador, Rafael Correa, hanno reagito nel modo più duro all’assassinio di Raul Reyes, portavoce delle Farc colombiane, ad opera delle truppe speciali dell’esercito di Bogotà. L’assassinio di Reyes e di altri guerriglieri è avvenuto in pieno territorio ecuadoregno, attraverso un attacco aereo al quale ha fatto seguito l’irruzione dei corpi speciali di Uribe che hanno finito a freddo con decine di proiettili i membri delle Farc. Nessuna resistenza da parte dei guerriglieri, colpiti in piena notte. Le truppe speciali di Uribe erano penetrate per diversi chilometri in territorio ecuadoregno, in flagrante violazione dello spazio territoriale di Quito. La cosa, ovviamente, non poteva rimanere sotto silenzio. Il presidente colombiano pensava forse che con una telefonata al suo collega ecuadoriano Correa, avrebbe avuto modo di risolvere rapidamente la questione, ma così non è stato. La reazione è stata durissima.


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