di Rosa Ana De Santis

La storia di Stefano Cucchi comincia quando finisce la sua libertà. Sta fumando uno spinello con un suo amico. Subisce un controllo e una perquisizione, gli trovano 18 grammi di hashish, qualche pasticca. Viene fermato e arrestato. E’ sano. Sta bene. Cammina sulle sue gambe. Viene trasferito in una caserma dei carabinieri. Alla famiglia vengono riconsegnate le chiavi della macchina e gli viene detto che trattasi di fermo a soluzione rapida, più una operazione di routine che altro. Questa sarà la prima delle tre comunicazioni che la famiglia riceverà dalle istituzioni. La seconda li avviserà della detenzione ospedaliera e dell’impossibilità di vederlo senza l’autorizzazione del magistrato; la terza della morte di Stefano. Dev’essere così che va, in un paese dove in 11 mesi sono morte 62 persone in carcere, dove le celle scoppiano, gli istituti somigliano a cayenne e i processi sono bloccati, ma dove si dice che l’emergenza giustizia sono i magistrati “rossi”.

Parlare di questa morte significa, prima di tutto, guardare la morte di Stefano. Le foto che circolano su internet e sulla carta stampata rappresentano uno scomodo imbarazzo, oltre che un significativo ostacolo a tutti i tentativi di chiudere il caso con la teoria dell’accidentalità, del caso fortuito o del decesso naturale. Gli ultimi giorni di vita del giovane detenuto sono scanditi tra carcere e ospedale ed è in questa ricostruzione temporale che sta il centro delle responsabilità e delle colpe. Le diverse istituzioni chiamate in causa e il luogo in cui Stefano è stato condannato a morte. Le foto di Stefano sono la sola risorsa che ha potuto, finora, disinnescare l’omertà consueta. Come ha scritto Adriano Sofri su La Repubblica, “nessuno è tenuto a guardarle. Ma nessuno è autorizzato a parlare di questa morte senza guardarle”.

Sarà il magistrato a stabilire quali, tra le figure che si sono occupate di Stefano, ha responsabilità dirette o indirette nella sua tragica fine. Stefano ha 31 anni, è epilettico e pesa circa 44 chili, diranno poi. Potrà essere dimostrato un caso di malagiustizia o di malasanità, ma un fatto è certo. Stefano viene arrestato sano e viene ricoverato al Pertini in condizioni gravi. Ha subito colpi durissimi al volto e alla schiena. Perché?

Fino al processo è ancora in piedi, per quanto il volto sia segnato dai colpi ricevuti. Ma nessuno, né i carabinieri che lo accompagnano all’udienza per direttissima, né l’avvocato d’ufficio, né il giudice stesso, che pure ordina di visitarlo, chiedono ragione di quei segni sul viso. Solo il padre, che ha tempo unicamente per abbracciarlo, senza sapere che sarà per l’ultima volta, nota le percosse. Viene ordinata la custodia cautelare perché, si dice, senza fissa dimora. Non è vero, la dimora ce l’ha ed è quella dei genitori, dove i carabinieri hanno citofonato per avvisarli dell’arresto.

Sarà il medico del carcere che, nonostante (almeno così dicono) Stefano rifiuti il ricovero, stabilisce che la sua condizione fisica vada accertata in un reparto ospedaliero, ritenendo quel corpo martoriato incompatibile con il regime carcerario. La domanda è semplice: in che condizioni Stefano giunge in carcere dopo il processo? Le stesse in cui versava in aula o sono ulteriormente peggiorate?

Dopo la lettura della sentenza, che confermava il fermo e ordinava il suo trasferimento in carcere, Stefano aveva dato in escandescenze, prendendo a calci una sedia dell’aula del tribunale. Dal tribunale viene condotto in carcere tramite la polizia penitenziaria. All’arrivo nell’istituto di pena, però, il medico competente stabilisce il suo immediato trasferimento in ospedale per accertamenti diagnostici. Perché? Cos’è successo nel tragitto tra il tribunale e il carcere o, comunque, da quando Stefano è scomparso dalla vista del giudice fino a quando è ricomparso alla vista del medico? Forse la polizia penitenziaria potrebbe spiegarlo, se non fosse indaffarata a raccontare scuse. Potrebbe aiutare a chiarire se non occupasse il suo tempo a dire che il suo comportamento è irreprensibile.

La posizione dei sanitari dell’ospedale Pertini è tragicomica. Dapprima riferiscono di non essersi resi conto dei segni sul viso perché Stefano ha il lenzuolo che gli copre il volto. Quindi, a sentir ciò, viene ricoverato in base ad una diagnosi immaginaria, visto che non è possibile sapere cos’ha il paziente-detenuto. Successivamente, Stefano viene sottoposto ad una radiografia che conferma le fratture e ad un esame dell’emocromo, che non farebbe pensare ad emorragie interne. Sempre con il volto coperto?

Nel Paese che fa le veglie per la vita di Eluana, nel Parlamento che tutela la vita delle persone in stato vegetativo cronico a colpi di alimentazione e idratazione forzata, si può lasciar morire un ragazzo come Stefano? I familiari di Stefano, e tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, sanno solo due cose: sanno che Stefano è stato sano finché libero e che da quando è divenuto detenuto ha cominciato a morire per percosse per poi finirla per arresto cardiaco.

Sanno che, come Federico Aldovrandi e come troppi altri, sono stati uccisi dalla ferocia questurina di chi si sente legittimato ad imitare il ventennio fascista grazie al clima politico imperante. Tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, chiedono che i colpevoli paghino. Questa volta, per la prima volta, finalmente paghino.

di Mario Braconi

Il modo in cui sui media si parla di H1 N1 è decisamente allarmistico, addirittura ansiogeno per l'uomo della strada. In compenso, le case farmaceutiche migliorano il proprio conto economico, grazie a vendite record di farmaci quasi inutili e, chissà, forse anche di ansiolitici. Nel Regno Unito, lo scorso aprile gli epidemiologi avevano immaginato un numero di 100.000 contagiati al giorno al momento di picco della cosiddetta "pandemia", mentre, secondo lo scenario più devastante, un terzo della popolazione sarebbe stata infettata (65.000 morti). I numeri veri, fortunatamente, raccontano un'altra storia, assai più rassicurante: a metà ottobre, in quel paese si contano un totale di 83 decessi per H1 N1, su 370.000 infettati (tasso di mortalità pari allo 0,02%).

Non solo il virus sembra essere assai meno aggressivo di quanto si ritenesse inizialmente, ma, come scrive Simon Garfield sull'Observer dello scorso 25 ottobre, "siamo riusciti a sopravvivere nonostante i farmaci proposti per combattere la pandemia, solo marginalmente più efficaci delle nostre normali difese immunitarie." Stiamo parlando di Tamiflu e Relenza, prodotti rispettivamente, dalla Roche e della GlaxoSmithKline (GSK).

Il principio attivo del Tamiflu venne ideato al virologo Peter Colman che, già nel 1983, si sforzava di comprendere le ragioni della capacità del virus dell'influenza di mutare di anno in anno. Colman si concentrò sullo studio degli inibitori della neuroaminidase, un enzima che presiede il processo di diffusione del virus presso cellule sane. L'Australia's Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO), presso cui Colman lavorava, cedette la ricerca ad una società farmaceutica, la Biota, in cambio di una royalty sulla vendita di prodotto farmaceutici da essa derivati. Dopo tre anni di ricerca, Biota confermò la validità del principio attivo, anche se poi lo concesse in licenza alla Glaxo: solo una grande farmaceutica, con le sue notevoli risorse, infatti, avrebbe potuto sperimentare il farmaco su larga scala.

Il componente GG167, uno degli innumerevoli che Biota aveva passato a Glaxo per i test e che presto sarebbe stato ribattezzato con il nome commerciale di Zanamivir, risultò particolarmente efficace: il suo vero punto di forza era, pare, quello di combattere la neuroaminidase contenuta nel virus dell'influenza senza fare danni gravi alla neuroaminidase normalmente contenuta nelle cellule sane del corpo. Secondo Richard Bethell, l'enzimologo di Glaxo che sviluppò il prodotto, Zanamivir era in grado di "ridurre i sintomi dell'influenza del 30 - 40%". Il difetto dello Zanamivir, cui il marketing di Glaxo aveva nel frattempo trovato un nome ancora più simpatico (Relenza, crasi di "Relief from Influenza", ovvero cura dell'influenza), era che doveva essere somministrato per inalazione con il Diskhaler, un aggeggio simile ad una modellino di astronave. I preparati anti-influenzali, infatti, sono tradizionalmente in pillola; e la Roche stava ormai tallonando la Glaxo con un preparato molto simile al Relenza, ma che poteva essere realizzato in pillole (il Tamiflu).

Nonostante l'entusiasmo con il quale la Glaxo spingeva il Relenza, già nel 1999 il National Institute for Health and Clinical Excellence (Nice) rifiutò di approvare il medicamento sostenendo che i suoi benefici fossero insufficienti. Sempreché assunto entro 48 ore dall'infezione, il farmaco avrebbe potuto giovare ai gruppi a rischio (anziani, portatori di malattie respiratorie o cardiache croniche, diabetici di tipo 1). Tuttavia, il NHS (National Health Service, Servizio Sanitario Nazionale) si raccomandò di non utilizzare lo Zanamivir in persone in condizioni di salute generali buone. Insomma, il Relenza è, nella migliore delle ipotesi, un farmaco utile in casi limitati.

Nel 2006 la rivista medica The Lancet realizzò una ricerca avente ad oggetto 19 studi sulle medicine anti-influenzali, la cui conclusione fu netta: "Non c'è ruolo per gli inibitori della neuraminidase nel trattamento dell'influenza". Tra l'altro, un altro studio, pubblicato sempre su The Lancet a settembre del 2009, ha dimostrato che l'affermazione delle case farmaceutiche, secondo cui Tamiflu e Relenza avrebbero ridotto del 30-40% i sintomi dell'influenza, era molto ottimistica. Nella migliore delle ipotesi, la durata della malattia veniva ridotta di poco più di mezza giornata (un giorno, per i soggetti a rischio di complicanze); il che, quando si parla di un decorso che normalmente si protrae per una settimana, corrisponde ad un taglio del 15% - metà di quello minimo pubblicizzato. Il tutto senza considerare che, se il farmaco non viene assunto entro le 48 ore dall'infezione, gli effetti si avvicinano allo zero assoluto, fermi restando eventuali effetti indesiderati.

Eppure, riporta sempre Garfield sull'Observer, i governi mondiali hanno acquistato 270 milioni di terapie di Tamiflu dal 2006 (di cui la metà negli ultimi sei mesi); la GlaxoSmithKline, o GSK, (ex Glaxo) ha aumentato la sua capacità produttiva per arrivare a realizzare 190 milioni di dosi di Relenza per fine 2009 (il triplo della sua produzione normale). Si stima inoltre che il solo governo britannico abbia acquistato Tamiflu e Relenza per un valore di mezzo miliardo di sterline, un esborso pari a circa la metà della budget complessivo per l'emergenza influenza suina.

Non a caso GSK, che quest'anno ha perso un mucchio di soldi a causa della scadenza dei brevetti sulle sue medicine più vecchie, grazie alla "pandemia" di influenza H1 N1 - vera o immaginaria poco importa - riuscirà a cavarsela piuttosto bene: il fatturato del terzo trimestre del 2009 è cresciuto del 15%, grazie soprattutto all'effetto Relenza. Inoltre, l'azienda ha annunciato di aver ricevuto ordini per 440 milioni di dosi del suo vaccino contro all'influenza dall'evocativo nome Pandemrix (da "pandemia"), appena approvato dalla Unione Europea. Dopo aver fatto il pieno con le vendite del praticamente inutile Relenza, nell'ultimo trimestre del 2009, periodo in cui si procederà all'immunizzazione di massa della popolazione, GSK porterà a casa l'equivalente di oltre 1,1 miliardi di Euro.

GSK non ha ritenuto di commentare le indiscrezioni secondo cui il nuovo vaccino costerà nei paesi industrializzati 7 euro, a fronte di un costo industriale stimato attorno all'euro (un ricarico del 700% su un farmaco spacciato come di importanza primaria pare un tantino eccessivo). Anche Roche non se la passa male: a metà ottobre, ha riportato vendite di Tamiflu per 2 miliardi di franchi svizzeri, un incremento pari a quasi 4 volte il fatturato dell'anno precedente.

Per quale ragione i governi sperperano denaro pubblico acquistando farmaci che si sono dimostrati insufficienti a sconfiggere una normale epidemia di influenza, figuriamoci una pandemia? Secondo l'Observer, la risposta è la disperazione. "A dispetto degli spettacolari progressi medici, ogni anno siamo messi al tappeto da un vivaio di virus comuni che minacciano di mutare in modo da andare fuori controllo. E questo è un fallimento duro da ammettere. Una pandemia potrebbe moltiplicare gli effetti di questo fallimento, e questo preoccupa i governi responsabili, al punto da spingerli ad agire, anche sapendo dell'inadeguatezza delle misure messe in campo. Ma questa politica è saggia? O invece finirà per peggiorare la nostra salute futura?".

di Rosa Ana De Santis

Stefano Cucchi, 31 anni, è morto nella notte tra il 22 e il 23 ottobre scorso. E’ morto di botte. Solo, lontano dagli affetti familiari di cui è stato privato senza motivo. Il decesso viene certificato all’ospedale Pertini di Roma, dove era stato ricoverato per dolori alla schiena. Questa almeno la motivazione ufficiale riportata dall’Arma dei Carabinieri. All’ospedale Stefano arriva per mano di chi lo ha arrestato il 16 ottobre. Motivo dell’arresto: possesso e spaccio di droga, così hanno detto. Pare invece si sia trattato di due pasticche di hashish, prescritte dal suo medico per l'epilessia di cui pativa. In casa per la perquisizione e al carcere di Regina Coeli, dove lo portano i carabinieri, Stefano arriva sulle sue gambe. Ma già il giorno seguente, in udienza, Stefano Cucchi non è più quello del giorno prima. Il padre vede sul viso segni e tumefazioni che non può essersi procurato da solo.

Al giovane detenuto viene riservato uno strano trattamento, degno di un pericoloso criminale o di un mafioso, non di un giovanotto con un po’ di droga addosso. Non viene mandato agli arresti domiciliari, ma è sequestrato in carcere e poi spedito in ospedale. Per sei lunghissimi giorni i genitori e la sorella non possono avere colloqui con lui. Quando lo incontrano e lo rivedono è tardi ed è per l’ultima volta. Siamo nell’obitorio del Pertini e i familiari sono stati convocati per il riconoscimento.

Stefano è morto e disteso su quel gelido lettino. Addosso a lui dorme per sempre una storia strana e un finale losco. Ha un viso massacrato, segni dappertutto, un occhio è quasi fuori dall’orbita, la mandibola è fratturata. La morte ufficiale parla d’infarto. Non c’è altro. I Carabinieri, che escludono ogni forma di violenza, raccontano di un giovane che in quella notte maledetta si lamenta, dichiara di essere epilettico, ha forti mal di testa e viene accompagnato in ospedale per normali controlli, lì dove muore per cause naturali. Eppure questa morte non spiegherebbe il trattamento accanito e sproporzionato riservato al giovane, tantomeno il divieto imposto alla famiglia di vederlo. Quella morte non spiega niente. O spiega tutto.

Probabilmente era necessario occultare qualcosa di scomodo, forse proprio quei segni di terribile violenza che il giovane, come dichiara disorientata sua sorella, non può essersi inflitto autonomamente. L’indagine dovrà accertare di cosa realmente sia morto Stefano; le testimonianze sconcertate dei familiari raccontano una storia già nota agli italiani sulle divise di Stato, sulla loro impunità, sulla sospensione di ogni diritto civile nelle loro stanze e sull’omertà con cui sono solite coprire i misfatti o assolvere i responsabili.

Questa storia assomiglia a quella del giovanissimo Federico Aldovrandi, caduto vittima per mano della Polizia di Stato. Un clan di poliziotti rambo appena appena infastiditi dalla condanna per omicidio colposo, mentre Federico sta sotto metri di terra, morto per niente, per sfogo e per libido violenta delle divise di Stato. Il legale della famiglia di Stefano è lo stesso che seguì la vicenda Aldovrandi e i contorni delle due storie sembrano tratteggiati dalla stessa mano. Morti per repentini decessi naturali. Giovanissimi e in buona salute solo una manciata di ore prima. Sotto arresto e in balia dei poliziotti o dei carabinieri di turno. Visi e corpi tumefatti e pieni di botte. Tenuti lontano da casa. Famiglie avvisate tardi, solo alla fine.

Le indagini andranno avanti, ma l’ansia di giustizia porta già sulle spalle il peso di un’amara consapevolezza. In Italia si può morire senza verità. Si può al massimo ottenere una sentenza riparatrice che non basterà a togliere quell’immunità de facto con cui tanti utilizzano arma e divise, almeno con i più deboli ovviamente. Reati contro figli minori, contro cui si può pensare di farla franca.

La storia di Stefano Cucchi non è soltanto una storia personale. Chi vuole guardarla bene può trovarci la memoria di tanta storia della democrazia italiana, la militarizzazione crescente del controllo sociale e l’intoccabilità degli uomini dello Stato. Quelli che non vengono pubblicamente umiliati da condanne esemplari nemmeno quando uccidono. Quelli che non hanno mai alcuna evidente responsabilità penale e pubblica, perchè quando le divise non sono innocenti, sono al massimo delle mele marce. E quest’ultima moda o bieca strategia di difesa dovrebbe bastare a una madre e a un padre che seppelliscono un figlio ucciso?

di Mariavittoria Orsolato

Incappare nei disservizi delle Ferrovie dello Stato è forse il trait d’union più nazionalpopolare: ogni italiano, almeno una volta nella vita, ha inveito contro Trenitalia e la sua pessima gestione della rete ferroviaria. Ma se i treni sono perennemente in ritardo, i vagoni sono al limite dell’indecenza e i biglietti si pagano a peso d’oro, la colpa non è delle Fs ma delle Regioni. Parola dell’ingegner Mauro Moretti, amministratore delegato Fs, che in occasione dell’inaugurazione della nuova galleria che collega le stazioni torinesi di Porta Susa e Stura ha rilasciato al quotidiano La Stampa un’intervista in cui addossa tutte le responsabilità dell’inefficienza su rotaia alla mancanza di collaborazione delle Regioni. “Ricordiamo che forse non si sa che i treni, gli orari, le fermate, le tariffe, non sono cose che decidiamo noi: lo decidono le Regioni. Sono le Regioni a stabilire quanto far pagare agli utenti e quanto porre a fiscalità generale. E così si fanno i contratti di servizio”.

Certo, dopo la legge Bassanini del 1997, il trasporto regionale è coordinato con le Regioni, che agiscono come “cliente istituzionale” e decidono autonomamente quali servizi richiedere al concessionario statale, ma è anche vero che le Regioni non hanno alcun legame contrattuale con la divisione Passeggeri. Le Fs si dividono infatti in tre segmenti operativi: Passeggeri (Freccia Rossa, Eurostar, Intercity, Espressi), Trasporto Regionale (Interregionali, Diretti, Regionali) e Cargo (Treni merci), anche quando una buona fetta della mobilità interna alla Regione è affidata, in mancanza di treni diretti, agli Intercity.

Se a questo si aggiunge il fatto che la divisone Trasporto Regionale è l’unica che può contare su una quota di finanziamento pubblico, ovvero il corrispettivo di 12,2 centesimi a persona per kilometro percorso, mentre le altre due ramificazioni devono necessariamente fare affidamento sui proventi diretti del traffico, va da sé che Moretti batta il ferro dove questo può scaldarsi più facilmente.

E’ infatti questa tripartizione delle competenze che facilita la logica aziendale secondo cui i costi comuni vanno spostati il più possibile sulla divisione sussidiata e, giocoforza, i ricavi vanno spalmati su quelle non sussidiate, in particolare su quella Passeggeri. Se queste scelte manageriali sono di per sé plausibili in una prospettiva strettamente aziendale, non lo sono altrettanto nell’ottica dell’industria statale: così facendo, il costo dei servizi regionali lievita proporzionalmente alla diminuzione dei nuovi servizi quali carrozze pulite, coincidenze ferroviarie accessibili, puntualità dei treni e via dicendo.

C’è poi da aggiungere che nonostante le Regioni ricevano un bonus statale per l’attuazione dei servizi, questo è rimasto fissato ai parametri del 2000, subendo un’inflazione del 7% e quindi diminuendo di valore reale. In base a queste informazioni, si potrà capire come il trasferimento di competenze alle Regioni sia stato impostato come un processo statico, incapace di fronteggiare la crescente domanda di servizi e, allo stesso tempo, vincolante per tutte quelle Regioni che, scommettendo sul potenziamento delle linee ferroviarie, si sono trovate costrette ad affrontare autonomamente tutte le spese di ammodernamento, cavando così soldi di tasca propria per oggetti di cui non saranno mai proprietarie la 100%.

Uno spiraglio di luce s’era intravisto lo scorso 7 settembre, quando proprio Moretti aveva platealmente annunciato che dopo tre anni di risanamento, le Ferrovie dello Stato erano pronte a fare investimenti per due miliardi di euro nel settore del trasporto regionale e interregionale, con l’acquisto di 840 tra locomotori e carrozze e l’ammodernamento di oltre 2550 vagoni. I soldi, secondo il presidente delle Fs Innocenzo Cipolletta, sarebbero arrivati con i nuovi contratti di servizio con le Regioni ma almeno per ora le buone intenzioni sono rimaste sulla carta e ad oggi, ogni pendolare che decida di recarsi al lavoro in treno - facendo una scelta oltretutto ecologica e responsabile - accumula annualmente 70 ore di ritardo, oltre a svariati malanni del fegato ormai corroso.

Come é ovvio, gli interessi economici di Trenitalia non ruotano attorno ai trenini regionali, ma sono concentrati soprattutto sull’Alta Velocità, costata il quadruplo rispetto agli standard europei ed in perenne fase di definizione. Nel 2011, infatti, per effetto della direttiva europea sulle liberalizzazioni dei trasporti, entrerà nel mercato NTV (Nuovo Trasporto Viaggiatori) il nuovo soggetto ferroviario creato da Montezemolo e Della Valle, in associazione con Intesa-San Paolo e la francese SNCF. L’operazione, interamente orientata al trasporto rapido sulla lunga distanza, potrebbe andare a guastare il “piano di rinascita” portato avanti da Moretti e dalla direzione di Trenitalia. Di conseguenza, la rete infrastrutturale delle Regioni perde d’interesse e appeal finanziario e il federalismo ferroviario, voluto dalla legge Bassanini, si rivela un boomerang per le già tristemente vuote casse delle amministrazioni territoriali. E non importa che un dipendente statale come l’ingegner Moretti guadagni 830.000 Euro netti l’anno. In Italia, soprattutto se si parla di Stato, noblesse n’oblige pas plus.

di Rosa Ana De Santis

Hanno contratti a termine non rinnovati, sono in cassa integrazione, hanno collaborazioni interrotte, sono stati licenziati da un’azienda che ha perso l’appalto di turno, o vivono con pensioni minime. Sono loro, siamo noi: i nuovi poveri. L’Italia peggiore degli ultimi 50 anni, esibisce i nuovi titoli della povertà. Non è più povertà estrema, non è quella delle icone tradizionali. Vive e veste normalmente. La si trova nei paesi come nelle città, nelle campagne come nelle zone industriali, sempre più dismesse per fare posto alla delocalizzazione, che significa decentramento, parcellizzazione, isolamento e sfruttamento. Il rapporto presentato dalla Caritas a Roma denuncia un aumento significativo ed una nuova identità dei poveri italiani.

L’erosione costante di quello che un tempo veniva identificato con il ceto impiegatizio, il suo sprofondare negli inferi del sottoproletariato, delinea le facce, i luoghi e la disperazione delle nuove povertà, che chiedono aiuto e trovano indifferenza. Soprattutto al Sud le percentuali delle persone che chiedono aiuto sono in aumento. La conferma arriva dalle diocesi e dai centri d’ascolto coinvolti e monitorati per la stesura del rapporto. A bussare alle porte della Caritas non è il mendicante solito. La povertà ha cambiato faccia e vestiti, abitudini e rappresentazione.

Il 20,8% degli italiani ha chiesto aiuto per un sussidio economico a fronte di un reddito non più sufficiente per mantenere le consuete aspettative di vita. Sono nuclei familiari che spesso perdono, d’un colpo, la possibilità di vivere autonomamente ricorrendo all’appoggio dei familiari. I servizi vantaggiosi o gratuiti che ci aspetteremmo per le famiglie a basso reddito sono carenti. Soggetti a lungaggini burocratiche, a parametri non aggiornati rispetto ai nuovi numeri del bisogno, rischiano di risolversi - il più delle volte- in un nulla di fatto. Il paradosso, anche questo emerge dalla ricerca della Caritas e della Fondazione Zancan, testimonia l’anomalia per la quale le Regioni che più contano persone in difficoltà economica più spendono, peraltro senza alcuna finalizzazione riscontrabile nella politica del welfare.

Le Regioni in questione sono Sicilia, Sardegna e Basilicata dove le percentuali superano il 20%. Numeri a parte poi per gli stranieri che in Italia vivono una pagina buia della loro immigrazione: con le politiche restrittive loro imposte, rischiano l’invisibilità sociale e quindi l’impedimento di fatto a potersi affrancare da un bisogno che diventa endemico, stabile, connotativo di una condizione esistenziale, di un’identità.

La nostra povertà, in perfetto allineamento con quella mondiale segnalata dalla Croce Rossa e dalla Mezzaluna Rossa in Europa e in Asia, è figlia di una crisi globale parallela a una crisi sistematica dei diritti dei lavoratori e ad una speculazione affaristica per poche cupole. Nel nostro paese la politica deregolata sul lavoro ha nullificato tanto le garanzie e le protezioni del posto sicuro - ora tornato verbalmente di moda -  quanto, paradossalmente, quella del reale ricambio. La flessibilità si è sciolta totalmente, o quasi, nella precarietà. A pagarla spesso i giovanissimi, i più preparati, quelli che non hanno scelto di lasciare il Paese.

La povertà che non si vede e non si tocca è anche quella che non fa progetti. Che non ha la libertà e la sicurezza necessaria per farli. E’ quella dei pochissimi figli italiani, delle relazioni frammentate e chiuse a singhiozzi di tempo. Ma tutto sopravvive in una blindata normalità che ci è vicina, ci appartiene, è diffusa, non è sconvolgente. Ed è questo a condannare i nuovi poveri. Li vediamo e non li ascoltiamo. Per colmo di condanna, assomigliano troppo a tutti gli altri.
 


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