di Marco Montemurro

Cambiano gli equilibri energetici in Asia con la storica decisione dell’Indonesia di uscire dall’Opec, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio. Il greggio nei giacimenti indonesiani non è in quantità sufficiente per essere venduto all’estero e pertanto appartenere al cartello non è più conveniente per l’unico paese asiatico del gruppo. Il volume delle importazioni di petrolio ormai è superiore a quello delle esportazioni e il greggio estratto, quantità che rappresentava solo il 3% della produzione dell’Opec, è in grado di soddisfare solamente il 70% del consumo indonesiano. “Ci concentreremo sulla domanda nazionale di greggio” ha affermato Paskah Suzeta, il ministro per la Pianificazione e lo Sviluppo, che ha spiegato così i motivi della decisione: “Appartenere all’Opec era una spesa troppo costosa”. Nel corso degli anni le risorse petrolifere in Indonesia hanno registrato un continuo calo, processo che ha comportato inesorabili cambiamenti nel commercio di energia nella regione.

di Giuseppe Zaccagni

Nell’arena mondiale ci sono oggi 13 paesi che puntano ad allargare i loro confini basandosi sulla piattaforma continentale. Sono Russia, Brasile, Australia, Irlanda, Francia, Spagna, Inghilterra, Norvegia, Messico, Barbados, Argentina, Cile, Nuova Zelanda. E’ in arrivo, quindi, una nuova rivoluzione destinata a ridisegnare geopoliticamente il mondo e tutto avviene anche per effetto di una convenzione dell’Onu sui diritti del mare. Procediamo con ordine cercando di vedere i motivi che potrebbero provocare tsunami diplomaticamente epocali. L’intera vicenda non è nuova pur se c’è il tentativo di riscoprire il valore di vecchie regole. Ci si potrà riferire così anche allo zar russo - Pietro Il Grande - che aveva come obiettivo quello di conquistare uno sbocco al mare assicurandosi il predominio sul Baltico e sulla regione del Mar Nero.

di Michele Andalini

E’ proprio il caso di dire che c’è poco da ridere. Sì perché hanno arrestato anche lui, il più celebre comico e attore birmano Maung Thura, in arte Zarganar, già noto per essere stato detenuto tre settimane a settembre del 2007 per aver sostenuto la rivolta dei monaci buddisti nella loro protesta antigovernativa. Ne ha dato notizia settimana scorsa la famiglia dell’attore, detenuto nel famigerato carcere Insein di Rangoon, dopo aver tentato anche lui, insieme a diversi altri donatori privati birmani, di portare aiuto alla popolazione civile dopo che il devastante ciclone Nargis ha distrutto le coste birmane e il delta del fiume Irrawaddy. La giunta militare parla di 78 mila vittime accertate e circa 56 mila dispersi. Secondo le Nazioni Unite 1 milione di persone ha tutt’oggi bisogno di cibo, assistenza medica e un tetto. Ma la conta delle vittime è difficile, perché il territorio su cui si è abbattuto il ciclone è molto ampio e la popolazione che vi abita vive in casette di legno o palafitte, approssimative e sparse senza un nucleo centrale vero e proprio.

di Eugenio Roscini Vitali

“Go Musharraf, go!”; è questo il grido che risuona per le vie di Lahore, Karachi, Rawalpindi, è questo lo slogan che migliaia di dimostranti inneggiano per le vie della capitale, è quanto i deputati della maggioranza chiedono a gran voce. L’ex generale però non molla e mentre il Paese scivola inesorabilmente verso la paralisi istituzionale lui resta aggrappato al potere, deciso a resistere, quasi certo che nulla potrà scalfire la sua immagine di leader. Musharraf non sembra scomporsi neanche di fronte all’oceanica dimostrazione organizzata dagli avvocati pakistani, decine di migliaia accorsi da ogni angolo del Paese per manifestare contro il presidente e per chiedere la riammissione dei giudici sospesi dal loro incarico prima delle elezioni dello scorso febbraio. Nonostante l’esercito abbia creato un cordone di sicurezza che comprende la residenza presidenziale, il Parlamento, la Corte suprema e il quartiere delle ambasciate, ad Islamabad la situazione rimane comunque tesissima: la scorsa settimana un attacco suicida contro la missione diplomatica danese aveva causato la morte di sei persone.

di Elena Ferrara

Il “no” irlandese scotta ancora e subito si profila all’orizzonte un nuovo e possibile “no”. Piccolo, anzi piccolissimo, ma pur sempre un “no”. Viene da una regione quasi sconosciuta e precisamente dall’arcipelago delle isole Aland (6.500 abitanti tra scogli e isolotti nel cuore del mar Baltico, regione autonoma, demilitarizzata) che si prepara a non ratificare il testo di riforma delle istituzioni europee per protestare contro le istituzioni di Bruxelles. L’accusa che viene dagli isolani (quasi tutti di madrelingua svedese) può sembrare banale, ma è destinata - proprio in questo particolare momento - a cadere sull’Unione Europea come un macigno. Il fatto è che nell’arcipelago, ora interessato al referendum sull’Ue, la protesta è notevole: tutti sono contro le istituzioni di Bruxelles ritenute “irrispettose” degli interessi degli abitanti. Nessuna motivazione geopolitica o geostrategica, no. Il fatto è che a Brando, la “capitale” si stanno scatenando sempre più le ire delle popolazioni dell’intero arcipelago - Lemland, Sund e Geta - contro la decisione dell’Ue di vietare l’uso e il commercio dello “snus”.


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