di Fabrizio Casari

Quello di domenica non è un voto facile, per niente. Soprattutto per chi da sempre si è considerato di sinistra, a sinistra. Una certa pulsione a sottrarsi ha contaminato anche chi a votare è sempre andato, fortemente motivato o più o meno convinto. Per protesta, disillusione, anche noia, sono in molti che hanno pensato all’astensione, come atto di cittadinanza solitaria se non come urlo. Ma in queste ultime ore gli indecisi si assottigliano, si avverte un cambiamento che più che essere determinato dai programmi o dalle dichiarazioni dei leader dei partiti, è piuttosto il frutto dell’elaborazione personale di ognuno, della capacità individuale di analizzare la situazione del nostro Paese, di una soggettività politica che comunque rimane, anche fuori dalla frequentazione dei partiti. L’astensionismo dunque non è la risposta, ma allora per chi votare?

di Paolo Dimalio

Il primo aprile scorso il governo Prodi ha varato un decreto legge destinato a recepire tutte le sentenze della Corte di Giustizia europea. Dal pacchetto, però, resta fuori la pronuncia del 31 gennaio 2008, che boccia senza appello le leggi italiane sulla televisione. Il motivo? Dal 1999 Rete 4 va in onda senza concessione. Mentre Europa7, che una concessione ce l’ha, è ferma al palo, visto che il Biscione ha fatto il pieno di frequenze. Se la sentenza sulla tv è l’unica a non essere accolta, spiega Emma Bonino, è “perché non aveva carattere di urgenza”. Giusto. Non c’è fretta. Sono solo 31 anni che le leggi in materia televisiva violano la costituzione. Esattamente dal luglio 1976, quando la Consulta cassa il monopolio Rai, spalancando ai privati le porte della tv privata. Con una raccomandazione ai partiti: subito una legge per scongiurare il monopolio privato dell’etere. Democristiani e socialisti invece la prendono comoda. Il pentapartito impiegherà 14 anni per sfornare una legge (la Mammì) che verrà bocciata dalla Consulta.

di Michele Paris

Tra i rari articoli dedicati nelle ultime settimane dai giornali americani alla scoraggiante campagna elettorale nel nostro paese, spicca quello proposto qualche giorno fa dal New York Times a firma Rachel Donadio, dedicato all’ultima crociata dell’ex sessantottino, ex comunista, ex socialista, ex ministro berlusconiano, nonché presunto ex confidente della CIA ed ora adepto neo-con Giuliano Ferrara, per il diritto alla vita. Ben lontano dall’incoronare il direttore de Il Foglio come una delle voci più originali della scena politica italiana, come qualche quotidiano del nostro paese ha scritto (La Stampa), il profilo delineato dall’autorevole testata newyorchese, pur sottolineando le relative diversità delle posizioni sostenute da Ferrara rispetto ai due principali candidati premier, sembra piuttosto farne il simbolo del degrado di una politica ormai diventata “incomprensibile” e “assurda” per quanti la osservano da fuori, e non solo.

di Sara Nicoli

Lo si considera ancora, erroneamente, uno dei poteri “forti” di questo Paese. Una struttura solida, politicamente e socialmente motivata, in grado di far rispettare quelle regole di fondo nel mondo del lavoro di cui le innumerevoli caste italiane tendono a dimenticarsi con estrema facilità. A discapito dei lavoratori. Il sindacato, insomma, fino a ieri era ancora capace di raccogliere, sotto una stessa bandiera di lotta, quel numero sufficiente di iscritti per ribaltare il tavolo di una trattativa in favore dei lavoratori. O, quantomeno, a rendere sopportabili le ferite di una cassa integrazione inevitabile per il solo fatto di essere elemento aggregante; insieme ai compagni, al sindacato, nella lotta per il bene comune. Oggi, nel riposizionarsi continuo delle stratificazioni sociali, il sindacato (inteso come entità sociale e politica, non come sigla o unione di sigle) si trova a distanze siderali dai lavoratori e dalle loro esigenze primarie. E’ un corpo a sé, distante e scollato dalla realtà.

di Fabrizio Casari

Si può declinare in molti modi la paura, ma tale resta. Non può essere trasformata in prudenza o in accorta strategia, nemmeno con la potentissima batteria mediatica a disposizione: paura è, paura resta. Ed è la paura di perdere quella che attanaglia Berlusconi che fugge, letteralmente fugge, dal confronto televisivo con Walter Veltroni, il principale - non unico - avversario di questa competizione elettorale. Di Veltroni, Berlusconi ha paura. Perché dal 1994 ad oggi, per la prima volta, il cavaliere della destra ha di fronte un personaggio che, quale che sia il giudizio politico che su di lui si vuole avere, è uomo di grande capacità comunicativa. Conosce l’arte della persuasione e le tecniche della comunicazione politica, sa tenere bene il contraddittorio e non ripete formule ideologiche; rappresenta, nel bene e nel male, la novità politica che rende la compagine di destra il “già visto” che in molti, peraltro, si augurano di non dover rivedere. E l’aria che si respira, da qualche giorno, pare indicare una possibile sorpresa per tutti coloro che ritenevano il risultato già scontato a favore di Berlusconi. Un confronto televisivo che indicasse Veltroni più credibile, accellererebbe definitivamente la concreta realizzabilità di questo scenario.


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