di Mario Braconi

Anche se sono passati ormai sei anni dall’invasione dell’Iraq, molti in Inghilterra non si sono rassegnati: la partecipazione del loro Paese ad una guerra assurda proprio non riescono a tollerarla. Ed Davey, responsabile Esteri dei Liberaldemocratici, lo ha detto chiaro e tondo in un’intervista a BBC News Channel: “I politici che a suo tempo hanno preso queste decisioni, incredibilmente discutibili, dovrebbero essere chiamati a risponderne. Purtroppo il governo laburista ha costruito un muro di segreti che, dal 2003 in poi, di fatto ha impedito alla verità di filtrare. Continuiamo a chiedere una commissione di inchiesta sulla guerra in Iraq: il governo, che a parole sembra sostenerla, non l’ha mai messa all’ordine del giorno”.

di Eugenio Roscini Vitali

L’invio di 3 mila uomini della 10^ Divisione da montagna nelle province afgane di Logar e Wardak, decisione presa alla fine dello scorso anno dalla Casa Bianca come risposta all’escalation delle attività talebane, è stato l’ultimo atto dell’amministrazione Bush. Il primo dell’amministrazione Obama, datato 17 febbraio 2009, è stato l’annuncio del rischieramento di 17 mila soldati. Lo scopo del Pentagono è limitare il movimento della guerriglia che dal Pakistan settentrionale entra in Afghanistan attraverso le province di Badakhshan, Konar, Nangarhar e Paktia. Il primo effetto è la crescente preoccupazione espressa dalla catena di comando che rimane riluttante di fronte ad un frettoloso ritiro dall’Iraq e mostra una certa preoccupazione circa il sovraccarico a cui sono sottoposti l’esercito e i corpi dei marines in Asia centro-meridionale. La strategia americana è chiara: applicare in Afghanistan lo stesso algoritmo già sperimentato sul fronte iracheno, soprattutto ora che, dopo otto anni di guerra, sono anche i media ad esprimere dubbi sui risultati ottenuti in un paese dove il progressivo deterioramento della sicurezza rende impossibile qualsiasi soluzione.

di Michele Paris

Si è conclusa qualche giorno fa tra molte polemiche la prima missione all’estero del nuovo Segretario di Stato Americano, Hillary Clinton. La ex first lady ha chiuso il suo tour asiatico a Pechino evitando di sollevare le spinose questioni legate ai diritti umani in Cina, attirando su di sé le critiche delle principali organizzazioni che si battono per il progresso delle libertà civili nelll’immenso paese. Al di là delle condanne espresse da molti circa le priorità manifestate ufficialmente dalla nuova amministrazione di Washington, la prima uscita ufficiale del responsabile della politica estera americana ha messo in luce però un innegabile inversione di rotta rispetto agli ultimi otto anni. Un atteggiamento improntato cioé ad un sostanziale realismo, che potrebbe far scorgere in lontananza una revisione delle basi su cui si fondano i rapporti bilaterali tra gli USA e gli altri principali attori planetari e, soprattutto, la possibilità di cogliere maggiori frutti nell’ambito della cooperazione internazionale.

di Michele Paris

Si è conclusa qualche giorno fa tra molte polemiche la prima missione all’estero del nuovo Segretario di Stato Americano, Hillary Clinton. La ex first lady ha chiuso il suo tour asiatico a Pechino evitando di sollevare le spinose questioni legate ai diritti umani in Cina, attirando su di sé le critiche delle principali organizzazioni che si battono per il progresso delle libertà civili nelll’immenso paese. Al di là delle condanne espresse da molti circa le priorità manifestate ufficialmente dalla nuova amministrazione di Washington, la prima uscita ufficiale del responsabile della politica estera americana ha messo in luce però un innegabile inversione di rotta rispetto agli ultimi otto anni. Un atteggiamento improntato cioé ad un sostanziale realismo, che potrebbe far scorgere in lontananza una revisione delle basi su cui si fondano i rapporti bilaterali tra gli USA e gli altri principali attori planetari e, soprattutto, la possibilità di cogliere maggiori frutti nell’ambito della cooperazione internazionale.

di Michele Paris

A pochi giorni di distanza dalle celebrazioni per i duecento anni dalla nascita di Charles Darwin, negli Stati Uniti è tornata d’attualità la polemica intorno all’insegnamento del creazionismo nelle scuole pubbliche. Ancora una volta al centro dell’attenzione è lo stato della Louisiana, il cui governatore – l’astro nascente del Partito Repubblicano Bobby Jindal – la scorsa estate aveva firmato un provvedimento volto a consentire nelle classi l’uso di “libri di testo che stimolino negli studenti un approccio critico verso le teorie scientifiche”. Il regalo fatto dal governatore agli integralisti cristiani, che compongono una fetta importante della sua base elettorale, è però stato attaccato duramente da un’associazione di scienziati americani che ha cancellato per protesta un proprio convegno in programma a New Orleans.


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