di Fabrizio Casari

Tra pochi giorni, Barak Obama, svestirà i panni del fenomeno politico-mediatico per indossare quelli - certo meno confortevoli e assai più impegnativi - di Presidente degli Stati Uniti d’America. Si è già scritto e detto in ogni salsa di quello che il primo presidente afroamericano simboleggia nel contesto di una superpotenza mai così in crisi d’identità, ruolo e prospettive, insomma di leadership globale. Si dirà e si scriverà di cosa farà nei primi cento giorni del suo mandato, come se la crisi sistemica che investe gli Stati Uniti fosse risolvibile in tre mesi di presidenza più o meno illuminata. Ma se i primi passi saranno dedicati a smantellare le linee di politica interna ed estera di Bush, un aspetto non secondario di questo percorso riguarderà proprio il rapporto tra Stati Uniti e America Latina. Nel suo programma elettorale, il neo presidente Usa aveva dedicato solo tredici pagine ai rapporti con il resto del continente, senza cheperaltro vi fossero però contenute particolari, significative affermazioni tali da giustificare ipotesi di lavoro immediate. Anzi, a ben guardare, solo nel capitoletto dedicato all’America Latina non si inneggiava al “change”, non si lanciavano slogan che potessero svegliare attese e speranze nei popoli latinoamericani per il nuovo inquilino della Casa Bianca.

di Giuseppe Zaccagni

Il governo della Corea del Sud si rifiuta di avanzare commenti ed ipotesi. Da Pechino e da Mosca arrivano solo timide voci e tutte riferite a fonti occidentali. Solo la Cia mette in moto la sua macchina spionistica e, dal cosmo, controlla ogni mossa per poi vendere ai media di tutto il mondo notizie, illazioni, versioni interessate. Su chi? Su Kim Jong Il, capo assoluto di una Corea del Nord silenziosa e blindata. Il personaggio è misterioso e fa del tutto per restare tale. Ed ora si parla, con insistenza, di una sua grave malattia e dell’eventuale fase di transizione che porterebbe ad una cambio della guardia al vertice del suo paese. Comunque sia una serie di notizie filtrano segnate anche da informazioni di ordine biografico.

di Eugenio Roscini Vitali

Operazione militare “Piombo fuso” su Gaza, ottavo giorno. Dopo i raid dell’aviazione israeliana e il martellante e distruttivo bombardamento dei cannoni Howitzer, i carri armati Merkava varcano il confine e la guerra entra nella seconda fase. Le truppe di terra penetrano dal confine settentrionale della Striscia: due i punti di ingresso, nei pressi di Beit Lahiya, proprio dove nel pomeriggio l'artiglieria pesante aveva colpito duro, distruggendo una moschea piena di fedeli. L'operazione prende il via alle 20:00, ora locale, proprio mentre con un comunicato lo Stato maggiore informa che l'obiettivo dell'incursione è prendere il controllo delle aree dalle quali Hamas effettua il lancio di razzi sul Neveg . Mentre i miliziani palestinesi cercano di rispondere all'invasione con un fuoco di sbarramento e con l'uso di mortai, sei i colpi sparati in serata, le truppe del Tsahal (Esercito di Difesa di Israele) avanzano appoggiate da elicotteri da combattimento e in poche ore assunto il controllo di alcune rampe di lancio dei razzi Qassam.

di Carlo Benedetti

E’ ormai chiaro che con l’arrivo del 2009 uno dei due, prima o poi, dovrà mollare. Perché lo spazio “russo” postsovietico - che è ancora in preda alle convulsioni della troppo rapida e imprevista disgregazione dell’Urss - non può permettersi il lusso di avere al vertice due capi che si guardano a distanza copiando, di volta in volta, azioni e decisioni. La situazione è al limite della tollerabilità istituzionale, con situazioni a volte paradossali e ridicole che rivelano, tra l’altro, lotte concorrenziali tra le nomenklature che si sono formate al seguito dei due “capi”. Da un lato, infatti, c’è il “vecchio” Presidente Vladimir Putin (classe 1952) che ha dovuto mollare il Cremlino (dove si era insediato nel marzo 2000) per puri motivi di ordine costituzionale, ma mettendosi poi al sicuro sulla poltrona di primo ministro. Dall’altro c’è il suo successore, il neo presidente Dmitrij Medvedev (classe 1965), il giurista che si è fatto le ossa nelle strutture economiche del “Gasprom”.

di Stefania Pavone

“La tregua non serve”. Così la Livni ha risposto alla richiesta di tregua avanzata dalla Ue. Sembrava che quarantotto ore bastassero a evitare la catastrofe di Gaza quando Kouchner, nell’abito del vertice UE, aveva ammonito Barak sulla necessità di portare aiuti nella Striscia. Uno spiraglio s’era aperto: in serata, il Ministro della Difesa israeliano aveva annunciato la disponibilità ad un tregua di quarantotto ore. E invece niente. Israele ha respinto la proposta avanzata dalla Francia. Secondo la radio militare israeliana, questa decisione sarebbe emersa al termine di una lunga consultazione fra il premier Ehud Olmert, il Ministro degli Esteri Tzipi Livni e il Ministro della Difesa Ehud Barak. Ad inasprire la posizione di Israele sarebbero stati i continui lanci di razzi palestinesi contro la città di Beer Sheva, che avrebbero dimostrato come gli obiettivi dell’operazione”piombo fuso” non siano stati ancora raggiunti. Intanto Fawzi Barhum, un dirigente di Hamas a Gaza, in un comunicato alza il tiro e dichiara che posta vera nel gioco diplomatico internazionale dev’essere “ la fine dell’aggressione israeliana”.


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