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di Tania Careddu
“Persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti dell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio Paese o oltrepassando i confini nazionali”. Definizione dell’Organismo Internazionale per le Migrazioni, per indicare i cosiddetti profughi climatici. Sempre più numerosi.
Solo nel 2014, secondo quanto si legge nel Rapporto sulla protezione internazionale 2015, stilato da Migrantes, sono stati ventidue milioni e quattrocento mila. Tre volte i profughi di guerra. Di pari passo con l’aumento del numero dei disastri ambientali: da vent’anni a questa parte, è raddoppiato, passando da circa duecento a oltre quattrocento. Scappano, soprattutto, dall’Asia, in particolare dalle Filippine, dalla Cina, dall’India, dall’Indonesia, e dagli Stati Uniti.
La difficoltà di accogliere i rifugiati di guerra è arcinota ma si aggrava nel caso dei profughi ambientali. Giacché, a livello normativo, sia in ambito internazionale sia in quello nazionale, non esiste una definizione univoca. L’OIM ne individua tre: coloro che migrano temporaneamente a causa di un disastro ambientale come tsunami, terremoto, uragano; quelli costretti a partire a causa del deterioramento delle condizioni ambientali, quali deforestazione o salinizzazione delle acque dolci; chi sceglie di migrare in risposta a problemi che si vanno intensificando, ovvero in conseguenza, per esempio, della diminuzione della produttività agricola causata dalla desertificazione.
Il Parlamento europeo, invece, ne riconosce due, per tenere distinte le forme legate ad eventi improvvisi e quelle permanenti, dovute a catastrofi di lunga durata, ritenendo necessari interventi di protezione diversi. Per cui, il diritto di rifugiati climatici a una protezione internazionale rischia di non essere (sempre e chiaramente) riconosciuto: appare complicato determinare il nesso di causalità esistente tra il cambiamento climatico e le migrazioni.
Perché? Per l’ottusità di pensare che la mobilità geografica rappresenti solo una delle possibili strategie di adattamento. O perché, secondo quanto si ritrova nel Manuale sulle procedure e i criteri per la determinazione dello status di rifugiati, redatto dall’UNHCR nel 1992, il nesso tra fuga e persecuzione è giustificato solo dall’incapacità dello Stato di intervenire a tutelare o garantire un ambiente dignitoso nel quale poter vivere.Eppure, sebbene molte evidenze empiriche porterebbero a favorire il riconoscimento della categoria dei rifugiati per ragioni ambientali, la messa a punto di una struttura normativa di riferimento stenta a decollare. Se ne trova traccia (embrionale) nell’ordinamento degli Usa, di Svezia e di Finlandia.
Nel nostro, all’articolo 20 del Testo unico sull’immigrazione, è presente una disposizione. Titolo: Misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali. Da applicarsi in occasione di “conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione europea”. Nonostante il riferimento sia esplicito, la protezione di questa tipologia di rifugiati è discutibile sul piano della solidità e della ripetitività delle procedure.
Ci piace pensare che il vuoto legislativo sia da attribuirsi alla relativa novità del problema e alla sua sostanzialità. Troppo ampia e articolata per essere ristretta dentro un quadro giuridico esistente.
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di Tania Careddu
Nel 2008, all’epoca della Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, erano millecinquecento. Al 31 marzo 2015, data di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, erano seicentottantanove. A oggi sono duecentoventisei i pazienti ricoverati negli OPG, dei quali il 60 per cento circa sarebbe dimissibile dal punto di vista clinico, quindi affidabile immediatamente a strutture territoriali di novero psichiatrico diverse dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Nelle quali, invece, risiedono quattrocentotre persone in cura psichiatrica.
Gestite dai Dipartimenti di salute mentale, le REMS, che hanno il duplice scopo di garantire le misure di sicurezza per i pazienti e l’attivazione di percorsi terapeutici riabilitativi, sono sedici.
Ma la loro recettività, secondo quanto si legge nell’ultima audizione al Senato per l’acquisizione di elementi informativi in merito all’attuazione della normativa per il superamento degli OPG, è alquanto carente. Sia per la tardiva implementazione del dettato normativo da parte di alcune regioni, sia, allo scopo di evitare spostamenti massivi per evitare effetti deleteri sui pazienti, per la modalità graduale e prudente, attuata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della traduzione dei pazienti dagli ospedali psichiatrici alle residenze.
Vuoi perché la mancanza di un’adeguata rete territoriale di strutture non rende agevole il rispetto delle disposizioni legislative, soprattutto quelle relative al principio di territorialità - ossia, privilegiando REMS ubicate nelle zone in cui ogni paziente ha le sue radici - che agevolerebbe il percorso terapeutico e la definitiva dimissione. Vuoi per il limite di venti posti in ogni singola residenza che, va da sé, porta a una rapida saturazione dei letti disponibili.
Eppure, si potrebbe ipotizzare anche per le REMS, la dimissibilità di circa un terzo dei ricoverati. E se i problemi di accoglienza fossero, pure, legati alla numerosità di nuovi ingressi di soggetti sottoposti a misure di sicurezza provvisoria? Oppure: le problematiche riscontrate in sede attuativa discendono dalla mancata erogazione dei necessari finanziamenti e dalle difficoltà di relazione con la magistratura?
Dal Comitato stopOPG colgono l’occasione per ribadire l’insensatezza delle residenze come risposta alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il vero superamento, dicono, sarebbe destinare le risorse finanziarie, economiche, strutturali e di personale a favore di servizi socio-sanitari di salute mentale per misure di sicurezza non detentive.
In effetti, l’internamento non dovrebbe essere l’extrema ratio? Non sarebbe, piuttosto, auspicabile mettere mano a un progetto organico di prevenzione così da contribuire alla diminuzione degli ingressi nelle residenze?
Che, invece, a quanto se ne sa, potrebbero essere potenziate a breve con l’apertura di altre cinque strutture nel Lazio, in Piemonte, in Puglia, in Campania e in Toscana. Una speranza: che non si corra il rischio di una strumentalizzazione del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari da parte delle organizzazioni di stampo criminale.
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di Tania Careddu
Che cosa succede quando i migranti sbarcano sulle coste italiane è cronaca nota: è emergenza. Che cosa accada a loro, invece, quando si inseriscono nel tessuto sociale è meno conosciuto. E’ frutto dell’incapacità di mettere in atto politiche che vadano oltre la prima fase di gestione e assistenza. A prova del fatto che l’emergenza sbarchi sia solo un aspetto della questione immigrazione, basta contare i permessi di soggiorno, considerato che la sfida più grande, in termini di integrazione, sono i cittadini non comunitari.
Dal 2002 a oggi, la percentuale di stranieri residenti in Italia è quadruplicata. Stando ai dati riportati nel Rapporto Immigrazione, il giorno dopo, redatto da Openpolis, il 56,25 per cento dei permessi attivi nel 2014 erano di lungo periodo, 43,75 per cento con scadenza; quelli rilasciati per motivi umanitari sono stati, nel 2013, meno del 10 per cento, a fronte del 33 per cento per motivi lavorativi e del 41 per cento per ricongiungimenti familiari o matrimonio. In calo: dal 2008 al 2012, i matrimoni misti (con almeno uno straniero) sono diminuiti del 15 per cento.
Marocchini, albanesi e cinesi, i maggiori beneficiari, tanto che i tre Paesi messi insieme totalizzano il 34,79 per cento dei permessi attivi nell’anno scorso. Un permesso di soggiorno su quattro è stato rilasciato dalla Lombardia, seguita dall’Emilia Romagna, dal Veneto e dal Lazio, collezionando unitamente il 50 per cento dei permessi erogati nel 2014. E così, dodici residenti su cento sono stranieri in Emilia Romagna, circa undici in Lombardia e Umbria.
In coda, le regioni del sud Italia, con percentuali a una cifra di residenti stranieri. E pesano. Non come zavorra ma come forza lavoro, il cui tasso percentuale, in un decennio, è aumentato del 146 per cento; quello occupazionale, pari al 57,6 per cento e superiore a quello dei locali, è in linea con la media dei Paesi dell’Europa, in cui, dal 2006 a oggi, è però diminuito dell’8,21 per cento.
Ma per definirli realmente integrati a livello professionale non basta valutare il tasso di occupazione. Bisogna, piuttosto, considerare il livello retributivo: solo lo 0,06 per cento dei cittadini extra-Ue guadagna più di duemila euro al mese contro l’8,3 per cento degli italiani, e l’80 per cento un massimo di milleduecento euro.Ed è per questo, e non solo, che il rischio povertà è molto più alto tra di loro che tra i locali: in Italia, c’è una differenza di diciassette punti percentuali, in linea con la media europea, eccezion fatta per la Slovacchia e la Polonia, dove la situazione è inversa. Di più: per il 35 per cento dei Paesi Ue-28, il tasso percentuale di stranieri esposti al rischio di esclusione sociale è diminuito. Non dicasi lo stesso per il Belpaese, dove il peggioramento è calcolato doppio rispetto alla media continentale.
Questo anche perché si nota un divario di competenze: la percentuale di stranieri con laurea in Italia è la più bassa in Europa (la media Ue è quasi tre volte superiore al dato italiano). A conferma del ruolo chiave dell’educazione scolastica, soprattutto universitaria, nel processo di integrazione.
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di Tania Careddu
Educativa ed economica: due povertà che si alimentano reciprocamente. Carenza di risorse economiche, uguale a disuguaglianze di opportunità educative. Va da sé (o quasi) che bambini nati in contesti socio-economici disagiati possano essere vittime di povertà cognitiva. E così un terzo dei minori di quindici anni che vive in famiglie con un basso livello socio-economico non raggiunge le competenze minime in matematica e lettura, rispetto a meno del 10 per cento dei coetanei cresciuti in contesti famigliari con uno status socio-economico più elevato.
Che, odioso a dirsi, fa la differenza anche sulle possibilità di fruire di diversi stimoli ricreativi e culturali. Perché, essere poveri in Italia significa, anche, non avere l’opportunità di diventare grandi attraverso lo sport, il contatto con la bellezza e la cultura: il 64 per cento dei bambini è in condizioni di deprivazione ricreativo-culturale.
Più al Sud e nelle Isole, le regioni d’Europa con le più alte percentuali in termini di abbandono di chicchessia percorso formativo. Il 15 per cento dei ragazzi italiani tra i diciotto e i ventiquattro anni non consegue il diploma di scuola superiore. E, le differenze a livello territoriale, a parità di reddito dei genitori, testimoniano come la scuola e altri interventi educativi compensino gli effetti negativi sulle competenze cognitive.
Così un minore che vive in Calabria, Sicilia, Campania, Sardegna, Basilicata e Molise ha il triplo di probabilità di non raggiungere le competenze di base in matematica rispetto, per esempio, a un coetaneo della Provincia Autonoma di Trento. Che, insieme al Veneto, al Friuli Venezia Giulia, al Piemonte e alla Valle d’Aosta, misura valori percentuali sotto il 15 per cento relativamente agli adolescenti che non raggiungono le conoscenze minime. A testimonianza del fatto che l’offerta educativa (che sopperisce alla penuria originaria) deve essere di qualità. Già dai servizi educativi per la prima infanzia: possono contribuire a dare uguali opportunità a bambini nati in contesti svantaggiati.
Perché “la povertà educativa non può essere un destino ineluttabile e non è accettabile che il futuro dei ragazzi sia determinato dalla loro provenienza sociale, geografica o di genere”, sottolinea Raffaela Milano, direttore Programmi Italia-Europa Save the Children, in occasione della presentazione del Rapporto "Illuminiamo il futuro".
Cosa fare per ridurre le distanze? La Milano sostiene che “le enormi diseguaglianze che oggi colpiscono i bambini e i ragazzi in Italia vanno superate attivando subito un piano di contrasto alla povertà minorile e potenziando l’offerta di servizi educativi di qualità: i dati ci dimostrano che i servizi per la prima infanzia, le scuole attrezzate, le attività ricreative e culturali possono spezzare le catene intergenerazionali della povertà”.
“I dati che emergono dalle nostre elaborazioni rivelano un fenomeno allarmante: in Italia, una parte troppo ampia degli adolescenti è priva di quelle competenze necessarie per crescere e farsi strada nella vita”, sottolinea Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. Che aggiunge: “La povertà educativa risulta più intensa nelle fasce di popolazione più disagiate - non dimentichiamo che in Italia più di un minore su dieci vive in condizioni di povertà estrema - e aggrava e consolida, come in un circolo vizioso, le condizioni di svantaggio e di impoverimento già presenti nel nucleo familiare”. Perché essere poveri da piccoli ha conseguenze più negative (e di lungo periodo) che diventarci da grandi.
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di Tania Careddu
C'è chi lo fa all’esclusivo scopo di decorare (deturpare?) il corpo, chi con finalità mediche e chi per intenti estetici. In totale, sette milioni di persone, pari al 12,8 per cento della popolazione italiana sopra i dodici anni, si tatuano la pelle. Questo quanto emerge dalla prima indagine nazionale, effettuata, dall’organismo Notificato Dispositivi e Cosmetici dell’Istituto Superiore di Sanità, su un campione rappresentativo di ottomila persone.
Più diffuso tra le donne che tra gli uomini, il primo tatuaggio viene realizzato a venticinque anni ma il maggior numero di tatuati riguarda la fascia d’età tra i trentacinque e i quarantaquattro anni; circa un milione e mezzo di persone, invece, ha tra i venticinque e i trentaquattro anni, e tra i minorenni, la percentuale è pari al 7,7 per cento.
Un tatuato su quattro risiede nel Nord Italia, il 30,7 per cento ha una laurea e il 63,1 per cento lavora. Braccia, spalle e gambe, i punti del corpo scelti dagli uomini; schiena, caviglie e piedi quelli preferiti dalle donne. Quasi tutti soddisfatti del proprio tatoo, il 92,2 per cento, anche se un’elevata percentuale ha confessato di volerlo eliminare e il 4,3 per cento ha già provveduto.
Per farli, quasi tutti si sono rivolti a un centro specializzato, il 9,1 per cento a un centro estetico e il 13,4 per cento si è fatto pigmentare il corpo fuori dalle strutture autorizzate. E così, il 3,3 per cento - dato sottostimato - dei tatuati ha avuto complicanze o reazioni avverse: dolori, granulomi, ispessimento della pelle, infezioni e pus.
E però, il ricorso a un medico appare poco contemplato: poco più della metà non ne ha consultato nessuno, il 12,1 per cento si è rivolto un dermatologo, il 9,2 per cento al medico condotto e il 27,4 al proprio tatuatore. Poco più della metà è informata sui rischi, eppure solo il 41,7 per cento è adeguatamente informato sulle controindicazioni di tale pratica. Di più: non tutti sanno che può costituire una rilevante fonte di rischio.
“Capire chi si tatua e dove, come lo fa e con quale consapevolezza, tracciare una sorta di demografia del tatuaggio, significa comprendere meglio le criticità connesse a questa pratica e di quali regole ci sia bisogno perché sia effettuato in piena sicurezza”, dice l’esperto dell’Istituto Superiore di Sanità che ha coordinato l’indagine, Alberto Renzoni. Che aggiunge: “Il 22 per cento di chi si è rivolto a un centro non ha firmato il consenso informato. E’ invece necessario non solo firmarlo, ma che nel farlo ci sia un reale consenso e una reale informazione, considerato inoltre che una fetta consistente delle persone tatuate è rappresentata da minori che potrebbero farlo solo con il consenso dei genitori”.
Anche perché bisogna sapere che “il tatuaggio non è una camicia che si indossa e si leva, è l’introduzione intradermica di pigmenti che entrano a contatto con il nostro organismo per sempre e con esso interagiscono e possono comportare rischi e, non raramente, anche reazioni avverse; per questo è fondamentale rivolgersi ai centri autorizzati dalle autorità locali, con tatuatori formati che rispettino quanto prescritto dalle circolari del ministero della Salute”.La numero 2.9/156 e la 2.8/633, entrambe risalenti al 1998, prendono in considerazione i rischi di trasmissione di infezioni causate da patogeni e per trasmissione ematica oltre che di infezioni cutanee ed effetti tossici dovuti a sostanze utilizzate per la pigmentazione del derma.
Sono state recepite solo parzialmente dalle Regioni, originando una disomogeneità dell’approccio normativo che, manco a dirlo, non garantisce pari opportunità di tutela di tutti i cittadini, le norme da seguire per il controllo del rischio. Che sono: regole igieniche generali; misure di barriera e precauzioni universali; misure di controllo ambientale. Prodotti, sostanze impiegate e inchiostri utilizzati: da etichettare.
"Si tratta di un fenomeno in crescita che va osservato con attenzione per le sue ricadute sanitarie - afferma il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi - è importante studiare il fenomeno nel suo complesso cercando di comprendere anche chi è la popolazione che si rivolge ai tatuatori per contribuire più efficacemente alla formulazione di una normativa specifica sulla sicurezza dei tatuaggi alla quale siamo stati, inoltre, chiamati a collaborare in sede europea".