La lunga vigilia dell’annuale cerimonia che il 28 febbraio prossimo vedrà la consegna degli Academy Awards (Oscar) a Los Angeles continua a essere scossa dalle polemiche sollevate da alcuni attori e registi di colore per l’assenza di interpreti appartenenti a una minoranza etnica tra i candidati alla statuetta nelle principali categorie. Ad animare la protesta sono in particolare il regista Spike Lee e l’attrice Jada Pinkett Smith, moglie di Will Smith, i quali, pur respingendo il concetto di “boicottaggio”, hanno annunciato che non prenderanno parte né seguiranno in TV la prossima consegna degli Oscar.

di Sara Michelucci

Michele Placido porta in teatro Harold Pinter e il suo Tradimenti, mettendo in scena un triangolo amoroso che mostra tutte le fragilità dei tre personaggi coinvolti. Ambra Angiolini, Francesco Scianna e Francesco Biscione sono i protagonisti di un triangolo amoroso tra i più classici (lui, lei e l'altro) all’interno di un racconto fatto al contrario, che parte dalla fine per tornare all’inizio.

Placido sceglie una narrazione asciutta, quasi cinematografia, in un arco temporale che va dal 1977 al 1968. Emma, suo marito Jerry e l’amante Robert, sono le tre pedine di un ménage à trois sterile, dove ormai non si sa più chi è stato tradito e chi, invece, sia il traditore.

Robert ed Emma sono apparentemente una coppia felicemente sposata, hanno successo nei loro rispettivi lavori e sono buoni amici di Jerry e sua moglie Judith. A una festa Jerry confessa ad Emma di amarla e lei ricambia lo stesso sentimento. Ma Robert il più perspicace, il più arguto, il più scaltro dei tre personaggi si accorge dell'infedeltà di sua moglie e infine Emma schiacciata dalle proprie bugie e dal tradimento finalmente confessa.

Quello che Placido porta in teatro è una riflessione sulle relazioni amorose, sul protrarsi delle menzogne, sulla stanchezza dei rapporti. Ma non solo. Il tradimento, infatti, non è esclusivamente verso gli altri, ma anche verso se stessi e la Storia. È un tradimento a più ampio raggio, che coinvolge una serie di valori e un periodo storico ben preciso, quello del Sessantotto e della lotta al potere. Il tradimento di quei valori che hanno mosso una generazione intera nella lotta contro un potere ingiusto.

Lo spettacolo, portato in scena anche al teatro Secci di Terni, entusiasma solo in parte, dato che ci sarebbe aspettata una caratterizzazione dei personaggi più convincente e, forse, un’azione più ‘rivoluzionaria’ nella messa in scena del racconto.

di Sara Michelucci

Commistione, contaminazione, trasversalità. La musica di Giovanni Sollima è tutto questo, e anche qualcosa di più. Il violoncellista palermitano è stato protagonista, con il Quartetto Bernini, della 41ma stagione concertistica dell’Associazione Filarmonica Umbra, portando in scena pezzi di Luigi Boccherini, 'Quintetto in do maggiore'; Franz Shubert/Giovanni Sollima, 'After Gretchen am Spinnrade' e Franz Shubert, ‘Quintetto in do maggiore’.

“La contaminazione in musica, come nelle arti in generale è sempre esistita”, racconta Sollima. “Nell’epoca barocca, in particolare, si assisteva a una forte commistione con la musica popolare e questo sicuramente rappresentava un segno importante di innovazione. Nel Novecento la cosa si è andata un po’ perdendo, per poi riscoprirla e, questo, a mio avviso è molto stimolante. La chiusura è una forma di ‘prudenza’ che fa male. La musica ha bisogno invece di spaziare, è essa stessa una forma di respiro”.

La ricerca è alla base del lavoro di Sollima, un vero virtuoso del violoncello. Suonare per lui non è un semplice fine, ma un mezzo per comunicare con il mondo. “Con la musica si può esprimere ciò che non si può con le parole, evitando anche un certo tasso di retorica”, sottolinea ancora.

La sua capacità di spaziare dai ritmi mediterranei, con una vena melodica tipicamente italiana, ma che nel contempo riesce a raccogliere tutte le epoche, dal barocco al metal, fa sì che sia artefice di una musica unica nel suo genere. Un compositore sicuramente fuori dal comune, basti pensare al progetto, nato insieme al compositore-violoncellista Enrico Melozzi, dei 100 violoncelli, nato nel 2012 all’interno del Teatro Valle Occupato, con lo scopo di dimostrare che si possono abbattere anche barriere di carattere pratico, grazie alla bellezza.

Musicisti di età e formazione diversa, interscambio tra culture e livelli differenti, laboratorio permanente. La promozione di forme di creatività musicale non esclusivamente legate all'esecuzione di repertori già esistenti è una delle prerogative di questo progetto, insieme alla democraticità del suo funzionamento e a un'ampia base di partecipazione. “La musica crea una serie di contatti e di dinamiche che sembrano impossibili, ma che alla fine, invece, si rivelano realizzabili. La musica diventa così un grande laboratorio di ricerca e di provocazione”, aggiunge Sollima.

Ma non c’è solo contaminazione tra generi musicali, ma anche tra forme d’arte diverse. Cinema, danza e teatro sono ambiti alternativi con cui il violoncellista si trova a interagire. “Linguaggi che sembrano a primo acchito diversi, ma che poi si scoprono essere molto simili tra loro. Con la danza in particolare ho trovato una interazione importante. È un’altra forma d’arte che ti fa aprire delle ‘finestre’ a volte inaspettate”.

Ma anche il cinema è un mezzo espressivo importante. “Girerò un film con Carlos Saura a Madrid in cui oltre a suonare farò anche una parte insieme a un danzatore”, annuncia Sollima. E l’Italia secondo il musicista “è ancora un paese dove è possibile sperimentare. Ci sono ancora ‘luoghi’ inesplorati. Ma quello che sicuramente va fatto è ritrovare il forte legame tra sperimentazione e artigianato. Un connubio da cui ripartire per andare lontano”.

di Sara Michelucci

Un rapporto stretto quello che c’è tra gli animali e gli esseri umani. Tanto che per ogni uomo esiste un corrispondente nel mondo faunistico, che ne rispecchia le caratteristiche. E così le aragoste sono i nuovi ricchi, difficili da prendere e che non provano dolore. È la metafora che Piero Balzoni usa nel suo romanzo d’esordio, Come uccidere le aragoste (Giulio Perrone editore), per raccontare la storia di Claudio Amodio, 34enne che lavora per una organizzazione non governativa, adora lo stadio, fuma hashish.

Claudio perde la vita a bordo del suo scooter, dopo essere stato travolto da un’auto pirata sulla tangenziale. Un Suv nero che corre via e non si ferma a prestare soccorso. Spetta a suo fratello Luca ricevere la notizia e comunicarla ai suoi genitori. Ma ben presto Luca si metterà a caccia degli assassini di suo fratello, in una Roma che è sempre più misera moralmente e dove la prepotenza ha la meglio sulla vita degli individui.

“Avevo scritto una prima raccolta di racconti, Animali migratori, che era il tentativo di raccontare gli essere umani attraverso gli animali”, spiega Balzoni. “Successivamente è nata l’idea di realizzare un romanzo e il rapporto che c’è tra animali e esseri umani è diventato quasi una filosofia di pensiero. In ogni essere umano, infatti, si può riscontrare una particolare tipologia di animale. Le aragoste nel mio romanzo sono i nuovi ricchi e mi serviva questa immagine per raccontare la storia di Luca”. Nel romanzo “la metropoli si popola di essere viventi che appaiono a Luca come animali”.

Un modo, questo, per raccontare anche una città difficile come Roma. “Ho sempre provato ad andare via da Roma - prosegue Balzoni - ma sono sempre stato restio a lasciarla. Ho un rapporto di amore e odio con la mia città e nel romanzo non poteva non essere una delle protagoniste. Anzi forse è la vera protagonista. Una città prepotente e dove la violenza è alla base di ogni gesto. Mi interessava, però, parlare di una vicenda umana, personale, non politica, ma che attraversa quella prepotenza. Il mondo in cui si muovono i miei personaggi è fatto di aggressività e di soprusi”.

Un mondo sicuramente sbagliato, ma reale, concreto e che non è difficile da riconoscere come vicino alla propria esistenza. “Quello in cui Luca trova a doversi destreggiare è un universo che non lo considera, un mondo dove è difficile avere giustizia, sostiene Balzoni”.

E in Luca c’è sicuramente parte del suo autore. “Ovviamente mi sento vicino a questo personaggio. Mi ci ritrovo nell’immobilismo, nei concetti primitivi che si fanno azione, nella ricerca di giustizia, nella solitudine e nella incapacità totale di rispecchiarsi in un ambito preciso”.

Balzoni racconta in un certo senso la normalità, ma lo fa mettendo l’accento sulle difficoltà di relazionarsi con una metropoli difficile. “Non è né povero né ricco. Fa parte di una famiglia che tutto sommato ce l'ha sempre fatta. Tutto quello che ha fatto fino al momento dell’incidente lo ha fatto pensando che il fratello maggiore potesse rappresentare per sempre la sua guida. Invece sarà costretto a diventerà la guida di se stesso”.

La mancanza di un punto di riferimento fermo e preciso, è un altro tema che si ritrova nel romanzo. “É vero che anche la nostra generazione non ha mai avuto una guida, abbiamo sempre avuto delle figure 'adottive' mutuate dal passato. Da Pasolini a Che Guevara, passando per miti musicali o cinematografici. Figure di leadership che non appartengono al nostro tempo, in cui mancano totalmente”.

E anche il concetto stesso di fare cultura diventa uno spunto: “La cultura è una cosa spontanea, che nasce come un fungo, quindi naturalmente. È vero, però, che va coltivata, rilanciata e sostenuta. Certo è che, come paese, non siamo stati capaci di stimolare e di far cresce alcuni movimenti culturali che ci sono stati e che rappresentavano delle occasioni importanti”.

Come Uccidere le aragoste è vincitore del Premio Orlando Esplorazioni 2015 e si è guadagnato un secondo posto al Premio Letterario Nazionale Città di Forlì XI edizione.

di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Per celebrare i loro fasti coloniali, l'approccio degli inglesi sicuramente non sarebbe stato lo stesso. Avrebbero rispolverato le cornamuse, i pifferi, tra un grande sbattere di tacchi e l'arroganza che li contraddistingue., Diverso infatti è il tono usato dei tedeschi. Discreto, sommesso, quasi pretesco ma non per questo meno pervaso di orgogliosa solennità.

Ne è una riprova la mostra “Dance of the Ancestors Art from the Sepik of Papua New Guinea” (resterà aperta fino al 15 di giugno al Martin-Gropius-Bau di Berlino), che offre lo spunto per ricordare che è esistito pure l'Impero coloniale tedesco il Deutsche Kolonien und Schutzgebietee che durò soltanto 35 anni.

Infatti, la Nuova Guinea è stata dal 1884 un protettorato tedesco che comprendeva il territorio della parte nord-orientale del Paese e  alcuni arcipelaghi vicini, che rimasero appunto sotto il controllo coloniale germanico fino al 1919 quando, a seguito della sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale, furono ceduti con il Trattato di Versailles all'Australia.

E così il defilé di sculture e di antiche immagini nella mostra al Martin-Gropius-Bau di Berlino fa tornare in mente Christa Wolf quando scrive che “il passato non e? morto; e non e? nemmeno passato”, sebbene, “noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.

Beninteso la memoria del passato - tra rimozione ed eterno ritorno – non ci guadagna in profondità e in complessità, piuttosto in semplificazione, superficialità, e sempre più spesso in manipolazione. Non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica, costituita da moltissimi elementi a loro volta condizionati dalla volgarizzazione della cultura di base realizzata con le forme moderne di retorica e di populismo, messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Sicché i potenti non possono che esserne soddisfatti.

A loro modo lo facevano anche gli antichi romani: panem et circenses (letteralmente «pane e giochi [del circo]» e, quindi, dando a tutti la percezione di condividere un’idea di civiltà, di bene comune. E' l'universalismo, la globalizzazione che ha dato vita a queste società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo, ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. Pertanto la partecipazione civile si limita sempre di più a funzioni che permettono di raccomandare un contenuto, una memoria storica, un gesto politico con il fatidico e il semplice “mi piace”.

I tedeschi – finché possono – mantengono le distanze da questo universalismo dirompente che tanto piace agli anglosassoni che lo impongono. Ai tedeschi viene naturale prima evidenziare le differenze e poi, eventualmente, unirsi. Poiché è l’insicurezza cosmica che da sempre li guida nelle cose del mondo. È quella che li ha indotti a riformare la loro economia quando gli altri, America in testa, folleggiavano. Un segno di avvedutezza che li legittima nella guida d’Europa. Ne vanno fieri.

E'una consuetudine di governo che ha radici antiche. Infatti la bandiera tedesca fu piantata nel Pacifico non dalle armate del sovrano, bensì da Herr Adolf von Hansemann, direttore della Disconto-Gesellschaft, una delle più importanti banche tedesche dell'epoca e fondatore della Compagnia della Nuova Guinea Tedesca, la Deutsche Neuguinea-Kompagnie creata il 26 maggio 1884 con lo scopo di fondare una nuova colonia commerciale nella regione della Nuova Guinea non ancora occupata dalle altre potenze coloniali.

Il governo tedesco però vi giunse due anni dopo, poiché l'intraprendente direttore, sommerso dalle difficoltà, fu costretto a “girare” allo Stato il mandato della Deutsche Neuguinea-Kompagnie.

Raccontano i libri di storia che soltanto il 1º aprile 1899 la Germania prese ufficialmente il controllo del territorio e il 30 luglio di quello stesso anno, a seguito di un trattato con la Spagna, acquisì dei nuovi territori, diventando una potenza coloniale da tutti paesi riconosciuta.

Come tale durò poco poiché, come detto, allo scoppio della prima guerra mondiale le forze australiane occuparono Kaiser-Wilhelmsland mentre il resto dei possedimenti coloniali della Nuova Guinea Tedesca vennero invasi dal Giappone. Dopodiché con il Trattato di Versailles l'avventura coloniale germanica si estinse.

Di questo e di altro se ne fa cenno nel catalogo della mostra  al Martin-Gropius-Bau, ma soltanto per ricordare che la Grande Guerra  bloccò l'opera degli esploratori tedeschi i quali avevano scoperto le foci del fiume Sepik dopo aver per primi navigato quelle acque sulla nave tedesca Ottilie. E chissà quant'altro avrebbero scoperto ancora se non ci fosse stato il conflitto, lascia intendere la breve nota della mostra.

Naturalmente essa ricorda pure che la spedizione (1912-1913) del Königliches Museum für Völkerkunde (Museo Reale di Etnologia) di Berlino è bastata per far capire al mondo che la zona intorno al fiume Sepik è una delle regioni più importanti per la ricerca etnografica e scientifica nei mari del Sud. La conclusione è - anche se non è scritto in modo esplicito - che da quando il mandato della Società delle Nazioni è stato affidato all'Australia con il nome di Territorio della Nuova Guinea, si è fatto ben poco, quasi niente.

Ricordo che quando negli anni Settanta attraversai per la prima volta l'ex Kaiser-Wilhelmsland diventato Papua Nuova Guinea; dalla capitale Port Moresby a Mount Hagen, da Angoram sul fiume Sepik fino a Wewak che si affaccia sul Mare di Bismarck, di tedesco oltre il nome del mare era rimasto ben poco, almeno così sembrava al primo impatto.

Invece, per essere nel vero, erano rimaste le parrocchie luterane e cattoliche, più numerose le prime delle seconde, sebbene le cattoliche siano ancora oggi le più “fortunate”  per numero di fedeli, poiché i loro riti ecclesiali meglio si conciliano col folclore dei culti dei nativi. Inoltre, ancora si parlava e si parla tuttora una sorta di lingua locale mescolata alla lingua germanica denominata Unserdeutsch oppure il Creolo tedesco di Rabaul, la città che fu per oltre un ventennio il quartier generale della Nuova Guinea Tedesca.

Insomma, se si tiene a mente che il 30 per cento della popolazione pratica culti tradizionali, per lo più combinandoli con il Cristianesimo e il restante 69 per cento degli abitanti dichiara di praticare esclusivamente la religione cristiana, ben si capisce che i tedeschi hanno lasciato un segno indelebile. E quel risultato non l'hanno gridato, anzi non l'hanno nemmeno celebrato nemmeno adesso, con la mostra.

Un altro segnale di avvedutezza che rientra nelle abitudini tedesche. Non vi è Paese in Europa dove il dibattito politico sia così attutito dal bisogno di non spaventare gli elettori e i vicini. Non vi è mai nulla di gridato. Decisamente l'opposto di quanto accade in Italia. La differenza si vede. Il Paese è competitivo, stabile come mai lo è stato e il governo di Angela Merkel è inattaccabile per chiunque voglia criticarne i risultati.

Eppure George Friedman, americano di origini ungheresi, presidente del think-tank Stratfor, “un’autorità” in materia di intelligence tattica e strategica globale,come lo ha definito il NYTimes, parlando della Germania ha usato parole pesanti come pietre: “Per gli Stati Uniti la paura fondamentale è che il capitale finanziario e la tecnologia tedeschi si saldino con le risorse naturali e la mano d’opera russe”. Ha aggiunto che è “l’unica alleanza che fa paura agli Stati Uniti, cerchiamo di impedirla da un secolo”.

E ancora: “Mentre gli Stati Uniti stendono il loro cordone sanitario fra Europa e Russia, e la Russia cerca di tirare l’Ucraina dalla sua parte, non conosciamo la posizione della Germania che con la Russia ha relazioni particolari”.(per esempio l’ex Cancelliere Schoeder oltre a presiedere il consorzio NorthStream è nel cda di Gazprom).

Friedman parlava al Chicago Council of Global Affairs, una sorta di sede distaccata dell’influente Council of Foreign Relations  nel cui board figura anche Michelle Obama.

Eppure il presidente del think-tank Stratfor non s'è posto complessi quando ha concluso ribadendo con veemenza:  “La Germania è la nostra incognita. Cosa farà? Non lo sanno nemmeno loro, i tedeschi”. Insomma per Friedman la Germania “gigante economico, ma fragile a livello geopolitico è l'eterno problema. Dal 1871 la questione europea è questione tedesca”.

Non v'è stato un cenno ai comportamenti dell'Italia, per non dire della Francia e di tutto il resto dell'Europa. Dopotutto, “io sono il primo servitore dello Stato”, lo disse Federico, re di Prussia, mica altri.

Se lo si confronta con l'irrefutabile "L'Etat c'est moi" di Luigi XIV rifulge in tutta la sua dimensione la diversità tedesca. Essa offre sempre nuovi pretesti agli americani per erigersi a dominatori del mondo; innervosisce gli inglesi, mette in crisi di identità i francesi, mentre i polacchi e i baltici si affannano riverenti a sostenere le mire americane, gli italiani titubano e quel che resta dell'Unione balbetta.

Quanto basta perché l'Europa si ritrovi di nuovo in guerra per colpa dei tedeschi? E' il post martellante che i neoconservatori americani diffondono. Attendendosi il “mi piace”.













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