di Rosa Ana De Santis

Roma è ancora una volta teatro di azioni selvagge e violente contro gli omosessuali. Una coppia gay è stata pestata da un gruppetto di giovanotti con la testa rasata. Il rigurgito contro la differenza e il rifiuto della diversa identità sessuale è radicato, è viscerale. Gli aggressori sono sempre gli stessi. Ragazzi di estrema destra, calamitati nella rete di una nostalgia nera, attaccata come colla a una pagina funesta di storia contemporanea. Le parole di solidarietà del sindaco Alemanno e del Presidente della Regione Lazio arrivano puntuali. Ma la politica deve aver chiaro, dietro gli allori delle commemorazioni, l’allarme e l’urgenza con cui intervenire. Bisogna fare qualcosa e subito perché non è più solo il gesto isolato di uno Svastichella qualunque. E’ un fronte politico compatto che da diverso tempo organizza azioni di pestaggio ed azioni punitive ai danni degli omosessuali. Riconoscibile il loro look da skinhead e il richiamo allo squadrismo dei camerati.

Un errore quello di invocare intolleranza e addirittura il bullismo. Una scelta di tiepida cautela che il sindaco di una città colma d’intolleranza non può permettersi oltre. Non è sempre il tempo di analizzare la gioventù dispersa, senza riferimenti, non è sempre il tempo dei ragazzi fuori e di quelli di strada. In alcuni casi, e quest’ennesimo avvenimento di violenza lo conferma, è il tempo di riconoscere una pericolosa riesumazione di codici e religioni politiche criminose. La coppia aggredita è stata accerchiata e malmenata da un gruppetto di giovani fascisti. Sono stati proprio loro, i picchiatori in fasce, a definirsi così. Per quanto il sindaco possa avere il cuore nel suo passato, da sindaco sarebbe ora che prendesse qualche provvedimento.

La risposta delle Istituzioni deve partire dall’alto e dal basso. Da una parte in campo c’è la questione della legge ad hoc - forse bipartisan - contro l’omofobia, che non piace a molti per ragioni di bigottismo parrocchiale, dall’altra il lavoro capillare sul territorio. Vorremmo veder partire per le strade della capitale una forte campagna. Vorremmo leggere la firma del sindaco sotto tappeti di manifesti che condannano con disonore i raid dell’estrema destra. Vorremmo veder partire azioni di educazione nelle scuole. Vorremmo che non fossero patrimonio soltanto dell’Arcigay le campagne d’informazione e di sensibilizzazione.

Secondo Jean-Leonard Touadì, deputato del Partito democratico, sotto la giunta Veltroni Roma era una città più “aperta” e meno intollerante e la conta delle aggressioni subite dagli omosessuali - 53 dall’inizio dell’anno - e dei raid veri e propri (7 contro i locali gay da maggio scorso) non ci suggerisce affidabili scenari di fiducia. Il sindaco di Roma si unisce alle fiaccolate contro tutti i razzismi, ma preferisce pensare a picchiatori isolati e a discriminazioni che non hanno affinità con alcuna tradizione politica. Sarà perché è storia dell’album di famiglia, ma proprio non si riesce a sentirlo denunciare un pericolo di neofascismo nella Capitale, un pericolo d’incolumità oltre che di riconoscimento per tutte le minoranze.

Eppure i fatti stanno lì, tutti in fila e molto chiari. Diritti civili calpestati, omosessuali rifiutati come appestati, negri da cacciare in altre cronache recenti. Questo cantano le periferie della nostra città. Quelle dei più poveri che si sono trasformati nei nuovi camerati. E non c’é bullismo e psicologia giovanile che possa inventarsi altre e nuove spiegazioni. Questa volta è storia del passato. E questa volta forse è tornato.

di Rosa Ana De Santis

La politica perbene li chiama “diversamente abili”. Un titolo edulcorato che attenua, per paura di sfiorare la discriminazione, quella prigione di concreto impedimento e di doloroso svantaggio che queste persone hanno tutti i giorni. Soggetti di diritto che hanno meno possibilità degli altri cittadini, per natura o per accidente, per responsabilità o per cieco fato. Ed è doveroso ricordarlo senza sconti di poesia, soprattutto quando viene negato loro ogni sacrosanto diritto.

Davide è un ragazzino di 11 anni, è spastico e vive nella provincia di Piacenza. A scuola dove dovrebbe vedere garantiti i propri diritti e le proprie ore di didattica, l’integrazione nella classe, la condivisione della giornata scolastica con i compagni, proprio lì si è visto togliere 10 ore di sostegno, da 23 che aveva negli anni precedenti è arrivato a 13. Proprio lui che ne ha bisogno prima degli altri.

E’ iniziato così il suo anno scolastico, nonostante sia riconosciuto come disabile grave dalla legge 104. Il padre, Roberto Volpi, si è sentito rispondere che il Provveditorato non può fare altro, né di più, senza neppure il disturbo di argomentate giustificazioni. La famiglia ricorrerà al Tar. Tredici ore sono davvero troppo poche per la carriera scolastica e il supporto generale di cui hai bisogno un ragazzo, soprattutto nell’età della media inferiore, con la patologia invalidante del piccolo Davide.

Certo, se la sua famiglia potesse disporre di mezzi economici, allora potrebbe soprassedere alle lacune insopportabili di una scuola pubblica che collassa sotto i debiti e le manovre sadiche di una ragazza che gioca a fare il Ministro della Pubblica Istruzione. Se pure potessero fare a meno del pubblico pagando centri di assistenza privati, non lo faranno e andranno in Tribunale. Questo conta, oggi più che in passato, oggi che la minaccia incombe sui banchi dei figli di tutti.

Settembre ha visto classi sempre più numerose, con i precari lasciati per strada da un Ministero che non può stabilizzarli, con sempre più disabili rispetto ai numeri previsti dalla normativa vigente. La circolare partita dal Ministero agli uffici regionali raccomanda di seguirli con la “dovuta attenzione”. E si fa fatica a capire come questo possa accadere quando già la didattica ordinaria con una classe numerosa è difficile e obtorto collo meno efficace. Una conciliazione tutta a carico dei docenti superstiti, sempre più umiliati a fine mese e con sempre meno possibilità di fare il proprio lavoro come si conviene.

La Federazione italiana per il superamento dell'handicap ha dovuto faticosamente mediare tra le proteste dei genitori e l’autonomia degli istituti scolastici che in numerosi casi è andata in conflitto proprio con le disposizioni ministeriali in merito alla costituzione delle classi. E’ così che il Ministero rincorre le schegge impazzite della riforma e dell’autonomia delle scuole. A colpi di circolari che invitano a monitorare, verificare, segnalare.

Il binomio costituitosi in questi ultimi anni tra tagli pesantissimi e autonomia scolastica ha portato a questo. A un Ministero che rincorre affannosamente l’applicazione delle sue stesse normative, a colpi di circolari. Un’impietosa barzelletta che lascia già intravedere all’orizzonte la versione italy del federalismo su tutta la scala del pubblico. Ma intanto Davide come farà? E quanto tempo ci vorrà per rimediare? E quelle classi numerose, con tre e quattro ragazzi disabili come andranno avanti quest’anno?

Benvenuti alla scuola alla rovescio. Tagli e autonomia scolastica hanno ridotto di concerto il pregio di una scuola pubblica eccellente in un organismo acefalo che perde colpi, senza rimedio. E’ per farci ridere di questa scuola, forse, che qualcuno propone di dedicare ore preziose all’insegnamento dell’idioma dialettale, mentre i nostri studenti in giro per l’Europa si fanno riconoscere dall’inglese maccheronico. E’ per mettere un’ipoteca sul futuro, forse, che la scuola lascia a terra quelli che da soli sono meno forti degli altri.

di Rosa Ana De Santis

La storia è quella di una voce dissonante dall’impero monocorde della Chiesa Romana. E’ il ritratto di una figura religiosa che ha agito in libertà su diversi fronti, troppo in bilico per il rigore d’ufficio del Vaticano. Il protagonista è Frate Benito Fusco e dovrà lasciare l’eremo di Ronzano. La Curia bolognese sembra non aver digerito la sua adesione pubblica alla difesa della libertà di scelta di Eluana. Ufficialmente è l’Ordine ad aver preso questa decisione, ma non era certamente nell’ombra il disappunto delle alte sedi ecclesiastiche. Sarà trasferito forse proprio per quella firma apposta alla legge sul fine vita. Il voto di obbedienza lo obbliga a seguire le decisioni prese dal priore dell’Ordine cui appartiene, i Servi di Maria, senza troppe discussioni. Arriveranno dei nuovi a sostituirlo nella programmazione delle attività dell’eremo.

Frate Benito Rusconi ha un passato un po’ troppo disordinato per i gusti del clero. Militante nelle rivolte studentesche degli anni settanta, vicino alle storie più dimenticate della società contemporanea, sensibile alle richieste di legge dei gay, non è certamente il canone del prete da chiesa, soprattutto di questa. Poco ortodosso, allergico alle logiche del potere, fuori schema per natura, inizia a dar troppo fastidio. Il frate scomodo se ne va con l’ultimo atto del suo operato: la Festa dei popoli prevista a fine settembre sul grande tema dei diritti umani e l’impegno ecclesiale, sia accademico che sociale, su questo fronte di fuoco. La giornata terminerà con una tavola rotonda proprio sul “Diritto di scegliere” in cui proprio lui argomenterà perché un cattolico non deve imporre la proprie visione dell’esistenza sugli altri a colpi di legge e, soprattutto, perché non c’è un autentico problema di coscienza sull’ipotesi della legge laica, se non strumentale alle diatribe sofistiche dei militanti di sette e partiti.

La decisione di trasferimento arriva dopo le lettere ai vescovi sui 41 sacerdoti dissidenti. Alla richieste di maggiori controlli e di severe raccomandazioni, l’ordine, con la curia dietro le quinte, ha risposto con un secco trasferimento. Un esilio nonostante l’operato eccellente e apprezzato di frate Fusco. Perché la comunità intorno a lui ha solo parole di encomio.

Non possiamo dire ci sia stata la stessa prontezza d’intervento sui casi dei preti accusati di molestie e violenze sessuali dai più piccoli delle parrocchie. Lì, tragico a dirsi, la misura utilizzata non era la sospensione a divinis - come per tanti pericolosi dissidenti della dottrina - ma anche in quel caso un bel trasferimento per esportare indisturbati in altre parrocchie le libidini pedofile. Un’asimmetria che spiega molto bene quale siano i pesi e i poteri forti all’interno della Curia, le zavorre davvero scomode e i pericoli di coscienza degni dell’inferno raccontato. L’omertà, per prima.

Il pontificato di Benedetto XVI non ha fatto altro che aggravare lo stato di chiusura e di regressione di dottrina che ha attraversato la Chiesa già a partire dal pontificato di Wojtyla, soltanto meglio equipaggiato da un‘attitudine mediatica di maggiore impatto e da un’identità geografica legata alla martire Polonia e non alla Germania nazista. La china per il resto è la stessa ed è molto ben documentata.

Religiosi come Frate Fusco fanno bene alle Chiese tutte e alla società civile. Fanno bene ai cittadini che non hanno alcuna inclinazione di fede. Fanno bene al significato profondo della mediazione culturale tanto raccontata nell’oratoria delle omelie domenicali e, soprattutto, fanno bene a quella prova di fattibilità e di riuscita concreta di cui il multiculturalismo sembra sempre essere un po’ povero.

E’ stata la storia ad entrare nelle chiese e a spazzare via privilegi e assiomi di dottrina. Lo hanno fatto spesso proprio uomini di dio. L’ha fatto un domenicano ricco di genio come Giordano Bruno, l’ha fatto un monaco votato a S. Anna come Martin Lutero. Ogni accostamento è audace, ma la storia di un frate che non ha smarrito il senso di cosa sia uno stato laico e non confessionale, va ricordata ai mestieranti dell’etica politica che inciampano per errore di ignoranza nell’etica religiosa e agli alti prelati per i quali Eluana era viatico di potere e di dominio sulle coscienze. La coscienza è una cosa seria.

di Mariavittoria Orsolato

Un vecchio detto da marinaio saggiamente recita: “Chi in questo mare naviga, questi pesci prende”. Se il mare in questione è il nostro, non meraviglia il fatto che pochi giorni fa, a largo di Cetraro, località in provincia di Cosenza, sia stato rinvenuto il relitto di una motonave colma di rifiuti tossici. Il ritrovamento è stato possibile grazie alla testimonianza di Francesco Fonti, ex trafficante di droga affiliato al clan Mutu e ora pentito di ‘ndrangheta sotto protezione. Ma le segnalazioni su qualcosa che nel Tirreno non andava sono vecchie di anni. Le dichiarazioni che il pentito Fonti ha rilasciato nell’aprile del 2006 a un magistrato antimafia, non sono infatti il primo tassello dell’ennesima indagine sulla mafia locale, ma vanno a far quadrare un cerchio a cui da decenni i nostri magistrati stanno cercando di dare paternità certa.

E il fatto che siano trascorsi ben 3 anni e mezzo prima che i sopralluoghi del caso fossero autorizzati ed effettuati, la dice lunga su quale sorta di vaso di Pandora potrebbe essere scoperto e scoperchiato tra le acque del mar Mediterraneo che lambiscono le nostre coste.

La pista percorsa dagli inquirenti è quella del traffico internazionale di rifiuti radioattivi, la stessa che a Mogadiscio nel 1993 costò la vita a Ilaria Alpi e a Miran Hrovatin e che in molti percepiscono come uno dei tanti misteri della prima repubblica, in cui sono coinvolti servizi segreti, politici e faccendieri impegnati a fare la spola tra Olanda e Somalia, Calabria ed ex Jugoslavia. Il procedimento usato dai clan e chiarito da Francesco Fonti è molto semplice: si scelgono carrette del mare già malridotte o in disuso - navi cosiddette “a perdere” - le si caricano con scorie e sostanze tossiche, poi si simula un naufragio e le si fa inabissare, pretendendo oltretutto lauti risarcimenti dalle compagnie assicurative.

“Nelle navi in quel momento c’era una certa quantità di fusti che non erano stati smaltiti all’estero – spiega il verbale di dichiarazione di Fonti –. Abbiamo preso le casse di esplosivo e le abbiamo posizionate nei punti dove doveva esplodere per far imbarcare l’acqua e mandarle a fondo”. Dal resoconto del pentito dunque, la n’drangheta è solo il semplice esecutore dei finti naufragi e, sempre secondo Fonti, chi voleva la Cunski affondata assieme a 120 bidoni di scorie risiedeva in Norvegia, non in Italia.

La matassa è decisamente intricata ma Bruno Giordano, procuratore capo di Paola, sembra averne trovato il bandolo. Sua infatti la scoperta che lungo il greto del torrente Oliva, tra Aiello Calabro e Serra d’Aiello, stazionavano metalli pesanti la cui radioattività era molto intensa, sua anche l’intuizione di verificare un documento dell’Arpa calabrese in cui si segnalava la presenza di un oggetto lungo almeno 80 metri, sul fondale a largo di Cetraro. Nonostante la Marina non disponesse dei mezzi adatti al sopralluogo, Giordano si è rivolto all’assessore all’Ambiente della regione Calabria, Silvestro Greco, il quale è riuscito a recuperare un robot in grado di scannerizzare il relitto.

Le immagini trasmesse sabato dai maggiori notiziari sono le stesse che il robot ha ripreso a 500 metri di profondità e presentano uno scheletro metallico da cui fuoriesce un fusto quasi del tutto schiacciato, a conferma delle illazioni di molti e della testimonianza del pentito Fonti. Dalla fine degli anni ’70 sono circa trenta le navi dei veleni affondate lungo le coste italiane in circostanze ancora tutte da chiarire, ma le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia connesse alle scoperte giornalistiche di Ilaria Alpi, fanno pensare che nel quindicennio a cavallo tra il ’76 e il ’91 vi fosse un vero e proprio traffico di scorie nucleari, organizzato tra il nord Europa (dove il carico partiva) e alcune località dell’Aspromonte (dove si decideva come smaltirlo).

L’ipotesi è che determinate autorità statali europee, non sapendo dove smaltire i propri carichi di rifiuti radioattivi, si affidassero con la complicità di altre cariche ai servizi della malavita organizzata per rimuovere il problema alla radice, evitando così di scatenare battaglie con un’opinione pubblica contraria allo stoccaggio di scorie nucleari in patria propria. Ad avvallare la tesi dei magistrati sta la testimonianza di Fonti riguardo altre due navi fatte inabissare a Metaponto e Maratea, ma sta anche una relazione firmata dal dottor Giacomino Brancati - medico e consulente della Procura di Paola – nella quale si spiega come “si può confermare l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità nel distretto di Amantea rispetto al restante territorio regionale, dal ‘92 al 2001, in particolare nei comuni di Serra d’Aiello, Amantea, Cleto e Malito”. Il riferimento è all’impressionante escalation di tumori maligni di colon, retto, fegato e mammella, registrati nel distretto interessato dagli affondamenti dolosi e probabilmente dovuti all’eccessiva radioattività.

Interrogato ieri nello spazio del Question Time, il Governo pare non aver preso in seria considerazione gli sviluppi dell’indagine della Procura di Paola: nonostante Pisanu abbia promesso una disamina del caso in Commissione Antimafia, per ora l’unico dicastero impegnato nella risoluzione di quella che sembra sempre più una crisi sanitaria è quello guidato da Stefania Prestigiacomo. Il ministero dell’Ambiente, coadiuvato dall’Arpa calabrese e dall’Ispra, ha promesso di realizzare quella che in gergo si chiama “caratterizzazione” del suolo, per effettuare rilevamenti su ogni tipo di campione in grado di fornire informazioni sulle tipologie e la diffusione degli inquinanti contenuti nei bidoni delle navi affondate. Che ormai sia troppo tardi per sistemare le cose, pare però non averlo capito nessuno.

di Mario Braconi

Si moltiplicano, in Italia, i casi di aggressioni ai danni di omosessuali. Mentre scriviamo, l’Arcigay denuncia l’ennesimo episodio: a Firenze, un ragazzo di 26 anni, a seguito di un’aggressione messa a segno da due uomini, ha riportato diverse fratture al volto, tanto che si è reso necessario un intervento chirurgico. Qual è la molla segreta in grado di trasformare in belve assetate di sangue quelli che altrimenti sarebbero solo soggetti bigotti, repressi e conformisti? L’inspiegabile tortuosità della psiche umana ha certamente un suo ruolo: c’è dunque da sperare che il lavoro di psichiatri e terapeuti riesca a riportare gli aggressori ad una dimensione (più) umana. E forse occorrerà ragionare anche degli effetti dell’immersione di menti deboli nel “brodo di coltura” da cui la destra italiana contemporanea non sembra potere (o voler) affrancarsi: machista, vaginocentrico e generalmente proclive al dileggio dei diversi, siano essi “abbronzati” (come dice il premier), “terroni” (epiteto caro ai leghisti) o, peggio che mai, di “froci”.

Dobbiamo dunque cercare spiegazioni nella psichiatria e nello spirito dei tempi. Non basta: se proviamo indignazione e orrore di fronte alla violenza, in particolare alla violenza “motivata” da questioni legate all’identità sessuale, non possiamo ignorare che l’omofobia ha solide radici culturali nel nostro Paese. Secondo un’indagine che l’istituto di ricerca Taylor Nelson Sofres (TNS) ha condotto a fine 2006 per l’Eurobarometro, per esempio, alla domanda “sareste d’accordo se i matrimoni omosessuali fossero riconosciuti in tutta Europa?” solo 31% del campione degli Italiani intervistati ha risposto favorevolmente; si noti che le percentuali di Irlanda, Francia, Spagna Germania e Gran Bretagna sono state rispettivamente del 41%, 48%, 56%, 52% e 46%. Parafrasando Nietzsche, si potrebbe dire che chi lotta contro i mostri deve guardarsi dal mostro che è dentro di sé: “E se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.

Per sondare l’abisso occorre però, se non la stoffa del Super-uomo, per lo meno una buona dose di coraggio: virtù indispensabile quando si scopre che nella civile Gran Bretagna, patria del pensiero liberale, si é dovuto attendere il 1967 per avere una legge (il “Sexual Offences Act”) che depenalizzasse (almeno in parte) i rapporti omosessuali tra uomini consenzienti purché di età non inferiore ai 21 anni; peraltro, poiché la depenalizzazione era vincolata a condizioni assai stringenti, al di fuori della casistica prevista da quella legge, l’omosessualità continuava ad essere reato.

Nella Gran Bretagna del 1952, dunque, essere omosessuale poteva diventare un problema serio. Lo prova il caso di Alan Mathison Turing che, un giorno del 1952, si recò in una centrale di polizia di Manchester, la città dove viveva e lavorava, per denunciare un furto in casa. Il colpevole era Harry, amico dell’ex amante di Turing, il (diciannovenne) Arnold Murray. Tanto Harry che Arnold erano certi di farla franca: Turing non avrebbe sporto denuncia per timore di restare intrappolato in un outing involontario. Ma i due sbagliarono i loro calcoli, perché Turing non solo li denunciò, ma rese di pubblico dominio anche la sua relazione con Murray. Così, il 31 marzo del 1952, Turing da vittima di un crimine autentico venne trasformato dallo Stato in “criminale” immaginario.

Nel corso del procedimento giudiziario a suo carico, Turing si riconobbe “colpevole” di tutti e dodici i capi di accusa mossigli e, dimostrando quella rara forma di coraggio tipica degli uomini straordinari, dichiarò in più occasioni di non vedere alcun male nella sua condotta sessuale. Riconosciuto colpevole, per evitare la galera fu costretto a sottoporsi a una “terapia” obbligatoria settimanale di estrogeni - di fatto una castrazione chimica. Le conseguenze di questa vergognosa violenza di Stato furono devastanti, sia del punto di vista fisico che psicologico. Non solo il suo corpo sviluppò il seno, ma venne distrutta la straordinaria forma fisica di Turing, il quale, oltre al resto, era un asso della corsa (nel 1948 avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Londra, se non fosse stato per un rovinoso incidente di cui era stato vittima).

Il professor Andrew Hodges, scienziato e biografo di Turing, ricorda che le disavventure di Turing non finirono lì: nel marzo del 1953 la polizia perquisì nuovamente la sua abitazione alla ricerca di un amico norvegese che era andato a fargli visita. Braccato e privato perfino del suo lavoro, Alan cadde in una grave forma di depressione che culminò con il suicidio. L’8 giugno del 1954 la donna delle pulizie lo trovò morto nella sua camera, una mela mangiata per metà vicino al letto: si scoprì che il frutto era stato imbevuto in un micidiale veleno: cianuro di potassio.

E’ solo relativamente sorprendente il fatto che Alan Turing abbia deciso di uscire di scena in modo tanto clamoroso ed originale; era una persona eccentrica e sono moltissimi gli aneddoti divertenti che lo provano. Girava in bicicletta con addosso una maschera antigas per difendersi da una fastidiosa rinite allergica, giocava a tennis con un impermeabile indossato sul corpo nudo, e si dice abbia intavolato una discussione filosofica con un bimbo sul fatto che Dio si sarebbe o meno raffreddato se si fosse seduto sulla terra umida.

Eppure c’è chi non ha escluso che la sua morte sia stata accidentale: Turing avrebbe toccato la mela che stava per mangiare con le mani sporche di veleno, o forse aveva cercato di mascherare da incidente il suo suicidio nell’intento di non aggravare il dolore di sua madre. Negli ultimi anni della sua vita, egli infatti si dilettava con il “gioco dell’isola deserta”, un passatempo di sua invenzione, le cui regole prevedevano curiosi compiti da portare a termine a casa sua, quali la produzione di un diserbante non velenoso o la placcatura in oro di un cucchiaio, procedimento in cui in effetti si impiega cianuro di potassio. Il fatto è, però, che Alan da almeno quindici anni canticchiava ossessivamente l’incantesimo della strega cattiva del film “Biancaneve e i Sette Nani” di Walt Disney (1937), che peraltro è sempre stato il suo film preferito: “Immergi la mela nella pozione, lascia che il sonno mortale la imbeva”.

Alan Turing è stato una delle menti più brillanti del nostro secolo: con uno scritto del 1936 “inventò” il computer come lo conosciamo oggi (non a caso, secondo alcuni, il logo della Apple, la mela morsicata, è appunto un omaggio al grande genio inglese); per prima volta nella storia della scienza teorizzò il concetto di intelligenza artificiale (che lui chiamava “intelligenza meccanica”) ideando il test che porta il suo nome; notevoli sono infine i suoi contributi alla “morfogenesi”, quella branca della scienza che, come spiega Piergiorgio Odifreddi, si sforza di comprendere “come l'informazione codificata in modo unidimensionale nella sequenza lineare del DNA, possa tradursi nella costruzione di un animale tridimensionale di forma specifica”. Per fare un esempio, banale ma suggestivo, Turing era alla ricerca del codice che spieghi perché le foglie di un albero siano posizionate in un determinato modo, o per quale ragione le macchie sulla pelliccia di un animale siano disposte come le vediamo.

E di codici Turing se ne intendeva davvero: infatti, il 3 settembre 1939, giorno in cui la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, Turing iniziò a lavorare a tempo pieno per il dipartimento di Criptoanalitica del Governo, con sede a Bletchley Park, Milton Keynes (circa 100 chilometri da Londra). L’ufficio aveva l’obiettivo di decrittare i messaggi in codice con i quali i tedeschi gestivano le loro comunicazioni belliche. Le incredibili capacità analitiche, matematiche, logiche e statistiche di Turing consentirono agli Inglesi di violare più volte il codice Enigma ideato dai nazisti, cosa che costituì un fattore chiave della vittoria degli Alleati. Il professor Jack Good, collega di Turing a Bletchley Park, ha dichiarato al Daily Mail: “E’ stato un bene che le autorità non fossero venute a conoscenza dell’omosessualità di Turing durante il conflitto, perché se ciò fosse accaduto, lui sarebbe stato licenziato, ma noi avremmo perso la Guerra”.

Ma nella comunità scientifica, per fortuna, c’è chi non ha dimenticato: John Graham-Cumming, professore di informatica, ha lanciato una petizione on-line per chiedere al Governo inglese di chiedere ufficialmente perdono per il comportamento tenuto nei confronti del suo campione nazionale, senza il quale tutti noi forse oggi vivremmo sotto il Terzo Reich. All’appello, subito sottoscritto da intellettuali di peso come il professor Richard Dawkins dell’Università di Cambridge e lo scrittore Ian Mc Ewan, si sono velocemente aggiunte le firme di oltre 30.000 persone.

L’11 settembre, con largo anticipo rispetto alla scadenza dei tempi previsti per firmare la petizione, il premier britannico Gordon Brown si è scusato a nome del Governo britannico per il crimine commesso 57 anni fa: “Benché Turing sia stato giudicato secondo le leggi al tempo vigenti, e non sia possibile riportare indietro l’orologio, egli è stato trattato in modo assolutamente ingiusto, e sono lieto di avere la possibilità di dire quanto mi dispiace per tutto ciò che gli è successo. Alan, assieme alle molte altre migliaia di gay che sono stati condannati come lui a causa di leggi omofobiche, è stato trattato in modo indecente. Sono felice che tutto ciò faccia parte del passato.” La famiglia Turing ha espresso immediatamente soddisfazione per il riconoscimento della grave ingiustizia di cui Alan è stato vittima.

Sollevano le parole di Brown: è sempre una buona notizia, quando un governo chiede perdono per le infamie di cui si è macchiato. Anche se ormai è troppo tardi, abbiamo un gran bisogno di segnali culturali positivi come questo. Soprattutto, nelle parole di Brown è da apprezzare il riferimento a quelle moltitudini di gay che in Gran Bretagna sono stati castrati chimicamente o sbattuti in galera per aver amato o per avere avuto un’idea del piacere sessuale diversa rispetto a quella della maggioranza dei loro concittadini; in gran parte erano persone normali, come tutti noi, non geni che hanno cambiato la Storia e la Scienza come Turing. Ma nessuno, di solito, firma petizioni per loro.


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