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di Tania Careddu
D'inquinamento ne produce meno di tutti ma è quella più danneggiata: la metà più povera della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone, che vivono nei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, è responsabile solo del 10 per cento a livello globale del consumo che provoca le emissioni di carbonio. Attribuibili, per il 50 per cento invece, al 10 per cento che vive nell’emisfero ricco del pianeta.
Che, con i propri modelli di consumo (climalteranti), è responsabile del 64 per cento delle emissioni globali di gas serra, insieme al 36 per cento derivanti dai modelli di consumo e di investimento, tipo le infrastrutture, dei governi e dal trasporto internazionale.
Comunità rurali, gruppi marginalizzati per l’etnia e donne, i soggetti più esposti ai rischi legati al surriscaldamento globale. Perché tendono a essere più dipendenti da attività economiche influenzabili dalle condizioni climatiche, vedi l’agricoltura pluviale o la raccolta di acqua per uso domestico, e hanno pochissime possibilità di uscire dai periodi di crisi o di aumentare la produttività a causa di un minore accesso alla terra, alla formazione e al capitale.
Poco preparati anche ad affrontarli. Per esempio: se negli Stati Uniti, il 91 per cento degli agricoltori ha stipulato un’assicurazione a copertura delle perdite per eventi climatici estremi, in India lo ha fatto solo il 15 per cento degli agricoltori, in Cina il 10 per cento e in Malawi poco meno dell’1 per cento.
La stragrande maggioranza di quel ricco 10 per cento di cui sopra vive nei Paesi OCSE, le cui emissioni associate a modelli di consumo sono ancora nettamente superiori a quelle dei cittadini dei Paesi emergenti del G20. E sebbene la densità di popolazione di questi ultimi - Cina, India, Brasile e Sud Africa - contribuisca al totale delle emissioni globali, gli stili di consumo del 10 per cento dei loro abitanti ricchi è ancora notevolmente inferiore rispetto alla controparte dei Paesi per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
E sarà certamente vero che i più abbienti siano gli artefici dei mali del mondo, ma la colpa reale dell’inquinamento del pianeta è imputabile ai potenti: le multinazionali dei combustibili fossili (dietro a marchi famosi si cela un club di miliardari del carbone, come spiega Oxfam, che ha curato il rapporto Disuguaglianza climatica).
Lobby vere e proprie, che dichiarano di spendere per attività di lobbysmo sui governi, a livello europeo, circa quarantaquattro milioni di euro all’anno, cercando così di condizionare l’operato verso una regolamentazione che sia il meno stringente possibile. Lo scopo è ottenere sussidi e agevolazioni fiscali di gran lunga più consistenti e vantaggiose rispetto a quelle destinate al settore delle energie rinnovabili.
E così la lista Forbes, nel 2015, si arricchisce di ottantotto miliardari con interessi connessi ai combustibili fossili. Talmente potenti che nemmeno l’accordo di Parigi è riuscito a scongiurare l’impatto dei cambiamenti climatici sui paesi più poveri: oltre a non aver stanziato risorse finanziarie sufficienti per l’adattamento al cambiamento climatico, esclude la possibilità di individuare responsabilità dirette e non contempla nessun riferimento esplicito ai diritti umani. La guerra dei ricchi contro i poveri.
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di Liliana Adamo
E’ auspicabile che i risultati prodotti dalla Conferenza sul Clima (COP21) in questi giorni a Parigi, siano direttamente proporzionali alla portata “storica” del summit, cancellando, di fatto, lo scomodo “souvenir” di Copenaghen 2009. Al cospetto di 190 Paesi rappresentati, 147 fra premier e capi di Stato, sarebbe d’obbligo tirare fuori quell’esito (plausibile), da molti invocato, nonostante la “Conference of the Parties”, scossa dagli atti terroristici dello scorso novembre, si svolga in una città in lutto, trincerata dietro misure di sicurezza senza precedenti.
Il vertice organizzato dall'Onu ha un obiettivo: limitare l'escalation delle emissioni CO2 nell’atmosfera terrestre e gli effetti che ne conseguono, tali da incombere (e non eufemisticamente), sulla longevità della specie umana e sullo stesso concetto d’evoluzione. Questi, in primis, includono fattori antropici, ambientali, economici. Proprio dalle Nazioni Unite si rende ufficiale lo “status di rifugiato ambientale” stimando nel 2050, 250 milioni di eco-profughi, costretti a fuggire - letteralmente - dai propri paesi non più vivibili per problemi legati al clima.
Nel suo Quinto Rapporto di Valutazione - The Physical Science Basis - il gruppo Intergovernativo IPCC, ha fornito una versione sul trend dei cambiamenti climatici: “Il riscaldamento del clima terrestre si aggrava in gran parte per colpa dell’uomo. La temperatura della terra aumenterà da 0,3 a 4,8 gradi centigradi, entro il 2100. I primi dieci anni del nostro secolo sono stati i più caldi dal 1850…”. Un incremento di tale portata significa che dalla terra, dal letto dei fiumi, dai ghiacci e dal mare, dalle estinzioni delle specie animali, in sostanza, dall’intero regno della natura, si registrerebbe un collasso imminente. In pratica, è il cambiamento climatico, il migliore alleato nella minaccia al terrore globale.
Per finire, resta il fattore economico: le perdite indicano una fenomenologia in evoluzione determinata dalle cosiddette “calamità naturali”. Indicativa è la linea d’orientamento che riguarda il numero d’eventi distruttivi e della loro composizione.
Si passa dai circa venti episodi nel 1980 (tutti riconducibili a tempeste tropicali), ai cento dell’ultimo triennio, con una ripartizione pressoché omogenea fra tempeste e altri eventi climatici, fomentati da alte temperature, siccità, incendi. Negli ultimi anni si è registrata un’impennata di passivo, dovuta a un’incredibile frequenza d’uragani, seguiti da un elevatissimo numero di vittime e danni.Paralizzato dallo scontro ideologico fra superpotenze, da una parte Stati Uniti, Cina, India, dall’altra e l’Europa (come spesso accade), a far da spettatrice sulla battaglia dei veti, qualcosa è cambiato dall’onta di quel summit siglato nel dicembre 2009 a Copenaghen? Probabilmente sì, da più parti e nella coscienza civile, si è accettato che i cambiamenti climatici rappresentino la scacchiera su cui si gioca la stessa sopravvivenza del genere umano.
Basta con l’espressione rituale del “salviamo il pianeta” e decantate buone intenzioni (cui è lastricato l’inferno), il pianeta non ha bisogno di noi, né del nostro antropocentrismo. L’equilibrio degli ecosistemi perdura in perfetto stato di conservazione se le condizioni ambientali restano costanti, cioè, qualora elementi come temperature, salinità, esposizione ai raggi solari, rientrassero in parametri conformi.
Semmai verrà alterato soltanto uno di questi fattori (come la temperatura media annua che continua ad aumentare), l’intero biosistema intraprenderà un nuovo percorso evolutivo verso altri status. L’estinzione (accelerata) delle specie, il depauperamento delle biodiversità, produrranno nuovi equilibri in cui l’unica specie a non adattarsi, a scomparire per sempre, sarà quella umana.
Lo staff della politica mondiale riunito a Parigi, è assolutamente consapevole di dover mettere in campo scelte precise, politiche, economiche, sociali, a contenere un declino che, di fatto, si considererebbe irreversibile. Le risorse ambientali sono allo stremo, i cambiamenti climatici sollecitano una crisi in atto già nell’era pre-industriale.
Per evitare il peggio (un ennesimo fallimento), le delegazioni hanno consegnato nelle mani di Laurent Fabius (ministro degli Esteri francese e presidente della CPO21), la bozza di un accordo. Sui punti nevralgici il testo è ancora incompleto, le principali opzioni sono incluse nelle famose “parentesi quadre”: in termini diplomatici, vale a dire che non ci sono intese certe, né conferme.Indugiano caute le interpretazioni delle varie associazioni ambientaliste, come Greenpeace e WWF; ma se vogliamo dirla tutta, secondo una generica stima di un’ONG francese, facente capo all’ecologista Nicolas Hulot, la stesura del documento conta ben 1.400 “parentesi quadre” che spianano la strada a un difficile iter di 250 disparate opzioni.
Esempio: scrivere “trasformazione a basso tasso d’emissioni” non ricalca il concetto tout court a ciò che s’intende come “piena de carbonizzazione” estesa alle economie globali. Tuttavia, i giorni di confronto si susseguono, così il lavoro sul protocollo e si riterrebbe dall’oggi al domani, che i “bracket” si accorcino, come pure le opzioni. Staremo a vedere.
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di Tania Careddu
La Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, all'articolo 24 riconosce “il diritto all’istruzione delle persone con disabilità (...) senza discriminazioni e su base di pari opportunità”, garantendo “un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, finalizzati: al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima e al rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana; allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità, dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino alle loro massime potenzialità; a porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente a una società libera”.
Princìi recepiti dal sistema scolastico italiano, che attua il ‘sistema di inclusione’ degli alunni con disabilità con la una politica di massima integrazione. Diverso é l’agire di altri paesi europei, quali Germania e Paesi Bassi che, invece, utilizzano un ‘sistema con distinzione’, che prevede due sistemi separati, nei quali gli alunni disabili vengono inseriti in classi speciali, avendo scarsi o nulli rapporti con l’ambiente ‘nomale’).
Perché, secondo quanto si legge nel Preambolo della succitata Convenzione, “la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazione e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società sulla base dell’uguaglianza con gli altri”.
In Italia non accade. L’Italia ha una (vera) buona scuola. Gli alunni con disabilità, fra i banchi delle scuole del Belpaese, sono sempre più numerosi e pari al 2,7 per cento del numero complessivo degli studenti frequentanti. E quelli stranieri sono in maggioranza. Quasi il 96 per cento ha disabilità psicofisiche - intellettive e motorie - e il 27 per cento altri tipi di disabilità quali problemi psichici precoci o disturbi specifici dell’apprendimento (gli ultramenzionati DSA, che disturbano centottantaseimila bambini), disabilità uditiva o visiva.
Frequentano principalmente la scuola primaria e secondaria di secondo grado, con una distribuzione regionale molto variabile: le regioni dell’Italia centrale presentano la percentuale più elevata di bambini ‘speciali’ sul totale degli alunni e quelle del Nord Est, la più bassa; Lazio e Abruzzo, quelle con la più alta concentrazione di certificazioni di disabilità; Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Trentino, quelle dove si contano più alunni stranieri disabili ma dove esiste anche una maggiore scolarizzazione degli stessi.E il sistema scolastico italiano, secondo quanto riportato nel documento biennale redatto dal MIUR, ‘L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità’, è preparato: il rapporto tra numero di docenti per il sostegno e quello complessivo è in crescita.
Più consistente nel Meridione e nelle Isole, la presenza degli insegnanti di sostegno, con il fondamentale compito di coordinare la rete delle attività previste per l’effettivo raggiungimento dell’integrazione degli alunni con disabilità, è salita dell’81,9 per cento, con un incremento del 6,4 per cento nell’ultimo anno. Per non svuotare la scuola, del suo senso pedagogico, culturale e sociale.
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di Rosa Ana De Santis
Il 2015 si chiude di solito alla vigilia del brindisi con il ricordo dei nomi noti che ci hanno lasciato. Divi del palcoscenico e della tv. E’ canonico l’album dei ricordi dei vip sulle prime pagine. Quest’anno si unirà la triste conta delle vittime del terrorismo cadute nei confini d’Europa. Senza dubbio andrà cosi. Ma proviamo a contare l’anno da altri numeri che di “famoso” e di noto non hanno proprio nulla e che pure raccontano di un’ecatombe silenziosa.
Il 2015 è un anno di morti soprattutto anonimi. Nomi che se abbiamo sentito per sbaglio da un telegiornale, non ricorderemo mai. Sono cresciuti questi morti, vertiginosamente, nelle acque del mare. Quello delle vacanze predilette al Sud. Quello delle coste mozzafiato. Da quando Mare Nostrum si è trasformato in Triton le persone muoiono come mosche. A fornire i dati l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e le infografiche dell’Organizzazione internazionale dei Migranti.
Sono ad oggi 893.970 le persone venute dal mare verso l’Europa nel solo anno 2015. Di queste, 3.600 sono i morti e i dispersi nelle acque del Mediterraneo, 627 nel Mar Egeo, 2.889 nel Mediterraneo, 85 ad un passo dalle coste della Spagna. Un resoconto mondiale parla di ben 5.014 persone morte di migrazione e la maggior parte di queste ha perso la vita in mezzo al Mare Nostrum.
Una stima che rischia di essere al “ribasso” facendo riferimento a quel poco di documentabile che c’è nell’esodo di queste persone. Di poche ore fa la cronaca di altri due naufragi nelle acque dell’Egeo. Dei 27 migranti morti, 17 erano bambini. E veniamo a loro.
Nel 2015 le fonti dicono che più di 700 bambini sono morti nel viaggio in mare. Non a caso definita da Monsignor Perego, direttore della Fondazione Migrantes, una “strage silenziosa”, perché di essa si occupano i media e i parlamenti rivendicando l’agonismo politico del migliore accordo, ma nessun serio e profondo moto di dolore per queste vite perdute perché, semplicemente, non appartengono a nessuno.
E’ la cittadinanza che da corpo al dolore pubblico. Pensiamo alle vittime di Parigi. Senza questo status si perde visibilità, corporeità persino e le morti diventano leggere. Impalpabili. Torna attuale il pensiero di Hannah Arendt sulla cittadinanza, sulla privazione esistenziale dell’essere apolidi, in questo caso per necessità e costrizione.
Diventa chiaro perché di questi morti rimangono solo croci tutte in fila a Lampedusa. Sembrano le brutte copie delle sepolture dei caduti in guerra. Tutte uguali, ma di legno e senza eleganza. Non ci sono uniformi alla memoria, ma ciabatte, scarpe galleggianti lungo la riva, coperte e stracci.
Secondo le analisi della Fondazione Migrantes i morti del 2015 hanno raddoppiato le stime del 2014. Questo conferma che l’esodo è in crescita e inarrestabile e soprattutto che sono rimaste al loro posto le ragioni di questa disperata fuga. La Libia in prima battuta. Dimenticata dalla politica estera dell’Occidente all’improvviso e ormai fucina di partenze continue in mano ai criminali.Fu criticata Nilufer Demi quando catturò il corpicino senza vita di Aylan, il bambino siriano di tre anni rimasto ucciso dal naufragio del suo barcone e ripescato da un militare sulle coste di Bodrum. Faceva impressione quella foto. Quel piccolo morto nelle braccia del suo soccorritore che fino a un secondo prima di avvicinarsi pregava affinché quel bimbetto fosse ancora vivo. Si è iniziato a parlare di rispetto, di pudore, di tutela dell’infanzia. Tutto questo davanti ad un bambino ucciso per niente.
E’ invece quella la foto che manca sul cimitero degli anonimi. Molti dei quali ancora sott’acqua insieme ai pesci. E’ l’epitaffio atteso. Ed e’ la foto di quest’anno, che racconta ciò che è stato e forse anche ciò che non faranno per impedire che succeda ancora.
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di Liliana Adamo
Sea Shepherd, la più accreditata (e agguerrita) associazione ambientalista su scala mondiale ha un suo leader per la sezione italiana: si chiama Andrea Morello, trentanove anni, vicentino, artefice di “Operazione Siracusa”. E’ lui che, nel 2012, insieme al capitano Peter Hammarstedt, inaugura a Venezia, la prima imbarcazione devoluta a SSI, una vela di sette metri. Sulle coste siciliane, durante l’ormeggio della M/Y Steve Irwin, ammiraglia della flotta di Sea Shepherd, c’è un secondo incontro “fatale” con la famiglia Maiorca, da qui scaturisce la prima Campagna italiana d’azione diretta del Plemmirio.
L’obiettivo è proteggere il delicato e straordinario ecosistema dall’azione dei bracconieri. Con un programma di tutela ambientale complesso quanto necessario, si arriva a una visione che punta alla difesa del Mediterraneo e degli Oceani, delle risorse naturali, della biodiversità.
Come sta la Riserva siciliana del Plemmirio?
Il Plemmirio è classificato come Area Specialmente Protetta di Interesse Mediterraneo (ASPIM), denominazione assegnata ai siti d’importanza per la conservazione della biodiversità nel Mediterraneo, e come Area Marina di Reperimento, ovvero zona la cui conservazione attraverso le aree protette è considerata in modo prioritario.
Si suddivide in tre Zone, con livelli differenti di protezione dell'ecosistema marino: dalla Zona A, più restrittiva, alla Zona C più “permissiva”. La Zona A è a protezione integrale (no pesca, ancoraggio d’imbarcazioni, né immersioni), mentre la pesca subacquea, in bombole o apnea è vietata in tutte e tre le zone.
Alla mia prima visita, insieme a Patrizia Maiorca, la maestosità dei palazzi e dei templi dell'Ortigia si mescolava alle cattedrali subacquee abitate da moltissime specie marine, in un tratto di mare ricco di biodiversità. La situazione però celava una terribile realtà: alcune specie erano vittime di bracconieri, sebbene questa ricchezza vada custodita per la nostra stessa sopravvivenza. Il bracconaggio ha luogo la notte o all’alba, quando è più difficile la sua individuazione ed è condotto con gommoni che trasportano sommozzatori armati di fucili subacquei e da pescherecci che utilizzano reti.
Obiettivo della prima campagna italiana di Sea Shepherd, Operazione Siracusa, è proteggere l’ecosistema dal bracconaggio in collaborazione con l'AMP e le autorità, e i risultati concreti si vedono in immersione quando si possono ammirare molte più cernie rispetto al recente passato, saraghi, tanute, corvine e magnose, prima quasi scomparse. La quantità di vita dimostra anche un comportamento naturale di curiosità verso i subacquei sportivi, di non diffidenza.
Proprio la passione degli abitanti di Siracusa e dei volontari di Sea Shepherd porterà l'azione diretta in difesa della vita in ogni Cattedrale del Blu, consentendo alle cernie del Plemmirio d’offrirci l'emozione d’uguaglianza nell'incontro tra le specie. Dalla battigia, nei momenti in cui il mare non si protegge da solo con onde e correnti, i volontari rimuovono plastica e rifiuti. Ciò rende concreto anche il nostro impegno a livello globale, per ripulire i milioni di tonnellate di plastica che ogni anno produciamo e gettiamo negli Oceani.
Nel fenomeno della tropicalizzazione del Mediterraneo, con l’invasione di specie non autoctone causa surriscaldamento globale, considera irreversibile il degrado per la biodiversità dei nostri mari?
Gli ecosistemi subiscono nel tempo una continua evoluzione verso uno stato di equilibrio (con specie ben stabilite, con numero costante d’individui per ogni specie, con interazioni precise tra le varie specie). Questo stato di equilibrio ideale non è statico, bensì dinamico, e una specie può essere sostituita dall’altra con caratteristiche simili e compatibili. L'ecosistema evolve allo stato d’equilibrio se le condizioni dell'ambiente (temperatura, salinità, insolazione, ecc.) restano costanti. Ma se un fattore ambientale cambia (come la temperatura media annua che aumenta), l'ecosistema può intraprendere una strada evolutiva verso un nuovo stato d’equilibrio.Non è colpa della tropicalizzazione se gli stock ittici sono in calo vertiginoso, se i cetacei e gli squali sono drasticamente diminuiti rispetto a 200 anni fa! La presenza di squali nel Mare Nostrum si è ridotta del 97%, raggiungendo in pratica “livelli funzionalmente estinti” con conseguenze su tutto il Mediterraneo che, privo di predatori al top della catena alimentare, entra in corto circuito verso un nuovo equilibrio, non più adatto alla nostra specie.
Il degrado della biodiversità nei nostri mari è stato causato dallo sfruttamento indiscriminato e incontrollato negli anni. Sembrerebbe paradossale, ma per il Pianeta Mare la presenza dell'uomo non è indispensabile. In realtà, saremo noi a doverci salvare, a rendere irreversibile il processo d’acidificazione degli Oceani e il riscaldamento globale. L'estinzione delle specie porterà a un nuovo equilibrio per il Pianeta Mare ma in quanto alla specie umana, l'estinzione sarà per sempre.
C’è una cultura ambientalista, in Italia?
In Italia c'è una straordinaria cultura ambientalista ma anche una diffusa ignoranza riguardante le tematiche di difesa dell'ambiente. Sea Shepherd in Italia è nata nel 2010 con l'arrivo nel porto di La Spezia della nostra nave Madre: la M/Y Steve Irwin e in questi anni ho conosciuto centinaia d’italiani pronti a rischiare la propria incolumità per salvare anche una sola Balena.
La cultura ambientalista è la spinta verso azioni appropriate per capire l'ambiente dove viviamo: il nostro paese comprende 7.458 km di coste e mare. Proteggerlo e amarlo è la grande sfida per il nostro futuro e vi garantisco che sempre più italiani uniti a molte altre nazioni, sviluppano giorno per giorno una consapevolezza ambientalista legata alla sopravvivenza di tutte le specie della Terra. L'ambientalismo inizia da noi stessi, cresce nell'ambiente in cui viviamo, si propaga come evoluzione nelle specie interdipendenti.
Al momento, come si evolve la situazione giudiziaria per gli attivisti arrestati durante le grind, sulle isole Fær Øer?
Tra il 20 luglio e il 12 agosto sono stati arrestati 14 volontari di Sea Shepherd, impegnati nella campagna Operazione Sleppid Grindini in difesa dei globicefali minacciati da una barbara tradizione denominata grind. I volontari, tentando di proteggere i globicefali durante le grind, sia a terra che in mare, sono stati fermati dalla polizia danese, arrestati e accusati di aver violato la legge faroese che regola la caccia ai globicefali (Faroese Islands Pilot Whaling Act). Il tribunale danese delle Isole Fær Øer li ha condannati al pagamento di sanzioni pecuniarie o, in alternativa, al carcere da una a due settimane. Subito dopo è scattata l’espulsione senza attendere i tempi per valutare gli appelli alla sentenza. Tra gli arrestati c’erano Marianna Baldo, volontaria off-shore e Alice Rusconi Bodin, del Team di terra.
Sea Shepherd non pagherà le sanzioni amministrative, non riconoscendo legittimità delle accuse mosse nei confronti dell’Organizzazione e dei suoi volontari. Il Team legale di Sea Shepherd ha rilevato anche parziali violazioni dei diritti umani dei volontari italiani sulla base della Convenzione Europea sui Diritti umani. L'anno prossimo e in quelli a venire torneremo nelle isole feringe fino a quando il massacro non cesserà.
Perché il governo danese, pur rappresentando un paese europeo, non conviene al rispetto di norme che vietano la caccia ai cetacei? Quali gli interessi, tali da non sconfessare questa presunta “tradizione”? La Danimarca è uno stato membro della UE, soggetto a leggi che vietano la caccia e l’uccisione dei cetacei.
Ciononostante, invia la propria Marina a supporto della polizia feringia, durante uno sterminio di massa su globicefali, intrappolati e inermi. Se si può parlare di un dato positivo, è che, nei confronti dello stato danese, ora abbiamo prove tangibili nel coinvolgimento diretto al massacro intorno alle isole Fær Øer.
Sea Shepherd presenterà queste prove all'attenzione del Parlamento Europeo, esigendo provvedimenti contro la Danimarca, corresponsabile di un’azione palesemente illegale. Nessun membro dell'UE può essere coinvolto in attività d’uccisione dei cetacei e, anche se le Fær Øer non sono annesse alla Comunità Europea, di fatto riscuotono consistenti sussidi tramite la Danimarca. Formalmente, i feringi sono esenti da questa norma, ma non lo è la Danimarca e ora abbiamo prove inconfutabili che Marina militare e polizia danesi sono coinvolte. Il marcio nelle Fær Øer è altresì il marcio della Danimarca.
Ma perché questo massacro?
I tentativi di giustificazione da parte dei feringi sulla necessità d’uccidere i Globicefali sono falsi. Hanno bisogno di cibo? Nessun faroese ha bisogno della carne di Globicefalo per nutrirsi, visti gli alti standard di vita nelle isole e la presenza d’ogni genere alimentare nei supermercati.
E’ una tradizione? Il popolo faroese l’ha abbandonata nel momento stesso in cui ha abbracciato i benefici della tecnologia e della globalizzazione. Non c'è nulla di tradizionale nell'uccidere migliaia di globicefali intelligenti, socialmente complessi, che provano sentimenti. In passato, secondo la tradizione, queste creature del mare erano uccise per necessità di un equilibrio terribile, oggi, è un inutile divertimento d’emozioni deviate.
Sea Shepherd ha mostrato agli occhi del mondo l'atrocità che si commette intorno a quelle isole. Non pretendiamo di convincerli a non uccidere, esigiamo invece, che Europa, Asia, Africa, America non permettano questo massacro.
Nella somma delle esperienze in Sea Shepherd, le va di raccontarci di una sua soddisfazione e di una frustrazione?
Nonostante le lotte e gli sforzi comuni, è una grande frustrazione quando non riusciamo a salvare la vita a coloro che noi chiamiamo, “nostri clienti”: ai Delfini di Taiji, le Balene in Antartica, gli Squali nel Parco Marino delle Galapagos, i Globicefali alle isole Fær Øer e ogni altra forma di vita nei nostri Oceani. Nondimeno, la mia frustrazione è svanita quando (a 12 anni, appena), sono andato a denunciare l'uccisione illegale delle Balene, in una trasmissione di una radio locale.
E' completamente scomparsa il giorno in cui ho deciso d’agire attivamente in un processo di cambiamento affianco a Sea Shepherd Italia e all’equipaggio della “Flotta di Nettuno”, ottenendo la vittoria per le balene, presso la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia.
La quale, il 31 marzo 2014, ha vincolato la propria decisione sul caso Australia contro Giappone, decretando che JARPA II, vale a dire, il Programma di caccia alle balene in Antartide perpetrata dal Giappone, non è a scopo di ricerca scientifica ma mera baleneria commerciale mascherata, e notificando, quindi, che tutti i permessi rilasciati al Programma JARPA II, fossero revocati dopo 25 anni.
Qualora il Giappone tornasse in Antartide per uccidere, noi saremo lì ad aspettarlo e fermarlo. La frustrazione di quando ero bambino, rimarrà un vago ricordo come per le Balene, l'arpione insanguinato dell'industria umana di un passato frustrante.
Si ringraziano Cristina Giusti e Sea Shepherd Italia