di Rosa Ana De Santis

A Roma le ruspe smantellano legnami e lamiere di una cittadella della vergogna: il Casilino 900. In condizioni igenico-sanitarie disumane, con l’illegalità rintanata tra bombole e roulotte, è diventata finalmente visibile alle Istituzioni. Alemanno e la sua giunta plaudono alla politica degli sgomberi, rivendicandone l’efficacia e la necessità. Un po’ troppo semplice pensare che passi da qui la soluzione. Il Garante dell’Infanzia del Lazio è l’unico in questo momento ad evidenziare la mancanza di progettualità in cui si sta consumando l’efficace scenografia delle ruspe al lavoro.

Dove andranno dopo gli sfollati? E i minori su cui piovono le buone preoccupazioni dell’integrazione e della scuola? Dove andranno a finire fintanto che non ci saranno i cosiddetti “campi autorizzati”? Sui nomadi in Italia si è sempre pensato di poter dispensare soluzioni allocative e null’altro. Bagni chimici, servizi, luce e gas, campi attrezzati in disparte dalle aree urbane. Tutto questo è stato il problema degli zingari nel nostro Paese. Così quando nel campo nomade di Salone, qualche anno fa, nascevano delle tecnostrutture interne per accogliere i bambini in aree ricreative e favorire la strategia dell’integrazione, il Comune decise di abbatterle per costruire nuove baracche. Nessun accenno al continuo ammassarsi di gente nei campi già sovraffollati e agli ingressi fuori controllo dalla Romania, che conta il maggior numero di gitani in Europa.

Nessuno parla poi dei figli dei Rom. Quelli che sono nati in Italia, che non hanno cittadinanza, che classifichiamo come nomadi, ma che nella realtà sono apolidi. Bambini senza Stato né diritti di cittadinanza. Un vulnus non da poco per le istituzioni liberali. Nessuna analisi sul lungo periodo, scevra da pregiudizio o dal buonismo, ha mai occupato la scena politica se non nei momenti di propaganda elettorale; proprio questo metodo ha messo il nostro paese nelle condizioni di collezionare insuccessi e lacune da record nel panorama europeo. Il Ministero degli Interni ha preferito avanzare l’ipotesi di un censimento dei minori, rudimentale e improvvisato nei metodi e negli scopi, piuttosto che parlare di un ufficio centrale permanente - con funzionari di Stato e mediatori culturali - e di un coordinamento nazionale. Ad oggi sono le associazioni e i volontari gli unici ad entrare nel mondo dei rom e dei sinti.

Le Istituzioni non si sono accorte che non hanno a che fare con i gitani di cui ci parla la storia. I nomadi sono diventati stanziali e la politica della segregazione ha finito sia per esasperare il malcontento e la frustrazione dei cittadini - che individuano nei campi nomadi isole immuni dalla legge e dalle regole - sia i diritti fondamentali degli stessi segregati. Una doppia sconfitta in cui l’atavica discriminazione e intolleranza contro i gitani, di cui sono purtroppo ricche le pagine del passato, è diventata comoda all’indolenza della politica. Fanno i cittadini da soli quello che le Istituzioni non riescono a dire o a fare.

Vicino a noi, in Francia, il metodo Sarkozy, da Ministro dell’Interno, ha unito la tolleranza zero all’illegalità con la garanzia di un’accoglienza umana e dignitosa. I campi sono davvero considerati transitori ed esiste un programma “immobiliare” progressivo per gli stanziali, i quali, conservando intatti tradizioni e costumi, non sono esonerati da quello che vale per tutti gli altri cittadini stanziali: tasse e lavoro. La Francia non ha risolto il problema di tutti i suoi gitani, ma non c’è dubbio che la cornice politico-programmatica perseguita, senza sconti di rigore né di attenzione ai diritti fondamentali di queste persone, è un esempio di come si possa favorire l’integrazione reale e ridurre nel tempo quell’odio sociale che è sempre più facile invece respirare nelle periferie della grandi città italiane. Lì dove il degrado di queste aree dimenticate entra, senza mediazioni e con tutte le contraddizioni che possiamo immaginare, nelle case delle cassi sociali più umili del Paese.

L’emotività che da noi condiziona la classe politica e i lacci e lacciuoli di alcune investiture ideologiche e moraleggianti hanno impedito finora che le istituzioni ragionassero in modo pragmatico e lucido sulla questione dei finti nomadi. Consentendo così che questi fazzoletti di terra di nessuno diventassero campi di sfogo per il razzismo spontaneo e per la più bassa esasperazione popolare. Rimanendo fuori dai recinti dei campi ed entrando solo con le ruspe della tabula rasa. Un esercizio di sovranità che assomiglia ai compiti di un esercito più che a quelli di un governo. Certo è che in condizioni di disumanità queste persone hanno l’unica possibilità di diventare disumane. E i fantasmi del passato tornano a respirare.  

di Mariavittoria Orsolato

Una barzelletta di dubbio gusto, nonché parecchio irrealistica, racconta che se mai un giorno il Po si dovesse prosciugare, sul letto del fiume invece che i ciottoli e la sabbia, si troverebbe uno spesso strato di cocaina. La battuta è circolata a tal punto, che persino rispettabili telegiornali come Studio Aperto ne fecero servizi pieni di angosce e timori. Che la suddetta barzelletta sia una verità di Bertoldo lo si sapeva da un pezzo, ma ad ulteriore conferma che il nostro è un paese di cocainomani, arriva un rapporto da Bruxelles in cui si precisa come in Italia i consumatori abituali di polvere bianca siano lo 0,8% della popolazione, contro una media europea dello 0,4%.

L’osservatorio europeo sulle droghe e le tossicodipendenze - che dal 1993 raccoglie e analizza tutte le informazioni disponibili su questo fenomeno culturale - ha affermato preoccupato che oltre 13 milioni di europei hanno provato cocaina almeno una volta nella loro vita, di questi la metà esatta sono giovani tra i 15 e i 34 anni.

L’agenzia europea con sede a Lisbona ha quindi confermato che la cocaina rimane lo stimolante più popolare d’Europa, sottolineando però che questo fenomeno interessa soprattutto la parte occidentale dell’Unione: l’Italia infatti rivaleggia, in termini di dipendenza diffusa, con Danimarca, Spagna, Irlanda e Regno Unito, tutti paesi in cui il consumo tra i ragazzi è attestato sul 4%. Accanto a questo fenomeno, l’Oedt ha riscontrato che il sempreverde spinello, pur restando la sostanza illecita più comunemente usata in Europa con una media di 74 milioni di consumatori, sta registrando delle flessioni importanti in termini di diffusione e consumo, soprattutto nei giovanissimi.

Pare quindi che malauguratamente gli under 30 stiano spostando la loro attenzione dalla cannabis alla cocaina, in un contesto di policonsumo che interessa soprattutto l’alcool. Ora, se le motivazioni di questo boom europeo della “bamba” non ci sono date sapere, in Italia il singolare fenomeno di deviazione sui consumi può essere spiegato facilmente con le norme introdotte dall’ultima revisione operata al testo unico sulle droghe.

La legge 49 del 2006, meglio nota come Fini-Giovanardi, va infatti a modificare le tabelle sulle sostanze, equiparando hashish e marijuana alla cocaina e distruggendo quelle che erano le distinzioni tra droghe leggere (indubbiamente le prime) e droghe pesanti (inevitabilmente la seconda). Non solo, per quanto riguardava la severità delle sanzioni, il duo legislativo si era concentrato soprattutto sulla “piaga” degli spinelli ed aveva elevato in modo spropositato le pene pecuniarie e detentive per lo spaccio ed il consumo.

La beffa di questa legge, che fece inviperire non poco gli antiproibizionisti delle penisola, consisteva nel fatto che assimilando la cannabis alla polvere bianca, anche la quantità tollerabile per il consumo personale è stata parificata a 5 grammi. La differenza, non poi così sottile, è che se 5 grammi di marijuana non sono poi così tanti, 5 grammi di cocaina per il consumo personale sono un’enormità. Questo escamotage ha permesso una diffusione capillare dello spaccio: dal momento che le dosi ordinarie di polvere bianca si aggirano sugli 0.70 grammi, il quantitativo permesso dalla legge a uso personale corrisponde a circa 7 dosi pronte da smerciare. Se a ciò si aggiunge che la nostra penisola - grazie ai traffici della ‘Ndrangheta - è la testa di ponte per la cocaina che, in arrivo dalla Colombia, va poi in tutta Europa, ben si capiranno le motivazioni che hanno spinto ad una così poco felice modificazione dell’esistente legge Turco-Napolitano.

La facilità con cui si riescono a reperire bustine di polvere bianca ha poi fatto crollare i prezzi, rendendo una dose accessibile veramente a chiunque: se fino a qualche tempo fa la coca era infatti considerata una droga da ricchi, adesso nelle piazze italiane un “pezzo” (circa 0,70 grammi) si può comprare con soli 40-50 euro. La valutazione sui prezzi é utile anche a spiegare il fenomeno di flessione che ha caratterizzato la cannabis, compagna di sventure nella legge Fini-Giovanardi: il prezzo che caratterizza una dose di coca al dettaglio, è circa 5 volte il costo di una pari quantità di marijuana e 10 volte quello dell’hashish. Dato che le pene si sono inasprite per la cannabis ma si sono notevolmente raddolcite nei confronti della polvere bianca, il mercato nero ha ovviamente spinto sulla distribuzione che rende di più e con cui si rischia di meno.

Questa inflazione ha così permesso alla sostanza di diffondersi tra tutte le classi sociali e di insidiare ogni generazione, diversificando di conseguenza le pratiche di consumo. Oggi la cocaina non si usa solo per movimentare le serate mondane: si sniffa nei bagni delle scuole prima delle interrogazioni, negli spogliatoi delle fabbriche per star svegli durante i turni di notte e, come le recenti cronache hanno abbondantemente documentato, la si usa (oltretutto a torto) come coadiuvante durante le prestazioni sessuali.

Esattamente 3 anni fa, gli inviati de Le Iene effettuavano un “drug test” in Parlamento all’insaputa degli interessati. Subito dopo la messa in onda, il servizio scatenava enormi polemiche: non tanto sul fatto che un deputato su tre risultasse positivo al test (l’8% dei quali alla cocaina), quanto piuttosto sull’imperdonabile violazione della privacy che Le Iene avevano operato nei bagni di Montecitorio. Oggi il cosiddetto “sistema Tarantini”, svela come in realtà la polvere bianca sia una potente merce di scambio e un’immancabile corollario a qualsivoglia tipo di incontro politico privato. Non ci stupiamo se allora quella della cocaina è ormai definibile come “cultura”.

di Alessandro Iacuelli

Capita a volte di sorridere, nel leggere le notizie dai giornali, anche quando si tratta di giornali autorevoli. Stavolta è il turno del Corriere, che racconta la storia di Lucky, Flo e Ruca. Non sono esseri umani, sono dei cani, in particolare dei Labrador, presentati come in grado di riconoscere grazie all'olfatto i CD e DVD copiati. Secondo gli addestratori, i cani sono in grado di fiutare il policarbonato, e di conseguenza sarebbero, e il condizionale è d'obbligo, la nuova frontiera della lotta contro il contrabbando di film e CD copiati. Cani che non sono stati addestrati per fiutare e scoprire droga o esplosivo, ma policarbonato, e sostanze plastiche di cui sono composti i dischi. Tutti i dischi, non solo quelli falsi.

Al momento gli animali sono usati in Portogallo, Malesia, Messico e Stati Uniti, e si stanno già diffondendo per il mondo; hanno imparato a "girare per mercati e vie sospette e a scovare pile di materiale contraffatto". Anche se, come al solito, non sarà certo il cane a stabilire quali vie sono sospette e quali no, all'interno di una città.

I primi labrador a imparare questo nuovo "mestiere", il fiutare CD e DVD, non sono stati addestrati da qualche corpo di polizia. In questo le polizie c'entrano ben poco. L'idea, infatti, è venuta a Dan Glickman, presidente dell’Associazione dell’Industria cinematografica statunitense (MPAA). Erano due cani abbandonati in un canile del nord Irlanda e avevano due anni di età. Dunque, un'iniziativa privata da parte di un'associazione confederale di industriali. Con una forte contraddizione che emerge facilmente.

Il loro addestratore, Michael Buchan, vicedirettore dell’intelligence della Mpaa - già, perché l'associazione confederale degli industriali della musica ha un proprio servizio d’intelligence - inizialmente non era molto convinto dell'affidabilità del metodo, poi successivamente si è dichiarato sorpreso dal risultato: "Ovviamente", viene riportato sulle pagine del Corriere, "gli animali non riescono a distinguere dischi originali da dischi falsi, ma laddove c’é il sospetto di contraffazione danno una grossa mano per scovare enormi quantità di materiale nascosto".

Per diffondere questa metodologia, la MPAA ha patrocinato una tournée dei due cani in Usa e in Europa per "sensibilizzare il mondo al problema della contraffazione di opere intellettuali". Questa "sensibilizzazione" si basa, secondo le dichiarazioni della MPAA, sul fatto che la contraffazione di CD e DVD ha messo in ginocchio l’industria mondiale discografica e cinematografica, solo in Italia si calcola un giro d’affari di 2 miliardi e mezzo di euro.

Ma le contraddizioni emergono lo stesso. Ci si chiede ad esempio come mai a costruire le attrezzature per la riproduzione di quelle "opere intellettuali", come masterizzatori e batterie di masterizzatori, CD e DVD scrivibili, siano le stesse industrie aderenti alla MPAA, le stesse che poi vogliono combattere la copiatura massiccia, permessa dalle loro stesse apparecchiature.

C'è poi un'altra contraddizione, ed è quella che riguarda i soldi. Molte volte è stato chiesto alle industrie discografiche come mai sia sorta un’industria parallela della contraffazione. Le risposte sono sempre state vaghe, e mai riassunte nell'unica frase sensata che si potesse dire: i CD costano troppo. Certo, in alcuni casi è stato fatto notare alle case discografiche questo costo oggettivamente elevato dei CD, e la risposta dei discografici è sempre stata la stessa: "Il costo è elevato perché comprende non solo la registrazione e la produzione, ma anche le campagne pubblicitarie che sono oggettivamente costose, poiché realizzare un videoclip musicale ha dei costi elevati, e tutto il battage pubblicitario costa moltissimo".

Ci troviamo quindi davanti ad una strategia di marketing palesemente sbagliata! Una strategia di marketing, quella basata sui videoclip e tutto il resto, che costa più del prodotto stesso e che fa lievitare i costi dei CD così tanto da riuscire a far addirittura diminuire le vendite ed orientare una parte consistente di potenziali clienti verso il mercato della contraffazione. Il compito di ogni strategia di marketing dovrebbe semmai essere quello di far aumentare le vendite, ma l'industria discografica insiste su questa via, preferendo poi combattere la contraffazione sul piano della repressione.

In realtà, la contraffazione di massa, come tutte le attività criminali organizzate, possono essere combattute solo con la convenienza: quando i CD e i DVD avranno costi non triplicati rispetto al loro reale valore, e soprattutto costi concorrenziali a quelli del mercato della contraffazione; acquistare un CD non originale non sarà più conveniente, più semplice e lineare di così...

Di certo, la soluzione non è nell'uso di cani che non sono in grado di distinguere un CD vero da uno falso. Così come non vorremmo, in un ipotetico futuro che piace alla MPAA, essere fermati per strada perché un cane si è accorto che abbiamo un CD nella borsa, con un solerte agente che vorrà controllare se è vero o contraffatto.

di Rosa Ana De Santis

La storia di Stefano Cucchi comincia quando finisce la sua libertà. Sta fumando uno spinello con un suo amico. Subisce un controllo e una perquisizione, gli trovano 18 grammi di hashish, qualche pasticca. Viene fermato e arrestato. E’ sano. Sta bene. Cammina sulle sue gambe. Viene trasferito in una caserma dei carabinieri. Alla famiglia vengono riconsegnate le chiavi della macchina e gli viene detto che trattasi di fermo a soluzione rapida, più una operazione di routine che altro. Questa sarà la prima delle tre comunicazioni che la famiglia riceverà dalle istituzioni. La seconda li avviserà della detenzione ospedaliera e dell’impossibilità di vederlo senza l’autorizzazione del magistrato; la terza della morte di Stefano. Dev’essere così che va, in un paese dove in 11 mesi sono morte 62 persone in carcere, dove le celle scoppiano, gli istituti somigliano a cayenne e i processi sono bloccati, ma dove si dice che l’emergenza giustizia sono i magistrati “rossi”.

Parlare di questa morte significa, prima di tutto, guardare la morte di Stefano. Le foto che circolano su internet e sulla carta stampata rappresentano uno scomodo imbarazzo, oltre che un significativo ostacolo a tutti i tentativi di chiudere il caso con la teoria dell’accidentalità, del caso fortuito o del decesso naturale. Gli ultimi giorni di vita del giovane detenuto sono scanditi tra carcere e ospedale ed è in questa ricostruzione temporale che sta il centro delle responsabilità e delle colpe. Le diverse istituzioni chiamate in causa e il luogo in cui Stefano è stato condannato a morte. Le foto di Stefano sono la sola risorsa che ha potuto, finora, disinnescare l’omertà consueta. Come ha scritto Adriano Sofri su La Repubblica, “nessuno è tenuto a guardarle. Ma nessuno è autorizzato a parlare di questa morte senza guardarle”.

Sarà il magistrato a stabilire quali, tra le figure che si sono occupate di Stefano, ha responsabilità dirette o indirette nella sua tragica fine. Stefano ha 31 anni, è epilettico e pesa circa 44 chili, diranno poi. Potrà essere dimostrato un caso di malagiustizia o di malasanità, ma un fatto è certo. Stefano viene arrestato sano e viene ricoverato al Pertini in condizioni gravi. Ha subito colpi durissimi al volto e alla schiena. Perché?

Fino al processo è ancora in piedi, per quanto il volto sia segnato dai colpi ricevuti. Ma nessuno, né i carabinieri che lo accompagnano all’udienza per direttissima, né l’avvocato d’ufficio, né il giudice stesso, che pure ordina di visitarlo, chiedono ragione di quei segni sul viso. Solo il padre, che ha tempo unicamente per abbracciarlo, senza sapere che sarà per l’ultima volta, nota le percosse. Viene ordinata la custodia cautelare perché, si dice, senza fissa dimora. Non è vero, la dimora ce l’ha ed è quella dei genitori, dove i carabinieri hanno citofonato per avvisarli dell’arresto.

Sarà il medico del carcere che, nonostante (almeno così dicono) Stefano rifiuti il ricovero, stabilisce che la sua condizione fisica vada accertata in un reparto ospedaliero, ritenendo quel corpo martoriato incompatibile con il regime carcerario. La domanda è semplice: in che condizioni Stefano giunge in carcere dopo il processo? Le stesse in cui versava in aula o sono ulteriormente peggiorate?

Dopo la lettura della sentenza, che confermava il fermo e ordinava il suo trasferimento in carcere, Stefano aveva dato in escandescenze, prendendo a calci una sedia dell’aula del tribunale. Dal tribunale viene condotto in carcere tramite la polizia penitenziaria. All’arrivo nell’istituto di pena, però, il medico competente stabilisce il suo immediato trasferimento in ospedale per accertamenti diagnostici. Perché? Cos’è successo nel tragitto tra il tribunale e il carcere o, comunque, da quando Stefano è scomparso dalla vista del giudice fino a quando è ricomparso alla vista del medico? Forse la polizia penitenziaria potrebbe spiegarlo, se non fosse indaffarata a raccontare scuse. Potrebbe aiutare a chiarire se non occupasse il suo tempo a dire che il suo comportamento è irreprensibile.

La posizione dei sanitari dell’ospedale Pertini è tragicomica. Dapprima riferiscono di non essersi resi conto dei segni sul viso perché Stefano ha il lenzuolo che gli copre il volto. Quindi, a sentir ciò, viene ricoverato in base ad una diagnosi immaginaria, visto che non è possibile sapere cos’ha il paziente-detenuto. Successivamente, Stefano viene sottoposto ad una radiografia che conferma le fratture e ad un esame dell’emocromo, che non farebbe pensare ad emorragie interne. Sempre con il volto coperto?

Nel Paese che fa le veglie per la vita di Eluana, nel Parlamento che tutela la vita delle persone in stato vegetativo cronico a colpi di alimentazione e idratazione forzata, si può lasciar morire un ragazzo come Stefano? I familiari di Stefano, e tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, sanno solo due cose: sanno che Stefano è stato sano finché libero e che da quando è divenuto detenuto ha cominciato a morire per percosse per poi finirla per arresto cardiaco.

Sanno che, come Federico Aldovrandi e come troppi altri, sono stati uccisi dalla ferocia questurina di chi si sente legittimato ad imitare il ventennio fascista grazie al clima politico imperante. Tutti coloro che non amano bersi tutto quello che i colpevoli raccontano per definirsi innocenti, chiedono che i colpevoli paghino. Questa volta, per la prima volta, finalmente paghino.

di Mario Braconi

Il modo in cui sui media si parla di H1 N1 è decisamente allarmistico, addirittura ansiogeno per l'uomo della strada. In compenso, le case farmaceutiche migliorano il proprio conto economico, grazie a vendite record di farmaci quasi inutili e, chissà, forse anche di ansiolitici. Nel Regno Unito, lo scorso aprile gli epidemiologi avevano immaginato un numero di 100.000 contagiati al giorno al momento di picco della cosiddetta "pandemia", mentre, secondo lo scenario più devastante, un terzo della popolazione sarebbe stata infettata (65.000 morti). I numeri veri, fortunatamente, raccontano un'altra storia, assai più rassicurante: a metà ottobre, in quel paese si contano un totale di 83 decessi per H1 N1, su 370.000 infettati (tasso di mortalità pari allo 0,02%).

Non solo il virus sembra essere assai meno aggressivo di quanto si ritenesse inizialmente, ma, come scrive Simon Garfield sull'Observer dello scorso 25 ottobre, "siamo riusciti a sopravvivere nonostante i farmaci proposti per combattere la pandemia, solo marginalmente più efficaci delle nostre normali difese immunitarie." Stiamo parlando di Tamiflu e Relenza, prodotti rispettivamente, dalla Roche e della GlaxoSmithKline (GSK).

Il principio attivo del Tamiflu venne ideato al virologo Peter Colman che, già nel 1983, si sforzava di comprendere le ragioni della capacità del virus dell'influenza di mutare di anno in anno. Colman si concentrò sullo studio degli inibitori della neuroaminidase, un enzima che presiede il processo di diffusione del virus presso cellule sane. L'Australia's Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO), presso cui Colman lavorava, cedette la ricerca ad una società farmaceutica, la Biota, in cambio di una royalty sulla vendita di prodotto farmaceutici da essa derivati. Dopo tre anni di ricerca, Biota confermò la validità del principio attivo, anche se poi lo concesse in licenza alla Glaxo: solo una grande farmaceutica, con le sue notevoli risorse, infatti, avrebbe potuto sperimentare il farmaco su larga scala.

Il componente GG167, uno degli innumerevoli che Biota aveva passato a Glaxo per i test e che presto sarebbe stato ribattezzato con il nome commerciale di Zanamivir, risultò particolarmente efficace: il suo vero punto di forza era, pare, quello di combattere la neuroaminidase contenuta nel virus dell'influenza senza fare danni gravi alla neuroaminidase normalmente contenuta nelle cellule sane del corpo. Secondo Richard Bethell, l'enzimologo di Glaxo che sviluppò il prodotto, Zanamivir era in grado di "ridurre i sintomi dell'influenza del 30 - 40%". Il difetto dello Zanamivir, cui il marketing di Glaxo aveva nel frattempo trovato un nome ancora più simpatico (Relenza, crasi di "Relief from Influenza", ovvero cura dell'influenza), era che doveva essere somministrato per inalazione con il Diskhaler, un aggeggio simile ad una modellino di astronave. I preparati anti-influenzali, infatti, sono tradizionalmente in pillola; e la Roche stava ormai tallonando la Glaxo con un preparato molto simile al Relenza, ma che poteva essere realizzato in pillole (il Tamiflu).

Nonostante l'entusiasmo con il quale la Glaxo spingeva il Relenza, già nel 1999 il National Institute for Health and Clinical Excellence (Nice) rifiutò di approvare il medicamento sostenendo che i suoi benefici fossero insufficienti. Sempreché assunto entro 48 ore dall'infezione, il farmaco avrebbe potuto giovare ai gruppi a rischio (anziani, portatori di malattie respiratorie o cardiache croniche, diabetici di tipo 1). Tuttavia, il NHS (National Health Service, Servizio Sanitario Nazionale) si raccomandò di non utilizzare lo Zanamivir in persone in condizioni di salute generali buone. Insomma, il Relenza è, nella migliore delle ipotesi, un farmaco utile in casi limitati.

Nel 2006 la rivista medica The Lancet realizzò una ricerca avente ad oggetto 19 studi sulle medicine anti-influenzali, la cui conclusione fu netta: "Non c'è ruolo per gli inibitori della neuraminidase nel trattamento dell'influenza". Tra l'altro, un altro studio, pubblicato sempre su The Lancet a settembre del 2009, ha dimostrato che l'affermazione delle case farmaceutiche, secondo cui Tamiflu e Relenza avrebbero ridotto del 30-40% i sintomi dell'influenza, era molto ottimistica. Nella migliore delle ipotesi, la durata della malattia veniva ridotta di poco più di mezza giornata (un giorno, per i soggetti a rischio di complicanze); il che, quando si parla di un decorso che normalmente si protrae per una settimana, corrisponde ad un taglio del 15% - metà di quello minimo pubblicizzato. Il tutto senza considerare che, se il farmaco non viene assunto entro le 48 ore dall'infezione, gli effetti si avvicinano allo zero assoluto, fermi restando eventuali effetti indesiderati.

Eppure, riporta sempre Garfield sull'Observer, i governi mondiali hanno acquistato 270 milioni di terapie di Tamiflu dal 2006 (di cui la metà negli ultimi sei mesi); la GlaxoSmithKline, o GSK, (ex Glaxo) ha aumentato la sua capacità produttiva per arrivare a realizzare 190 milioni di dosi di Relenza per fine 2009 (il triplo della sua produzione normale). Si stima inoltre che il solo governo britannico abbia acquistato Tamiflu e Relenza per un valore di mezzo miliardo di sterline, un esborso pari a circa la metà della budget complessivo per l'emergenza influenza suina.

Non a caso GSK, che quest'anno ha perso un mucchio di soldi a causa della scadenza dei brevetti sulle sue medicine più vecchie, grazie alla "pandemia" di influenza H1 N1 - vera o immaginaria poco importa - riuscirà a cavarsela piuttosto bene: il fatturato del terzo trimestre del 2009 è cresciuto del 15%, grazie soprattutto all'effetto Relenza. Inoltre, l'azienda ha annunciato di aver ricevuto ordini per 440 milioni di dosi del suo vaccino contro all'influenza dall'evocativo nome Pandemrix (da "pandemia"), appena approvato dalla Unione Europea. Dopo aver fatto il pieno con le vendite del praticamente inutile Relenza, nell'ultimo trimestre del 2009, periodo in cui si procederà all'immunizzazione di massa della popolazione, GSK porterà a casa l'equivalente di oltre 1,1 miliardi di Euro.

GSK non ha ritenuto di commentare le indiscrezioni secondo cui il nuovo vaccino costerà nei paesi industrializzati 7 euro, a fronte di un costo industriale stimato attorno all'euro (un ricarico del 700% su un farmaco spacciato come di importanza primaria pare un tantino eccessivo). Anche Roche non se la passa male: a metà ottobre, ha riportato vendite di Tamiflu per 2 miliardi di franchi svizzeri, un incremento pari a quasi 4 volte il fatturato dell'anno precedente.

Per quale ragione i governi sperperano denaro pubblico acquistando farmaci che si sono dimostrati insufficienti a sconfiggere una normale epidemia di influenza, figuriamoci una pandemia? Secondo l'Observer, la risposta è la disperazione. "A dispetto degli spettacolari progressi medici, ogni anno siamo messi al tappeto da un vivaio di virus comuni che minacciano di mutare in modo da andare fuori controllo. E questo è un fallimento duro da ammettere. Una pandemia potrebbe moltiplicare gli effetti di questo fallimento, e questo preoccupa i governi responsabili, al punto da spingerli ad agire, anche sapendo dell'inadeguatezza delle misure messe in campo. Ma questa politica è saggia? O invece finirà per peggiorare la nostra salute futura?".


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