L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove.

La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, relativo alla legittima difesa, in quanto avvenuto dopo un attacco a tutti gli effetti contro il territorio dell’Iran, cioè il bombardamento della rappresentanza diplomatica di quest’ultimo paese a Damasco il primo aprile scorso.

Le recenti iniziative del Nicaragua nello scenario internazionale hanno scosso potenti e impotenti dal torpore dell’ovvio. La difesa coerente del Diritto Internazionale ha previsto, insieme all’atto d’accusa contro i suoi violatori, azioni di risposta che, dignitosamente, non hanno tenuto conto di dimensioni, peso, incidenza e alleanze, bensì tra ciò che è giusto e ciò che non lo è.

La spaccatura tra le due principali correnti del Partito Repubblicano americano si è aggravata questa settimana con la clamorosa bocciatura alla Camera dei Rappresentanti di Washington di un provvedimento collegato a uno degli aspetti più controversi delle attività di sorveglianza e intercettazione delle comunicazioni elettroniche da parte dell’intelligence USA. Dopo l’appello lanciato dall’ex presidente Trump alla vigilia del voto in aula, diciannove deputati della destra “libertaria” si sono infatti uniti mercoledì ai colleghi democratici per affondare la legge già nella fase iniziale del suo iter legislativo.

Le ultime stragi commesse da Israele sembrano avere convinto alcuni governi, che continuano a intrattenere normali rapporti commerciali con lo stato ebraico, a ripensare le proprie politiche e a fare almeno qualche timido passo a favore della causa palestinese. Il governo turco, in particolare, ha deciso finalmente nella giornata di martedì di congelare le esportazioni di una serie di beni verso Israele, facendo registrare il primo provvedimento concreto in risposta al genocidio in atto. Erdogan ha usato in questi mesi toni molto duri nei confronti di Netanyahu, ma a convincerlo ad agire per infliggere un qualche costo al governo di quest’ultimo e all’economia israeliana è stata alla fine la pesante sconfitta della settimana scorsa nelle elezioni amministrative turche.

Il ballottaggio delle elezioni presidenziali in Slovacchia ha registrato un netto ribaltamento dei risultati del primo turno di un paio di settimane fa, con il successo, peraltro non troppo a sorpresa, del candidato appoggiato dal governo in carica, l’ex primo ministro Peter Pellegrini. Il 48enne politico di origini italiane è rimasto fermo sulle posizioni anti-belliche della prima parte della sua campagna elettorale ed è riuscito a capitalizzare, come già aveva fatto nelle elezioni legislative dello scorso ottobre l’attuale premier Robert Fico, la crescente ostilità popolare nei confronti dell’UE e dell’appoggio incondizionato al regime di Zelensky nella guerra in corso contro la Russia.

Da Bruxelles e Washington si sperava e ci si era adoperati attivamente per favorire il successo dell’altro candidato qualificatosi per il ballottaggio, l’ex ministro degli Esteri ed ex ambasciatore slovacco negli USA, Ivan Korčok, esponente dell’opposizione europeista e russofoba. A risultare decisivo, in termini numerici, è stato lo spostamento della maggioranza dei voti ottenuti dai candidati di destra eliminati al primo turno, essi stessi espressione in larga misura delle frustrazioni diffuse per le politiche “mainstream” europee.


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