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La storia è quella di una voce dissonante dall’impero monocorde della Chiesa Romana. E’ il ritratto di una figura religiosa che ha agito in libertà su diversi fronti, troppo in bilico per il rigore d’ufficio del Vaticano. Il protagonista è Frate Benito Fusco e dovrà lasciare l’eremo di Ronzano. La Curia bolognese sembra non aver digerito la sua adesione pubblica alla difesa della libertà di scelta di Eluana. Ufficialmente è l’Ordine ad aver preso questa decisione, ma non era certamente nell’ombra il disappunto delle alte sedi ecclesiastiche. Sarà trasferito forse proprio per quella firma apposta alla legge sul fine vita. Il voto di obbedienza lo obbliga a seguire le decisioni prese dal priore dell’Ordine cui appartiene, i Servi di Maria, senza troppe discussioni. Arriveranno dei nuovi a sostituirlo nella programmazione delle attività dell’eremo.
Frate Benito Rusconi ha un passato un po’ troppo disordinato per i gusti del clero. Militante nelle rivolte studentesche degli anni settanta, vicino alle storie più dimenticate della società contemporanea, sensibile alle richieste di legge dei gay, non è certamente il canone del prete da chiesa, soprattutto di questa. Poco ortodosso, allergico alle logiche del potere, fuori schema per natura, inizia a dar troppo fastidio. Il frate scomodo se ne va con l’ultimo atto del suo operato: la Festa dei popoli prevista a fine settembre sul grande tema dei diritti umani e l’impegno ecclesiale, sia accademico che sociale, su questo fronte di fuoco. La giornata terminerà con una tavola rotonda proprio sul “Diritto di scegliere” in cui proprio lui argomenterà perché un cattolico non deve imporre la proprie visione dell’esistenza sugli altri a colpi di legge e, soprattutto, perché non c’è un autentico problema di coscienza sull’ipotesi della legge laica, se non strumentale alle diatribe sofistiche dei militanti di sette e partiti.
La decisione di trasferimento arriva dopo le lettere ai vescovi sui 41 sacerdoti dissidenti. Alla richieste di maggiori controlli e di severe raccomandazioni, l’ordine, con la curia dietro le quinte, ha risposto con un secco trasferimento. Un esilio nonostante l’operato eccellente e apprezzato di frate Fusco. Perché la comunità intorno a lui ha solo parole di encomio.
Non possiamo dire ci sia stata la stessa prontezza d’intervento sui casi dei preti accusati di molestie e violenze sessuali dai più piccoli delle parrocchie. Lì, tragico a dirsi, la misura utilizzata non era la sospensione a divinis - come per tanti pericolosi dissidenti della dottrina - ma anche in quel caso un bel trasferimento per esportare indisturbati in altre parrocchie le libidini pedofile. Un’asimmetria che spiega molto bene quale siano i pesi e i poteri forti all’interno della Curia, le zavorre davvero scomode e i pericoli di coscienza degni dell’inferno raccontato. L’omertà, per prima.
Il pontificato di Benedetto XVI non ha fatto altro che aggravare lo stato di chiusura e di regressione di dottrina che ha attraversato la Chiesa già a partire dal pontificato di Wojtyla, soltanto meglio equipaggiato da un‘attitudine mediatica di maggiore impatto e da un’identità geografica legata alla martire Polonia e non alla Germania nazista. La china per il resto è la stessa ed è molto ben documentata.
Religiosi come Frate Fusco fanno bene alle Chiese tutte e alla società civile. Fanno bene ai cittadini che non hanno alcuna inclinazione di fede. Fanno bene al significato profondo della mediazione culturale tanto raccontata nell’oratoria delle omelie domenicali e, soprattutto, fanno bene a quella prova di fattibilità e di riuscita concreta di cui il multiculturalismo sembra sempre essere un po’ povero.
E’ stata la storia ad entrare nelle chiese e a spazzare via privilegi e assiomi di dottrina. Lo hanno fatto spesso proprio uomini di dio. L’ha fatto un domenicano ricco di genio come Giordano Bruno, l’ha fatto un monaco votato a S. Anna come Martin Lutero. Ogni accostamento è audace, ma la storia di un frate che non ha smarrito il senso di cosa sia uno stato laico e non confessionale, va ricordata ai mestieranti dell’etica politica che inciampano per errore di ignoranza nell’etica religiosa e agli alti prelati per i quali Eluana era viatico di potere e di dominio sulle coscienze. La coscienza è una cosa seria.
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Un vecchio detto da marinaio saggiamente recita: “Chi in questo mare naviga, questi pesci prende”. Se il mare in questione è il nostro, non meraviglia il fatto che pochi giorni fa, a largo di Cetraro, località in provincia di Cosenza, sia stato rinvenuto il relitto di una motonave colma di rifiuti tossici. Il ritrovamento è stato possibile grazie alla testimonianza di Francesco Fonti, ex trafficante di droga affiliato al clan Mutu e ora pentito di ‘ndrangheta sotto protezione. Ma le segnalazioni su qualcosa che nel Tirreno non andava sono vecchie di anni. Le dichiarazioni che il pentito Fonti ha rilasciato nell’aprile del 2006 a un magistrato antimafia, non sono infatti il primo tassello dell’ennesima indagine sulla mafia locale, ma vanno a far quadrare un cerchio a cui da decenni i nostri magistrati stanno cercando di dare paternità certa.
E il fatto che siano trascorsi ben 3 anni e mezzo prima che i sopralluoghi del caso fossero autorizzati ed effettuati, la dice lunga su quale sorta di vaso di Pandora potrebbe essere scoperto e scoperchiato tra le acque del mar Mediterraneo che lambiscono le nostre coste.
La pista percorsa dagli inquirenti è quella del traffico internazionale di rifiuti radioattivi, la stessa che a Mogadiscio nel 1993 costò la vita a Ilaria Alpi e a Miran Hrovatin e che in molti percepiscono come uno dei tanti misteri della prima repubblica, in cui sono coinvolti servizi segreti, politici e faccendieri impegnati a fare la spola tra Olanda e Somalia, Calabria ed ex Jugoslavia. Il procedimento usato dai clan e chiarito da Francesco Fonti è molto semplice: si scelgono carrette del mare già malridotte o in disuso - navi cosiddette “a perdere” - le si caricano con scorie e sostanze tossiche, poi si simula un naufragio e le si fa inabissare, pretendendo oltretutto lauti risarcimenti dalle compagnie assicurative.
“Nelle navi in quel momento c’era una certa quantità di fusti che non erano stati smaltiti all’estero – spiega il verbale di dichiarazione di Fonti –. Abbiamo preso le casse di esplosivo e le abbiamo posizionate nei punti dove doveva esplodere per far imbarcare l’acqua e mandarle a fondo”. Dal resoconto del pentito dunque, la n’drangheta è solo il semplice esecutore dei finti naufragi e, sempre secondo Fonti, chi voleva la Cunski affondata assieme a 120 bidoni di scorie risiedeva in Norvegia, non in Italia.
La matassa è decisamente intricata ma Bruno Giordano, procuratore capo di Paola, sembra averne trovato il bandolo. Sua infatti la scoperta che lungo il greto del torrente Oliva, tra Aiello Calabro e Serra d’Aiello, stazionavano metalli pesanti la cui radioattività era molto intensa, sua anche l’intuizione di verificare un documento dell’Arpa calabrese in cui si segnalava la presenza di un oggetto lungo almeno 80 metri, sul fondale a largo di Cetraro. Nonostante la Marina non disponesse dei mezzi adatti al sopralluogo, Giordano si è rivolto all’assessore all’Ambiente della regione Calabria, Silvestro Greco, il quale è riuscito a recuperare un robot in grado di scannerizzare il relitto.
Le immagini trasmesse sabato dai maggiori notiziari sono le stesse che il robot ha ripreso a 500 metri di profondità e presentano uno scheletro metallico da cui fuoriesce un fusto quasi del tutto schiacciato, a conferma delle illazioni di molti e della testimonianza del pentito Fonti. Dalla fine degli anni ’70 sono circa trenta le navi dei veleni affondate lungo le coste italiane in circostanze ancora tutte da chiarire, ma le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia connesse alle scoperte giornalistiche di Ilaria Alpi, fanno pensare che nel quindicennio a cavallo tra il ’76 e il ’91 vi fosse un vero e proprio traffico di scorie nucleari, organizzato tra il nord Europa (dove il carico partiva) e alcune località dell’Aspromonte (dove si decideva come smaltirlo).
L’ipotesi è che determinate autorità statali europee, non sapendo dove smaltire i propri carichi di rifiuti radioattivi, si affidassero con la complicità di altre cariche ai servizi della malavita organizzata per rimuovere il problema alla radice, evitando così di scatenare battaglie con un’opinione pubblica contraria allo stoccaggio di scorie nucleari in patria propria. Ad avvallare la tesi dei magistrati sta la testimonianza di Fonti riguardo altre due navi fatte inabissare a Metaponto e Maratea, ma sta anche una relazione firmata dal dottor Giacomino Brancati - medico e consulente della Procura di Paola – nella quale si spiega come “si può confermare l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità nel distretto di Amantea rispetto al restante territorio regionale, dal ‘92 al 2001, in particolare nei comuni di Serra d’Aiello, Amantea, Cleto e Malito”. Il riferimento è all’impressionante escalation di tumori maligni di colon, retto, fegato e mammella, registrati nel distretto interessato dagli affondamenti dolosi e probabilmente dovuti all’eccessiva radioattività.
Interrogato ieri nello spazio del Question Time, il Governo pare non aver preso in seria considerazione gli sviluppi dell’indagine della Procura di Paola: nonostante Pisanu abbia promesso una disamina del caso in Commissione Antimafia, per ora l’unico dicastero impegnato nella risoluzione di quella che sembra sempre più una crisi sanitaria è quello guidato da Stefania Prestigiacomo. Il ministero dell’Ambiente, coadiuvato dall’Arpa calabrese e dall’Ispra, ha promesso di realizzare quella che in gergo si chiama “caratterizzazione” del suolo, per effettuare rilevamenti su ogni tipo di campione in grado di fornire informazioni sulle tipologie e la diffusione degli inquinanti contenuti nei bidoni delle navi affondate. Che ormai sia troppo tardi per sistemare le cose, pare però non averlo capito nessuno.
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Si moltiplicano, in Italia, i casi di aggressioni ai danni di omosessuali. Mentre scriviamo, l’Arcigay denuncia l’ennesimo episodio: a Firenze, un ragazzo di 26 anni, a seguito di un’aggressione messa a segno da due uomini, ha riportato diverse fratture al volto, tanto che si è reso necessario un intervento chirurgico. Qual è la molla segreta in grado di trasformare in belve assetate di sangue quelli che altrimenti sarebbero solo soggetti bigotti, repressi e conformisti? L’inspiegabile tortuosità della psiche umana ha certamente un suo ruolo: c’è dunque da sperare che il lavoro di psichiatri e terapeuti riesca a riportare gli aggressori ad una dimensione (più) umana. E forse occorrerà ragionare anche degli effetti dell’immersione di menti deboli nel “brodo di coltura” da cui la destra italiana contemporanea non sembra potere (o voler) affrancarsi: machista, vaginocentrico e generalmente proclive al dileggio dei diversi, siano essi “abbronzati” (come dice il premier), “terroni” (epiteto caro ai leghisti) o, peggio che mai, di “froci”.
Dobbiamo dunque cercare spiegazioni nella psichiatria e nello spirito dei tempi. Non basta: se proviamo indignazione e orrore di fronte alla violenza, in particolare alla violenza “motivata” da questioni legate all’identità sessuale, non possiamo ignorare che l’omofobia ha solide radici culturali nel nostro Paese. Secondo un’indagine che l’istituto di ricerca Taylor Nelson Sofres (TNS) ha condotto a fine 2006 per l’Eurobarometro, per esempio, alla domanda “sareste d’accordo se i matrimoni omosessuali fossero riconosciuti in tutta Europa?” solo 31% del campione degli Italiani intervistati ha risposto favorevolmente; si noti che le percentuali di Irlanda, Francia, Spagna Germania e Gran Bretagna sono state rispettivamente del 41%, 48%, 56%, 52% e 46%. Parafrasando Nietzsche, si potrebbe dire che chi lotta contro i mostri deve guardarsi dal mostro che è dentro di sé: “E se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà dentro di te”.
Per sondare l’abisso occorre però, se non la stoffa del Super-uomo, per lo meno una buona dose di coraggio: virtù indispensabile quando si scopre che nella civile Gran Bretagna, patria del pensiero liberale, si é dovuto attendere il 1967 per avere una legge (il “Sexual Offences Act”) che depenalizzasse (almeno in parte) i rapporti omosessuali tra uomini consenzienti purché di età non inferiore ai 21 anni; peraltro, poiché la depenalizzazione era vincolata a condizioni assai stringenti, al di fuori della casistica prevista da quella legge, l’omosessualità continuava ad essere reato.
Nella Gran Bretagna del 1952, dunque, essere omosessuale poteva diventare un problema serio. Lo prova il caso di Alan Mathison Turing che, un giorno del 1952, si recò in una centrale di polizia di Manchester, la città dove viveva e lavorava, per denunciare un furto in casa. Il colpevole era Harry, amico dell’ex amante di Turing, il (diciannovenne) Arnold Murray. Tanto Harry che Arnold erano certi di farla franca: Turing non avrebbe sporto denuncia per timore di restare intrappolato in un outing involontario. Ma i due sbagliarono i loro calcoli, perché Turing non solo li denunciò, ma rese di pubblico dominio anche la sua relazione con Murray. Così, il 31 marzo del 1952, Turing da vittima di un crimine autentico venne trasformato dallo Stato in “criminale” immaginario.
Nel corso del procedimento giudiziario a suo carico, Turing si riconobbe “colpevole” di tutti e dodici i capi di accusa mossigli e, dimostrando quella rara forma di coraggio tipica degli uomini straordinari, dichiarò in più occasioni di non vedere alcun male nella sua condotta sessuale. Riconosciuto colpevole, per evitare la galera fu costretto a sottoporsi a una “terapia” obbligatoria settimanale di estrogeni - di fatto una castrazione chimica. Le conseguenze di questa vergognosa violenza di Stato furono devastanti, sia del punto di vista fisico che psicologico. Non solo il suo corpo sviluppò il seno, ma venne distrutta la straordinaria forma fisica di Turing, il quale, oltre al resto, era un asso della corsa (nel 1948 avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Londra, se non fosse stato per un rovinoso incidente di cui era stato vittima).
Il professor Andrew Hodges, scienziato e biografo di Turing, ricorda che le disavventure di Turing non finirono lì: nel marzo del 1953 la polizia perquisì nuovamente la sua abitazione alla ricerca di un amico norvegese che era andato a fargli visita. Braccato e privato perfino del suo lavoro, Alan cadde in una grave forma di depressione che culminò con il suicidio. L’8 giugno del 1954 la donna delle pulizie lo trovò morto nella sua camera, una mela mangiata per metà vicino al letto: si scoprì che il frutto era stato imbevuto in un micidiale veleno: cianuro di potassio.
E’ solo relativamente sorprendente il fatto che Alan Turing abbia deciso di uscire di scena in modo tanto clamoroso ed originale; era una persona eccentrica e sono moltissimi gli aneddoti divertenti che lo provano. Girava in bicicletta con addosso una maschera antigas per difendersi da una fastidiosa rinite allergica, giocava a tennis con un impermeabile indossato sul corpo nudo, e si dice abbia intavolato una discussione filosofica con un bimbo sul fatto che Dio si sarebbe o meno raffreddato se si fosse seduto sulla terra umida.
Eppure c’è chi non ha escluso che la sua morte sia stata accidentale: Turing avrebbe toccato la mela che stava per mangiare con le mani sporche di veleno, o forse aveva cercato di mascherare da incidente il suo suicidio nell’intento di non aggravare il dolore di sua madre. Negli ultimi anni della sua vita, egli infatti si dilettava con il “gioco dell’isola deserta”, un passatempo di sua invenzione, le cui regole prevedevano curiosi compiti da portare a termine a casa sua, quali la produzione di un diserbante non velenoso o la placcatura in oro di un cucchiaio, procedimento in cui in effetti si impiega cianuro di potassio. Il fatto è, però, che Alan da almeno quindici anni canticchiava ossessivamente l’incantesimo della strega cattiva del film “Biancaneve e i Sette Nani” di Walt Disney (1937), che peraltro è sempre stato il suo film preferito: “Immergi la mela nella pozione, lascia che il sonno mortale la imbeva”.
Alan Turing è stato una delle menti più brillanti del nostro secolo: con uno scritto del 1936 “inventò” il computer come lo conosciamo oggi (non a caso, secondo alcuni, il logo della Apple, la mela morsicata, è appunto un omaggio al grande genio inglese); per prima volta nella storia della scienza teorizzò il concetto di intelligenza artificiale (che lui chiamava “intelligenza meccanica”) ideando il test che porta il suo nome; notevoli sono infine i suoi contributi alla “morfogenesi”, quella branca della scienza che, come spiega Piergiorgio Odifreddi, si sforza di comprendere “come l'informazione codificata in modo unidimensionale nella sequenza lineare del DNA, possa tradursi nella costruzione di un animale tridimensionale di forma specifica”. Per fare un esempio, banale ma suggestivo, Turing era alla ricerca del codice che spieghi perché le foglie di un albero siano posizionate in un determinato modo, o per quale ragione le macchie sulla pelliccia di un animale siano disposte come le vediamo.
E di codici Turing se ne intendeva davvero: infatti, il 3 settembre 1939, giorno in cui la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, Turing iniziò a lavorare a tempo pieno per il dipartimento di Criptoanalitica del Governo, con sede a Bletchley Park, Milton Keynes (circa 100 chilometri da Londra). L’ufficio aveva l’obiettivo di decrittare i messaggi in codice con i quali i tedeschi gestivano le loro comunicazioni belliche. Le incredibili capacità analitiche, matematiche, logiche e statistiche di Turing consentirono agli Inglesi di violare più volte il codice Enigma ideato dai nazisti, cosa che costituì un fattore chiave della vittoria degli Alleati. Il professor Jack Good, collega di Turing a Bletchley Park, ha dichiarato al Daily Mail: “E’ stato un bene che le autorità non fossero venute a conoscenza dell’omosessualità di Turing durante il conflitto, perché se ciò fosse accaduto, lui sarebbe stato licenziato, ma noi avremmo perso la Guerra”.
Ma nella comunità scientifica, per fortuna, c’è chi non ha dimenticato: John Graham-Cumming, professore di informatica, ha lanciato una petizione on-line per chiedere al Governo inglese di chiedere ufficialmente perdono per il comportamento tenuto nei confronti del suo campione nazionale, senza il quale tutti noi forse oggi vivremmo sotto il Terzo Reich. All’appello, subito sottoscritto da intellettuali di peso come il professor Richard Dawkins dell’Università di Cambridge e lo scrittore Ian Mc Ewan, si sono velocemente aggiunte le firme di oltre 30.000 persone.
L’11 settembre, con largo anticipo rispetto alla scadenza dei tempi previsti per firmare la petizione, il premier britannico Gordon Brown si è scusato a nome del Governo britannico per il crimine commesso 57 anni fa: “Benché Turing sia stato giudicato secondo le leggi al tempo vigenti, e non sia possibile riportare indietro l’orologio, egli è stato trattato in modo assolutamente ingiusto, e sono lieto di avere la possibilità di dire quanto mi dispiace per tutto ciò che gli è successo. Alan, assieme alle molte altre migliaia di gay che sono stati condannati come lui a causa di leggi omofobiche, è stato trattato in modo indecente. Sono felice che tutto ciò faccia parte del passato.” La famiglia Turing ha espresso immediatamente soddisfazione per il riconoscimento della grave ingiustizia di cui Alan è stato vittima.
Sollevano le parole di Brown: è sempre una buona notizia, quando un governo chiede perdono per le infamie di cui si è macchiato. Anche se ormai è troppo tardi, abbiamo un gran bisogno di segnali culturali positivi come questo. Soprattutto, nelle parole di Brown è da apprezzare il riferimento a quelle moltitudini di gay che in Gran Bretagna sono stati castrati chimicamente o sbattuti in galera per aver amato o per avere avuto un’idea del piacere sessuale diversa rispetto a quella della maggioranza dei loro concittadini; in gran parte erano persone normali, come tutti noi, non geni che hanno cambiato la Storia e la Scienza come Turing. Ma nessuno, di solito, firma petizioni per loro.
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Nel G8 delle donne, mentre il pensiero e lo studio é sui numeri altissimi della violenza e degli abusi, il sottosegretario Roccella non si è risparmiata dall’esprimere le proprie convinzioni. Guai ad allargare il tema sulla violenza ai danni di tutti i diversi, agli episodi della Gay Street di Roma, per intenderci. Il pericolo di omofobia lei non lo vede, tantomeno la necessità di una legge specifica. E’ Anna Paola Concia, deputata del Pd e relatrice della legge contro l'omofobia, a ricordarle che quello che lei non vede c’è già costato asprissime critiche dell’Europa per la mancanza di un osservatorio “istituzionale” di monitoraggio e controllo. Se può essere vero che leggi specifiche sono comunque sempre sottese alla cornice inviolabile dei diritti umani e che nulla di nuovo possono “inventare”, è vero che non stigmatizzare reati e comportamenti discriminatori significa insabbiare lo scandalo e la riprovazione morale che certi episodi e pericolose correnti di umore sociale dovrebbero scatenare con la massima visibilità.
L’accoltellamento che a Roma ha visto coinvolto un giovane ragazzo e il suo aguzzino “svastichella” non deve essere accostato a una bravata, a un generico atto di teppismo. C’è un odio che ha radici nella differenza dell’orientamento sessuale e che induce a discriminare, a violentare in mille diversi modi chi non solo non nasconde quell’identità, ma la difende e ne rivendica pari diritti e pari dignità.
La Roccella viene dalla tradizione del femminismo. Conosce molto bene i termini del problema, sostiene di non “aver buttato a mare nulla” del suo passato, tanto da saper rivendicare l’argomento della differenza tra uomini e donne come tema principe del pensiero femminile, come differenza prima e assoluta, come inizio necessario di qualsiasi analisi di numeri e di opinione sulla violenza di genere. Proprio per questo la Roccella, sul tema della discriminazione ai danni degli omosessuali o dei trans, fa un errore di amnesia e cancella in una manciata di battute un metodo che il pensiero delle donne dovrebbe averle insegnato. L’errore del cattivo femminismo, che torna in queste interpretazioni frettolose, é quello di strappare una categoria concettuale importante come quella della differenza da ogni contesto sociale, assolutizzando il valore di un percorso culturale che sterilizzato da ogni battaglia contingente, diventa non solo inutile e svuotato di senso, ma dannoso per la stessa filosofia delle donne.
La scoperta della differenza è stata, prima di ogni altra cosa, la scoperta dei corpi. Portare la corporeità e ciò che la attraversa dentro le categorie neutre - o presunte tali - del pensiero. La rivoluzione delle donne è stata parallelamente una battaglia di piazza per l’uguaglianza e un lavoro speculativo meticoloso e difficile sulla differenza. Proprio il merito di aver scoperto un nuovo metodo di pensare il reale e i suoi contenuti, dovrebbe vederle in prima linea sulla difesa di tutte le differenze. Perché solo la differenza ha la potenzialità di essere un concetto singolare e plurale insieme. Non può per natura esserne soltanto una: é sé e ha in sé tutte le differenze possibili. Ha una tale dialettica intrinseca da non poter essere racchiusa in una specifica pagine della storia e della storia delle idee.
Il tema dell’omosessualità (e figuriamoci quello della transessualità) viene ancora vissuto e metabolizzato come una deviazione patologica dalla normalità. Come qualcosa da governare o da circoscrivere. E’ questo retroterra di sospetto che, favorendo il pregiudizio, compromette ogni battaglia politica di diritto e di riconoscimento. Questa impreparazione culturale, la stessa che pregiudica la società italiana in ogni percorso d’integrazione, azzera ogni possibile politica di emancipazione. Soltanto dopo arrivano le divisioni dovute a ideologie storiche di partito o alle fedi religiose.
Una legge ad hoc sarebbe una legge d’emergenza, non c’è dubbio. Forse persino un boomerang nel tempo, ma non ora. Ora forse è il momento di lanciare l’allarme e di individuare che un pericolo di discriminazione reiterata c’è. Ci sono potenziali vittime e vanno tutelate. Non è forse lo stesso ragionamento che può giustificare l’utilizzo di quote rosa obbligatorie come misura iniziale di uguaglianza? Si corre il rischio di veicolare un messaggio di subordinazione naturale delle donne? Forse sì, ma ben peggiore è il rischio di avere una politica senza le donne, declinata unicamente al maschile. Pensata dagli uomini e fatta su misura per loro.La cecità di chi non ravvede l’urgenza di un provvedimento sull’omofobia, è la stessa che in tante occasioni ha diffuso cattivo pudore, quando c’era da denunciare razzismo e xenofobia. Anche lì si era trattato di ragazzate ed episodi di violenza. Generici e generale. Un modo raffinato per non dover far nulla e mantenere uno status quo. La conservazione del più forte.
Il sottosegretario Roccella riconosce che esiste una forma di discriminazione a causa della condizione umana di chi è omosessuale o trans. Così la definisce. Una lettura un po’ troppo ecumenica di quello che accade da noi. Intanto definirla “umana” significa proprio abbandonare il linguaggio delle donne. E’ il gusto sessuale ad essere considerato fuori canone, inverso e malato. E’ l’identità sessuale a scatenare raid punitivi di pestaggio o d’insulto. Non è la vaga condizione umana. E’ una lettura meschina della natura e delle normalità che individua in queste persone un attentato al maschio, alla procreazione, alla famiglia. Questo significa voler parlare del problema omofobia, senza impaludarsi nella dottrina utilissima dell’inevitabile male umano.
L’allarme omofobia c’è, proprio perché rimane la tentazione di non vederlo proprio da chi avrebbe il potere di fare qualcosa. E’ qui che si annida il pericolo più grande per la società italiana e il suo futuro. Ogni forma di discriminazione non è mai neutra. C’è sempre una singola differenza da incarnare nell’uguaglianza, ideale che senza contenuto - come la libertà - diventa troppo sterile per appassionare, troppo debole per vincere. Se c’è una vittoria che le donne hanno riscosso nella storia è proprio quella di aver compreso che le idee hanno bisogno di incarnarsi e di essere partorite. Ogni donna racchiude in sé, in carne ed ossa, questo paradigma di esistenza e questo modello di valore. Nel corpo, nella cura, nella procreazione, nell’accoglienza, nella maternità. Un miracolo per quella filosofia che prima se ne stava aggrappata alle nuvole o chiusa nella testa dei maschi.
Le donne hanno guardato giù. Giù per dire qui, adesso, davanti a noi. Hanno scoperto che giù iniziava la verità. Da lì nasceva. E che ogni differenza andava chiamata per nome. Una vita pensata così non è mai cristallizzata in un sistema, é un moto perpetuo, un’incarnazione quasi mistica di sé. In mille forme e in mille tempi diversi. Non importa come si chiamerà domani quella differenza, essa avrà la sua dignità intellettuale e morale. Non vedere questo dato è “aver buttato quel mare alle spalle”, aver ridotto il femminismo a un manifesto superato di rivendicazioni anti-maschili e non aver capito che la differenza non è mai autoreferenziale. E’ tutte le differenze, è fuori e non è mai dentro. E’ ora e non è mai per sempre. E’ l’uguaglianza piena di storie, di corpi e colori. Basta saperla vedere.
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La legge che regolamenterà la fine della vita di tutti i cittadini italiani, è una legge che fonda le sue ragioni e i suoi cavilli proibizionisti in una concezione cristiana e cattolica dell’esistenza. Non sarà quindi quella che definiscono una legge laica “attenta alla vita”, ma una legge etica che garantirà l’esercizio della libertà individuale secondo il criterio della fede personale. Troppo, davvero troppo, anche per 41 sacerdoti che, su Micromega, cinque mesi fa, hanno difeso la libertà di coscienza che questa legge a molti toglierà. Il Sant’Uffizio appare di nuovo, stavolta trasformato in una cosa dolce e annacquata che si chiama Congregazione per la dottrina della fede. Ma intanto, questa morbida congregazione post conciliare, ha scritto ai vescovi cui quei sacerdoti fanno riferimento perché li richiamassero all’ordine e decidessero come reagire all’insubordinazione.