di Carlo Benedetti

C’è sempre spazio nella bandiera americana. Tra poco arriverà la stella n.51 e sarà quella del Kosovo. E’ chiaro, infatti, che l’obiettivo della Casa Bianca, del Pentagono e della Cia consiste nell’accelerare il processo di disgregazione della (ex) Yugoslavia per favorire la costituzione di un Kosovo “indipendente” e, in prospettiva, di una “Grande Albania”. Tutto questo per imporre una pratica politica ed economica capace di trasformare radicalmente i Balcani in un “territorio americano”. Ed ecco oggi - dopo il voto di Pristina del 17 novembre scorso - un nuovo appuntamento per il futuro del Kosovo. E’ quello del 10 dicembre quando nell’arena geopolitica si dovrà decidere lo status della provincia. Inizierà in quel momento il vero e pericoloso conto alla rovescia. Ma già si sa che il governo di Belgrado si muoverà per impedire l’indipendenza del suo territorio che i serbi definiscono come Kosovo-Metohija.

di Daniele John Angrisani

Della vittoria elettorale, più o meno lecita, del partito di Vladimir Putin alle elezioni della Duma, si è detto di tutto e di più in questi giorni. Ma, a prescindere dalle parole, un dato è certo: la popolarità di Putin, sebbene spinta alle stelle dalla massiccia propaganda a suo favore da parte della televisione (completamente controllata dal Cremlino), è genuina e radicata nel popolo russo, che lo vede come colui che ha permesso alla Russia di riprendere il proprio posto nel mondo dopo le umiliazioni degli Anni Novanta e la profonda crisi economica del periodo post-sovietico. In questi ultimi anni, infatti, grazie sia alla stabilità politica garantita dal regime Putin, sia dagli enormi afflussi di denaro a causa dell'aumento siderale del prezzo del petrolio e del gas, principali prodotti di esportazione dell'economia del Paese ex sovietico, i cittadini russi hanno potuto sperimentare sulla propria pelle un benessere mai ottenuto prima. Le città russe, in particolar modo Mosca e San Pietroburgo, hanno visto un proliferare di negozi di lusso e di ricchezza sempre più diffusa, che ha permesso, tra le altre cose, la nascita di un embrione di classe media che potrebbe essere molto importante per il futuro del Paese.

di Giuseppe Zaccagni

Il Dalai Lama (al secolo Tenzin Gyatso, anni 72, quattordicesimo capo assoluto del buddismo tibetano, chiamato dai suoi fedeli "Santo Signore", "Gloria Gentile", "Difensore della Fede", "Oceano di Saggezza") è a Milano. E’ arrivato da Delhi e il suo programma (in compagnia dell’amica Laura Gancia e del capo del Tibet Bureau Kelsang Gyaltsen) prevede varie tappe italiane. L’obiettivo di questa sua nuova incursione - a partire da quel 1959, quando rifiutò di collaborare con il governo di Pechino - è sempre lo stesso: una lotta decisa contro la Repubblica Popolare Cinese nel nome dell’indipendenza del Tibet. Una posizione, questa, che caratterizza il suo esilio in India dove ha praticamente formato un governo ombra che sviluppa, oltre ad una missione religiosa sul piano mondiale, anche un ruolo politico e diplomatico. Tenzin Gyatso arriva quindi nel nostro Paese con un obiettivo ben preciso che non può che suscitare reazioni di prudente scetticismo: porre all’attenzione del mondo occidentale la questione del rapporto tra Pechino e Lhasa, capitale tibetana della regione “ribelle”.

di Eugenio Roscini Vitali

Secondo una denuncia pubblicata nei giorni scorsi da Amnesty International, il sistema giudiziario ugandese ignora, nega o cerca di mettere a tacere, le violenze che vengono perpetrate contro donne e ragazze che vivono nel nord del Paese, proteggendo addirittura le persone sospettate di questo disumano e vergognoso crimine. Le accuse mosse dall’organizzazione umanitaria includono stupri, aggressioni fisiche e abusi sessuali sui minori e sono documentate con la testimonianza delle stesse vittime che raccontano i casi di violenza di cui sono state vittime. Per documentare il rapporto, lo scorso agosto Amnesty International ha visitato cinque distretti del nord: Gulu, Amuru, Kitgum, Pader e Lira. Qui, i ricercatori hanno riscontrato la quasi totale assenza delle strutture dello Stato, lo scarso numero di distretti di polizia, il basso livello di preparazione delle forze di sicurezza e l’insensibilità riservata ad argomenti quali i diritti umani e le traumatiche vicende di violenze sessuali.

di Luca Mazzucato

Il summit di Annapolis non sembra aver avuto il minimo effetto sulla politica israeliana, né sull'opinione pubblica della maggioranza ebraica della popolazione. Il commento più diffuso è di bonaria condiscendenza verso Bush: l'alleato americano ha chiesto a Olmert di prestarsi ad un piccolo spettacolo mediatico e sarebbe stato scortese rifiutare. Una volta chiuso il sipario, si torna alla normalità dell'Occupazione. Questo il sentimento prevalente, insieme ad un incremento di popolarità per Olmert, che sembra tornato ad un gradimento in doppia cifra per la prima volta dalla guerra in Libano. Finita Annapolis, Olmert si è affrettato a congelare le aspettative dei pacifisti, mentre l'unica novità viene dal Labor Party, che propone una compensazione per i coloni che abbandonino volontariamente la West Bank. L'antefatto accade venerdì scorso, dopo la conclusione della conferenza-lampo, quando gli Stati Uniti presentano una risoluzione al Consiglio di Sicurezza, per ufficializzare l'accordo raggiunto tra Olmert e Abbas, che prevede un calendario di incontri tra i due leader. Ma il governo israeliano, venuto a conoscenza della risoluzione, obbliga Bush a ritirarla immediatamente: nonostante fosse del tutto innocua nel merito, Israele vuole evitare in ogni modo che l'ONU intervenga in questioni che considera “interne”: è noto il pregiudizio pro-palestinese del Consiglio di Sicurezza...


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