di Rosa Ana De Santis

Nel G8 delle donne, mentre il pensiero e lo studio é sui numeri altissimi della violenza e degli abusi, il sottosegretario Roccella non si è risparmiata dall’esprimere le proprie convinzioni. Guai ad allargare il tema sulla violenza ai danni di tutti i diversi, agli episodi della Gay Street di Roma, per intenderci. Il pericolo di omofobia lei non lo vede, tantomeno la necessità di una legge specifica. E’ Anna Paola Concia, deputata del Pd e relatrice della legge contro l'omofobia, a ricordarle che quello che lei non vede c’è già costato asprissime critiche dell’Europa per la mancanza di un osservatorio “istituzionale” di monitoraggio e controllo. Se può essere vero che leggi specifiche sono comunque sempre sottese alla cornice inviolabile dei diritti umani e che nulla di nuovo possono “inventare”, è vero che non stigmatizzare reati e comportamenti discriminatori significa insabbiare lo scandalo e la riprovazione morale che certi episodi e pericolose correnti di umore sociale dovrebbero scatenare con la massima visibilità.

L’accoltellamento che a Roma ha visto coinvolto un giovane ragazzo e il suo aguzzino “svastichella” non deve essere accostato a una bravata, a un generico atto di teppismo. C’è un odio che ha radici nella differenza dell’orientamento sessuale e che induce a discriminare, a violentare in mille diversi modi chi non solo non nasconde quell’identità, ma la difende e ne rivendica pari diritti e pari dignità.

La Roccella viene dalla tradizione del femminismo. Conosce molto bene i termini del problema, sostiene di non “aver buttato a mare nulla” del suo passato, tanto da saper rivendicare l’argomento della differenza tra uomini e donne come tema principe del pensiero femminile, come differenza prima e assoluta, come inizio necessario di qualsiasi analisi di numeri e di opinione sulla violenza di genere. Proprio per questo la Roccella, sul tema della discriminazione ai danni degli omosessuali o dei trans, fa un errore di amnesia e cancella in una manciata di battute un metodo che il pensiero delle donne dovrebbe averle insegnato. L’errore del cattivo femminismo, che torna in queste interpretazioni frettolose, é quello di strappare una categoria concettuale importante come quella della differenza da ogni contesto sociale, assolutizzando il valore di un percorso culturale che sterilizzato da ogni battaglia contingente, diventa non solo inutile e svuotato di senso, ma dannoso per la stessa filosofia delle donne.

La scoperta della differenza è stata, prima di ogni altra cosa, la scoperta dei corpi. Portare la corporeità e ciò che la attraversa dentro le categorie neutre - o presunte tali - del pensiero. La rivoluzione delle donne è stata parallelamente una battaglia di piazza per l’uguaglianza e un lavoro speculativo meticoloso e difficile sulla differenza. Proprio il merito di aver scoperto un nuovo metodo di pensare il reale e i suoi contenuti, dovrebbe vederle in prima linea sulla difesa di tutte le differenze. Perché solo la differenza ha la potenzialità di essere un concetto singolare e plurale insieme. Non può per natura esserne soltanto una: é sé e ha in sé tutte le differenze possibili. Ha una tale dialettica intrinseca da non poter essere racchiusa in una specifica pagine della storia e della storia delle idee.

Il tema dell’omosessualità (e figuriamoci quello della transessualità) viene ancora vissuto e metabolizzato come una deviazione patologica dalla normalità. Come qualcosa da governare o da circoscrivere. E’ questo retroterra di sospetto che, favorendo il pregiudizio, compromette ogni battaglia politica di diritto e di riconoscimento. Questa impreparazione culturale, la stessa che pregiudica la società italiana in ogni percorso d’integrazione, azzera ogni possibile politica di emancipazione. Soltanto dopo arrivano le divisioni dovute a ideologie storiche di partito o alle fedi religiose.

Una legge ad hoc sarebbe una legge d’emergenza, non c’è dubbio. Forse persino un boomerang nel tempo, ma non ora. Ora forse è il momento di lanciare l’allarme e di individuare che un pericolo di discriminazione reiterata c’è. Ci sono potenziali vittime e vanno tutelate. Non è forse lo stesso ragionamento che può giustificare l’utilizzo di quote rosa obbligatorie come misura iniziale di uguaglianza? Si corre il rischio di veicolare un messaggio di subordinazione naturale delle donne? Forse sì, ma ben peggiore è il rischio di avere una politica senza le donne, declinata unicamente al maschile. Pensata dagli uomini e fatta su misura per loro.La cecità di chi non ravvede l’urgenza di un provvedimento sull’omofobia, è la stessa che in tante occasioni ha diffuso cattivo pudore, quando c’era da denunciare razzismo e xenofobia. Anche lì si era trattato di ragazzate ed episodi di violenza. Generici e generale. Un modo raffinato per non dover far nulla e mantenere uno status quo. La conservazione del più forte.

Il sottosegretario Roccella riconosce che esiste una forma di discriminazione a causa della condizione umana di chi è omosessuale o trans. Così la definisce. Una lettura un po’ troppo ecumenica di quello che accade da noi. Intanto definirla “umana” significa proprio abbandonare il linguaggio delle donne. E’ il gusto sessuale ad essere considerato fuori canone, inverso e malato. E’ l’identità sessuale a scatenare raid punitivi di pestaggio o d’insulto. Non è la vaga condizione umana. E’ una lettura meschina della natura e delle normalità che individua in queste persone un attentato al maschio, alla procreazione, alla famiglia. Questo significa voler parlare del problema omofobia, senza impaludarsi nella dottrina utilissima dell’inevitabile male umano.

L’allarme omofobia c’è, proprio perché rimane la tentazione di non vederlo proprio da chi avrebbe il potere di fare qualcosa. E’ qui che si annida il pericolo più grande per la società italiana e il suo futuro. Ogni forma di discriminazione non è mai neutra. C’è sempre una singola differenza da incarnare nell’uguaglianza, ideale che senza contenuto - come la libertà - diventa troppo sterile per appassionare, troppo debole per vincere. Se c’è una vittoria che le donne hanno riscosso nella storia è proprio quella di aver compreso che le idee hanno bisogno di incarnarsi e di essere partorite. Ogni donna racchiude in sé, in carne ed ossa, questo paradigma di esistenza e questo modello di valore. Nel corpo, nella cura, nella procreazione, nell’accoglienza, nella maternità. Un miracolo per quella filosofia che prima se ne stava aggrappata alle nuvole o chiusa nella testa dei maschi.

Le donne hanno guardato giù. Giù per dire qui, adesso, davanti a noi. Hanno scoperto che giù iniziava la verità. Da lì nasceva. E che ogni differenza andava chiamata per nome. Una vita pensata così non è mai cristallizzata in un sistema, é un moto perpetuo, un’incarnazione quasi mistica di sé. In mille forme e in mille tempi diversi. Non importa come si chiamerà domani quella differenza, essa avrà la sua dignità intellettuale e morale. Non vedere questo dato è “aver buttato quel mare alle spalle”, aver ridotto il femminismo a un manifesto superato di rivendicazioni anti-maschili e non aver capito che la differenza non è mai autoreferenziale. E’ tutte le differenze, è fuori e non è mai dentro. E’ ora e non è mai per sempre. E’ l’uguaglianza piena di storie, di corpi e colori. Basta saperla vedere.

di Rosa Ana De Santis

La legge che regolamenterà la fine della vita di tutti i cittadini italiani, è una legge che fonda le sue ragioni e i suoi cavilli proibizionisti in una concezione cristiana e cattolica dell’esistenza. Non sarà quindi quella che definiscono una legge laica “attenta alla vita”, ma una legge etica che garantirà l’esercizio della libertà individuale secondo il criterio della fede personale. Troppo, davvero troppo, anche per 41 sacerdoti che, su Micromega, cinque mesi fa, hanno difeso la libertà di coscienza che questa legge a molti toglierà. Il Sant’Uffizio appare di nuovo, stavolta trasformato in una cosa dolce e annacquata che si chiama Congregazione per la dottrina della fede. Ma intanto, questa morbida congregazione post conciliare, ha scritto ai vescovi cui quei sacerdoti fanno riferimento perché li richiamassero all’ordine e decidessero come reagire all’insubordinazione.

di Rosa Ana De Santis

Quella che leggiamo o vediamo in televisione è la trama di un’odissea inversa. Nessuna epica. Non c’è Calipso in quel mare, né la mappa per Itaca. La fuga sparge morti in acqua e sale senza eroismo. Corpi e non uomini, dissolti e non sepolti. Il mare è diventato fuoco che brucia gole e pance. Questo ha raccontato una giovane donna sopravvissuta al naufragio di uno degli ultimi barconi, dei 75 altri suoi compagni di viaggio che non ci sono più. Fa tremare di vergogna la sua testimonianza e assegna precise colpe e responsabilità. Come le chiamasse per nome e cognome.

di Alessandro Iacuelli

Pare che sia l'ultima novità, in fatto di controllo degli spazi pubblici. Evidentemente non sono sufficienti i milioni di telecamere posizionate nelle strade di quasi tutte le città del mondo, comprese le nostre. Evidentemente il controllo va esteso, e non basta vedere i volti di coloro che salgono sui treni o prendono l'autobus. L'esperimento pilota, per ora, riguarda la città americana di Baltimora, dove la MTA, Maryland Transportation Administration, la società che gestisce i trasporti pubblici, ha richiesto tutte le autorizzazioni legali per poter installare microfoni atti a captare e registrare tutte le conversazioni di passeggeri e personale sui treni metropolitani e sugli autobus della città.

di Mariavittoria Orsolato

Sono 73 le anime che il canale di Sicilia pare avere inghiottito durante l’ennesimo viaggio della speranza dalle coste africane a quelle europee. A raccontarlo, con le lacrime agli occhi, sono i 5 sopravvissuti recuperati da una motovedetta della Guardia di Finanza mentre navigavano alla deriva, a 12 miglia dall’isola di Lampedusa. Una donna, due uomini e due ragazzini che, stando alle loro testimonianze, sono partiti dall’Eritrea alla volta della Libia e da li si sono imbarcati lo scorso 28 luglio, nella speranza di raggiungere le spiagge italiane. Pensavano di sfuggire così alla dittatura più rigida e sanguinaria di tutto il corno d‘Africa, instaurata nel 1993 dal presidente Isayas Aferworki, salutato come combattente per la libertà ma poi rivelatosi un inesorabile tiranno. All’inizio del viaggio erano in 78, 55 uomini e 17 donne, ma una volta saliti sul gommone che avrebbe dovuto far loro attraversare il Mediterraneo, il timoniere inesperto ha perso immediatamente la rotta e i natanti sono stati costretti a navigare a vista. Con la benzina sono finiti ben presto anche acqua e cibo, e già al terzo giorno di navigazione alcuni cadevano sotto l’imperterrito splendere del sole estivo, scivolando senza vita nelle acque profonde del mare nostrum.


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