- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Uno dei pochi indicatori in crescita nel Belpaese? La violenza sui minori, soprattutto sulle bambine e sulle adolescenti. Dalle tremila e trecento violenze del 2004 alle cinquemila e trecento, dieci anni dopo. In questo modo: i casi di omicidio volontario sono passati da ventisette a trentaquattro; quelli di “abuso dei mezzi di correzione o disciplina” dai centoventinove ai duecentottantonove; quelli di abbandono dei minori da duecentotrentaquattro a quattrocentoquattro.
E ancora: gli atti sessuali con minorenni, sono passati dai trecentosessantaquattro a quattrocentotrentotto; quelli di violenza sessuale aggravata da duecentosessantadue a trecentosettantuno; quelli legati a materiale pedopornografico con settanta bambine coinvolte nel 2014 e tredici dieci anni addietro; e da settecentocinquantuno a millequattrocento e rotti, i maltrattamenti in famiglia.
Che è il contesto più pericoloso. Non solo perché è quello in cui si consuma ogni tipo di violenza più che altrove. Ma anche perché è lì che si muovono i primi passi del pensiero. E di un sentire comune. Che, ancora oggi, nelle nuove generazioni ha il suono (rumore) di stereotipo. Donna uguale madre, oggetto sessuale o femme fatale, quando non è stupida, isterica, distratta. Sottomessa all’uomo pater familias, e inserita nel mondo del lavoro a discapito del suo ruolo di madre. Un’idea che rimanda a una condizione di subalternità, con ricadute nella violenza fisica e psichica, in linea con una visione di essere (umano) senza identità.
E sebbene le evidenze dei dati riferiscano della violenza come di un fenomeno trasversale, gli adolescenti intervistati da Terres des hommes, che ha condotto la ricerca nelle scuole italiane su un campione di milleseicento ragazzi e ragazze dai quattordici ai diciannove anni, sembrano sottostimarlo. O, nella migliore delle ipotesi, ridurlo a un fatto privato. Che riguarda poche famiglie “senza educazione e molto povere”. O riconducibile a una manciata di uomini “vittime di una momentanea perdita di controllo”. Dando alla violenza, una connotazione socio-economica. E poco, troppo poco, psichica.Emerge, con amarezza, che i ragazzi non sono ancora (?) pronti a una reale uguaglianza di genere. Anche perché ammettono di avere la consapevolezza di essere immersi in un sistema che tende a “rinforzare gli stereotipi e la violenza di genere”, frutto dell’anacronistica cultura della "costola dell’uomo".
E però, chiedono di essere aiutati a superarla. Sia con l’introduzione di “ore di educazione per la prevenzione della violenza sulle donne e per il rispetto dell’identità di genere”, sia con l’inserimento di Internet a scuola come “strumento di apprendimento” e come “oggetto di insegnamento”.
Una richiesta conseguente all’esperienza di sexting. Che vorrebbero fare in libertà, pensando di essere in grado di “proteggere la propria privacy” o fidandosi ciecamente della rete, ma di fronte alla quale inorridiscono quando vedono “le proprie immagini a sfondo sessuale circolare, senza il proprio consenso, on line o sui cellulari altrui”: la sentono “grave quanto subire una violenza fisica”.
In un’Italia che reagisce e si oppone (chapeau), con mozioni parlamentari - ultima quella contro i matrimoni forzati e precoci - e attraverso campagne contro le mutilazioni genitali femminili, quello che deve cambiare radicalmente è il pensiero comune. Troppo comune.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Tutti alla ricerca di un’identità. Di migliori e più umane condizioni di vita e di lavoro. Da un’Italia che, da sempre, è terra di saluti e di accoglienza, di ritorni e di addii. Ma, sempre, per i quattro milioni e seicentotrentasei e rotti cittadini italiani residenti all’estero, con la memoria nella valigia, come elemento portante, legame forte del divenire, nella certezza che conoscere la propria storia serva a capire il presente.
Di emigrazione, caratterizzato, nell’ultimo decennio, da una serie di fattori e situazioni nazionali e internazionali che hanno condotto a un profondo cambiamento nelle caratteristiche della mobilità in generale, e di quella del nostro Paese, in particolare.
Affetto da schizofrenia: che, da una parte, si è sempre più confermato quale meta strutturale per tanti immigrati, mentre, dall’altra, in una delle più lunghe recessioni economiche e occupazionali della storia, vede giovani, famiglie e anche anziani, partire. Storicamente dalle regioni del Sud, ma, attualmente, anche dal Nord: pur restando la Sicilia, la prima regione di origine degli italiani all’estero, seguita dalla Campania, dal Lazio e dalla Calabria, il confronto con i dati delle precedenti edizioni del Rapporto Italiani nel mondo, redatto da Migrantes, pone in evidenza una marcata dinamicità delle regioni settentrionali, specialmente della Lombardia e del Veneto.
Verso l’America e l’Europa. Meta preferita dai Millennials, già a partire dagli studi universitari, intesa come luogo di scambio, in cui hanno la possibilità di mettersi alla prova e di spendere le proprie competenze. Sono ‘migranti’ istruiti, i più istruiti dal Secondo dopoguerra a oggi, ma anche i più penalizzati. Bravi ma senza prospettive nel loro Paese natìo.
Nel quale, qualora facesse capolino l’opportunità di una buona e concreta occasione lavorativa, tornerebbero: sono gli Expat. Giovani in movimento della stessa generazione dei Millennials, promotori di innovazione sociale, pronti a frasi apprezzare nelle aziende estere o intenzionati a dare vita a una attività propria. Che vivono l’emigrazione come una possibilità, una carta da spendere. E sebbene la partenza li investa di un bagaglio di nostalgia, resistono e desistono dal tornare a casa.
E cosi vanno a ingrossare le file degli emigrati italiani che hanno contribuito con le loro conoscenze, la loro destrezza, la genialità e il talento a rendere migliori diversi luoghi del mondo. E che, nonostante il momento poco propizio per il Belpaese, sono esempio di dedizione, sacrificio, professionalità e ingegno.
Dai vecchi mestieri che hanno esportato all’estero - tipo il minatore, lo spazzacamino, il barbiere, il viticoltore, il ramaio della Valle del Noce, il vetraio di Altare, il gelatiere, il ristoratore, il suonatore d’arpa o il riquadratore di Sala, fino ad arrivare all’attualissimo calciatore - arriverà un giorno in cui la decisione di partire deriverà totalmente da una scelta e non da un obbligo?
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Distorta percezione del rischio, frutto di informazioni pervertenti e di carenza culturale. Sono bastati il ritiro di un medicinale antinfluenzale per ipotizzati effetti collaterali e le dicerie sul legame tra autismo e vaccini pediatrici a scotomizzare la memoria storica dell’effetto salvifico dei vaccini su intere generazioni. E a gettare nel terrore corpose ciurme di genitori. I quali, per uscire dall’impasse, invece di ricorrere a fonti ufficiali che, sulla base delle evidenze scientifiche, avrebbero (hanno) smentito le voci di corridoio (e del web cialtrone), hanno optato per l’astensione.
Perché, secondo quanto rileva Paidoss, l’Osservatorio nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza, il 33 per cento di loro ritiene le vaccinazioni più pericolose delle malattie che prevengono. E nonostante il 64 per cento abbia sentito parlare della recente sentenza che ha escluso il nesso tra autismo e vaccino esavalente, il 26,8 per cento si sente confuso tanto da non utilizzarli finché non riceverà rassicurazioni, il 23,9 per cento farà uso solo di quelli necessari e il 12,9 per cento non li farà (fare) più. Ma l’80 per cento di questi non sa che lo pneumococco può causare gravi malattie, tra cui la meningite, e il 48 per cento non sa quali siano le altre patologie provocate da questo patogeno, come l’otite, la bronchite e la polmonite.
Sta di fatto che la copertura vaccinale nel nostro Paese è al limite della soglia di sicurezza. Parola dell’Istituto Superiore di Sanità. Che rileva un tasso di vaccinazioni al di sotto degli obiettivi minimi previsti dal Piano nazionale per la prevenzione vaccinale. Cosi, scendono al di sotto del 95 per cento le vaccinazioni per polmonite, tetano, difterite ed epatite B, e all’86 per cento, meno quattro punti percentuali, quelle contro il morbillo, la parotite e la rosolia.
Ma “scendere sotto le soglie minime significa perdere via via la protezione della popolazione nel suo complesso e aumentare contemporaneamente il rischio che bambini non vaccinati si ammalino, che si verifichino epidemie importanti, che malattie per anni cancellate dalla protezione dei vaccini non siano riconosciute e trattate in tempo”, dichiara il suo presidente, Walter Ricciardi. Sulla stessa lunghezza d’onda, il presidente di Paidoss, Giuseppe Mele: “Il calo dell’attenzione che stiamo registrando nei confronti delle vaccinazioni, ci preoccupa per le recrudescenze di malattie contagiose, quali morbillo, varicella, rosolia e meningite pneumococciche a cui assistiamo ultimamente”.E continua: “Dall’indagine emerge una percezione della vaccinazione che non è corretta, frutto di informazioni fuorvianti, che arrivano soprattutto dal web. Quando si digita ‘vaccinazioni’ su Google, i primi duecento siti e blog che compaiono sono antivaccinazioni: da qui attingono informazioni i genitori alla ricerca di risposte ai loro dubbi”. Inoltre, aggiunge “Io credo che una società scientifica debba prendere posizione in maniera chiara e chi appartiene a essa deve necessariamente comportarsi di conseguenza. Questo vale anche e soprattutto per i professori e per i pediatri”.
Idem per Ricciardi: “E’ necessario che, a fronte dei dubbi dei cittadini, gli operatori siano in grado di far comprendere che la mancata vaccinazione crea un rischio enormemente più alto rispetto a quello temuto di eventuali effetti collaterali. E’ inammissibile che un operatore sanitario pubblico, in scienza e coscienza, possa avanzare dubbi sull’efficacia e sull’opportunità dei vaccini, di un atto che ha anche un valore etico per la tutela della salute pubblica”. Per non disperderne il patrimonio conquistato in tanti anni di campagne vaccinali.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
Essere dentro il ‘sistema giustizia’ ed esserne esclusi. Un paradosso che investe i detenuti quando devono fare i conti con la risoluzione di questioni legali non connesse alla pena che stanno scontando. Ossia, sebbene siano esposti a linguaggi e procedure giuridiche, siano supportati da un avvocato, o lo sono stati prima della condanna definitiva, benché si relazionino con il magistrato di sorveglianza o con il giudice procedente, a causa della restrizione della libertà personale incontrano ostacoli che impediscono il normale accesso alla giustizia per tutto ciò che non concerne la storia penale per la quale sono detenuti.
Per cui, benché gli istituti penitenziari offrano servizi volti a ovviare agli impedimenti, la reclusione rappresenta un ostacolo ingombrante a farsi parte attiva nella gestione delle loro questioni legali-amministrative. Esasperando la condizione afflittiva e intralciando la reale (?) finalità riabilitativa della detenzione.
Sebbene la ricerca Accesso alla giustizia in carcere: alcune evidenze basate su un “questionario fra pari”, condotta dalla Casa della libertà e dal Centro Studi Sofferenza Urbana, sia stata effettuata nelle carceri milanesi di Bollate e di San Vittore, i risultati ottenuti potrebbero essere estendibili. E sono problemi legati al diritto di famiglia, con annesse questioni riguardanti il patrimonio o il reddito (vedi sfratti e pignoramenti), o la perdita di sussidi e sostegni per il nucleo familiare, o problematiche aperte con la Pubblica Amministrazione, relative a sanzioni o a tasse. Oppure questioni legate al rilascio o al rinnovo di documenti, principalmente carta d’identità e patente.
Non solo la detenzione rappresenta un motivo per rinunciare a risolverle ma sembra, anche, incrementarle. La sistemazione delle quali pare essere connessa pure a due fattori determinanti a stabilire la possibilità o meno di utilizzare gli strumenti messi a disposizione del carcere. E cioè la maggiore o minore mobilità per i detenuti all’interno della struttura penitenziaria e l’essere in attesa di giudizio.
Condizione, quest’ultima, che sistema il detenuto-imputato in una posizione ancor più complessa (se possibile): escluso dalle logiche trattamentali, fa fronte anche a situazioni particolarmente restrittive che rendono meno agevole, rispetto a una più elevata mobilità degli altri reclusi, la fruizione dei mezzi offerti dall’istituto. E le difficoltà si acuiscono quando a essere coinvolti sono gli ‘ospiti’ più vulnerabili, privi, cioè, di una rete di supporto (di solito familiare) o stranieri.E l’accesso alle cure e ai farmaci? Talvolta ostico tanto da sembrare una pena accessoria. Per esempio, l’inserimento dei detenuti in liste d’attesa ordinarie, li penalizza: l’opportunità di accedere alla visita, una volta arrivato il proprio turno, dipende dalla disponibilità delle scorte di polizia, non sempre assicurata. Da aggiungere a tutto ciò il mancato diritto alla scelta del medico di base, obbligati come sono a rivolgersi al medico di reparto, limitandosi così il diritto di ogni paziente - e quindi anche del recluso - a un rapporto personale, diretto e continuativo con lo stesso.
Inoltre, la mancata restituzione degli esiti di eventuali analisi cliniche effettuate, l’utilizzo di cartelle cliniche cartacee che accompagnano il detenuto ma, quasi sempre, con grande ritardo, fanno perdere la sua storia clinica. La mancanza di libertà è un grave vulnus al patrimonio giuridico inalienabile di ogni essere umano. Tutela della salute e accesso equo alle cure compresi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
di Tania Careddu
“Le vostre trasmissioni televisive dove mescolate odio e boria a curcuma e latticello, e guadagnate milioni uccidendo la poesia della cucina, fatele voi”. A Nina, nomade ai fornelli, dalla fantasia circense, questa “sublimazione di qualche olimpiade del primeggiare” non le appartiene. Quel delirio di gente che vuole emergere “tra i fornelli a discapito dei sapori”. Il loro “non vedere le espressioni delle persone mentre mangiano. Il non poter scambiare con loro delle sensazioni”.
Usciti dalle “costosissime scuole per diventare chef depersonalizzati (…), in cui si insegnano cose antipatiche e fredde, prive di sentimenti: la besciamella si fa così; il roux si fa cosà; questo è un mazzetto guarnito; secondo l’Haccp siamo tutti sudici e inadeguati; in cucina vige una gerarchia; i baffi non li puoi portare, se sei uomo e a maggior ragione se sei donna; non puoi fischiare mentre cucini, tanto meno parlare”.
Ma figuriamoci se a Nina puoi dire di non avere uno stato d’animo mentre è “carnalmente assorbita da ogni esalazione, colore, intrigo gustativo”. La cucina deve essere “libera, non una galera”. Ma “vallo a spiegare all’Artusi, o all’Ada Boni”.
Se non fosse per l’aspetto grafico-editoriale, il libro d’esordio di Elena Chiattelli, Affocolento. Dissertazioni agrodolci di una cuoca ribelle (Ed. Ultra Novel), potrebbe essere un pamplhet. Pungente e ironico. Critico e irriverente. Polemico. Ma squisitamente umano. In barba a tutti quei rigidi “manuali di scuola di cucina, ai tomi di dotti gastronomi e ai ricettari di terzo millennio”.
Ma, soprattutto, contro quei cuochi, “brigata di uomini presuntuosi, covi di testosterone frustrato, massacratori di sapori e di linguaggi” che hanno perso “il senso del rapporto nell’arte del cucinare”.
Invece, la cucina è “scambio”, ci si trova “il luogo e il tempo per riconoscersi”, suggerisce “un pensiero di uguaglianza e di diversità al tempo stesso”. E’ un luogo, un tempo, appunto. Mai uguale. Mai fermo.
Piano piano. “Piano è il segreto, è il trucco, è il fuoco” sotto i fornelli. E nel cuore. A uno “stupido manipolo di maschi frustrati” che impiattano, frenetici, senza trasporto, Nina contrappone “secoli di emancipazione femminile in una lingua che è ormai un esperanto, che è quella del rifiuto e dell’ingiustizia”. La sua brigata è fatta di cuochi sentimentali. Di gente di cuore e di pancia. “Persone imperfette e capaci di emozionarsi”. Una brigata bilanciata, “dove gli uomini non sono maschi in un pollaio e nemmeno invidiosi e le donne non sono castratrici o isteriche”.Irrazionale e appassionato, il libro di Elena Chiattelli, in arte Ninotcka, è un viaggio di formazione. Storie di: resistenza e ribellione, fra involtini di verza e di melanzane con pesce spada alla menta per signore borghesi; di condivisione e di accoglienza, fra i dolma borbottanti e il riso bruciacchiato che viene dall’Africa; di amore e di ricordi, solleticati dall’aroma delle erbe “che rimette al mondo”, dal profumo del ragù della nonna, cotto affocolento, e da quello del mare.
Che fa immaginare. Giacché ci sono “più ricordi in un tegame che in un diario di famiglia”. Perché in cucina, “l’ingrediente principale è la vita”. E dunque la fantasia. Istruzioni per l’uso: non leggere tutto d’un fiato. Da gustarsi con calma.