La promessa di Donald Trump di ristabilire il controllo americano sul canale di Panama si è scontrata in questi giorni con la decisione del governo cinese di bloccare un recente mega-accordo, dai connotati marcatamente politici, per cedere la gestione logistica di due porti nel paese centro-americano a un consorzio guidato dal colosso USA degli investimenti gestiti, BlackRock. L’autorità di vigilanza antitrust cinese (SAMR) ha aperto un’indagine sull’operazione che potrebbe fruttare alla “holding” CK Hutchison, storicamente legata a Hong Kong ma con sede legale alle isole Cayman, circa 23 miliardi di dollari. Questa decisione, che sospende la ratifica dell’accordo, è stata con ogni probabilità sollecitata dai vertici del governo di Pechino, da dove nelle ultime settimane erano circolati commenti tutt’altro che entusiasti nei confronti di un’operazione dalle implicazioni strategiche ritenute preoccupanti dalla Repubblica Popolare.

Le possibilità di un qualche significativo progresso diplomatico nella crisi russo-ucraina continuano a dipendere dalle decisioni del regime di Zelensky e dei suoi sponsor europei, più impegnati a cercare di sabotare le trattative tra Russia e Stati Uniti che a impegnarsi per creare un clima favorevole alla cessazione delle ostilità. Kiev insiste nel condurre inutili operazioni militari contro obiettivi civili o, in diretta violazione dei termini della tregua negoziata dall’amministrazione Trump, prendendo di mira “infrastrutture energetiche” russe. L’Europa, da parte sua, con in testa il presidente francese Macron e il premier britannico Starmer, discute invece attorno a un impraticabile progetto di intervento militare a sostegno dell’Ucraina, mentre si rifiuta anche solo di considerare l’alleggerimento di alcune sanzioni imposte alla Russia, che potrebbe sbloccare l’accordo sulla libera navigazione commerciale nel Mar Nero, sottoscritto in linea di principio settimana scorsa a Riyadh tra Mosca e Washington.

Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha respinto ufficialmente domenica qualsiasi negoziato diretto con gli Stati Uniti, rispondendo a una lettera inviata da Donald Trump il 12 marzo scorso attraverso la mediazione degli Emirati Arabi. Tuttavia, Pezeshkian ha lasciato aperta la porta a “colloqui indiretti”, subordinati al comportamento di Washington. “L’Iran non si è mai sottratto al dialogo, ma sono le promesse non mantenute dell’altra parte ad avere eroso la fiducia”, ha dichiarato il presidente della Repubblica Islamica durante un incontro governativo, sottolineando che Teheran “valuterà le azioni concrete americane prima di qualsiasi ulteriore passo”. 

Il 2 Aprile avrà inizio il sistema di dazi che gli Stati Uniti hanno deciso di imporre ai suoi soci commerciali e ad alcuni suoi nemici storici. L’idea dei dazi ha due obiettivi, entrambi riassumibili nella difesa della centralità statunitense sull’economia mondiale. Si vuole il ripristino della forza industriale perduta dopo il progressivo abbandono della stessa in vista di una riconversione del processo di accumulazione primario spostatosi sulla finanza e sui servizi. La perdita di milioni di posti di lavoro ha sconquassato l’equilibrio sociale interno e costretto ad una maggiorazione dell’import che è pesantemente gravata sul bilancio commerciale.

La scommessa politica di Trump è sul complesso dell’architettura economica statunitense, ovvero sulla necessità di ripristinare una supremazia nella produzione industriale riducendo il peso preponderante della finanza e invertendo il ciclo globalista nel rapporto tra import ed export. In sostanza Trump si propone di attaccare il modello economico-finanziario ultra monetarista sostenuto dal partito democratico, imputandogli la perdita di competitività dell’economia derivante dalla dismissione dei processi produttivi di tipo industriale e dalla crescita del PIL basata solo sulla speculazione finanziaria con la consegna alle banche della direzione dei processi economici del Paese.

Anche se scopi e obiettivi ufficiali dei nuovi dazi, annunciati questa settimana sulle auto di importazione, non corrispondono alle conseguenze che avranno realmente nel breve e medio periodo, il presidente americano Trump ha deciso di procedere con l’ennesima escalation di una guerra commerciale globale sempre più difficile da arginare. A partire dal prossimo 2 aprile, non solo le auto e gli autocarri “leggeri” in ingresso negli Stati Uniti saranno gravati da una tariffa doganale del 25%, ma anche le singole parti di essi, inclusi motori e trasmissioni. Un dettaglio, quest’ultimo, che, in un settore industriale altamente integrato come quello nordamericano, rischia di stravolgere le catene di approvvigionamento e far schizzare i prezzi di vendita anche per le vetture considerate di origine statunitense.


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