di Rosa Ana De Santis

Il tempo dei dibattiti infuocati è al tramonto. Silenzio sulle associazioni che lavorano ogni giorno tra gli immigrati. Silenzio sugli ospedali dove i medici non hanno voluto prestarsi a fare i poliziotti. Mute le aule delle scuole, così piene di piccoli immigrati, ormai chiuse per le prossime vacanze. Arriva così, sotto il sole bollente, l’annuncio che il DDL sicurezza ha avuto il SI del Senato. Plaude il governo e il suo capo, affamati di quella sicurezza venduta in pillole di spot tra una propaganda e l’altra. Per l’Italia non è un passaggio come un altro. Si tratta di un vero cambio di rotta, finalmente esplicito e non solo sussurrato. Un manifesto nero di politica e una semina di disvalori da dare in pasto all’opinione pubblica in letargo. Alla vigilia del G8, mentre Ratzinger scrive a Berlusconi ricordandogli l’urgenza dell’etica nella politica dei grandi della Terra, il nostro Paese si chiude in un tempio di cristallo.

di Mariavittoria Orsolato

Quando in Italia succedono tragedie come quella dell’Abruzzo o quest’ultima di Viareggio, la prima cosa da fare, oltre che recarsi immediatamente sul posto (cosa difficile se non impossibile per i comuni mortali), è piangere i morti con lacrime amare e sacrosanto rispetto. Per le polemiche non c’è spazio, non c’è tempo e poi, diciamolo, sono talmente di cattivo gusto da far trasformare un semplice cittadino preoccupato in un pericoloso facinoroso. Lo garantisce Matteo Mastromauro per il Tg5 di Clemente J. Mimun. Ma davanti a stragi come questa, per cui il bilancio provvisorio è ormai di 21 vittime e 28 feriti in gravissime condizioni a causa delle ustioni, è cosa buona e giusta domandarsi se la tragedia poteva essere scongiurata, o perlomeno prevenuta. E pazienza se l’infame lettera scarlatta del disfattismo marchierà a fuoco le seguenti elucubrazioni.

di Rosa Ana De Santis

Loro sono i detenuti, i cittadini invisibili. La loro é una voce scomoda, inopportuna. Quasi un pudore impedisce di parlare delle loro storie, di come vivano la detenzione, di come passino le giornate nelle gabbie dell’allevamento dove l’ossigeno si beve a sorsi di cannuccia . Del resto non è raro vedere le smorfie del fastidio sul viso della gente comune nel sentire di persone per le quali la pena è diventata davvero un’occasione di recupero e una possibilità di reintegro nella società. I colpevoli sono colpevoli. La libido forcaiola perde le staffe quando i numeri e le inchieste raccontano di condizioni di vita disumane, di sovraffollamento, di disagi sanitari, di totale abbandono. Perché la pena ha bisogno di un surplus di cattiveria. Sono 20.000 i detenuti in più rispetto al limite della “tollerabilità”. L’Italia ne conta ormai 63.460. L’Emilia Romagna vanta il record di un sovraffollamento del 193%. Questi sono solo alcuni numeri della matematica preoccupante dei penitenziari italiani.

di Rosa Ana De Santis

La storia di Omar Ba, senegalese di 29 anni, è strana. Insolita e un po’ stonata per la nostra coscienza collettiva ormai satura, quasi appagata dalla marea continua che porta dall’Africa folle di bisognosi sulle nostre spiagge. E’ normale sentire radicato un canone culturale di superiorità su quel tappeto di stranieri che quando non muoiono immediatamente di povertà, fuggono e rimangono nascosti, o stanno a guardare, impotenti, familiari e compagni di viaggio inghiottiti dall’odissea della miseria. Un viaggio così è quello che ha fatto Omar Ba e lo ha raccontato in un libro dal titolo “Sono venuto, ho visto e non credo più”. Ha provato a raggiungere l’Europa dal deserto algerino, poi ancora con un’imbarcazione che l’ha portato a Lampedusa. Dopo 48 ore di fermo è stato rispedito in Marocco. Ce l’ha fatta passando per le Canarie e rimanendo clandestino per due anni a Madrid. Chiuso nel frigorifero di un camion è poi arrivato in Francia. Oggi studia all’Università di Parigi e lavora per un ONG.

di Mario Braconi

Vi presento Milo, un ragazzino di dieci, dodici anni, un visetto sveglio e simpatico. Quando lo chiamiamo, siede sull’altalena dietro la sua casa, un edificio elegante e un po’ pretenzioso con tanto di peristilio: si alza in piedi e ci viene incontro. “Come stai?” gli domandiamo. “Tutto a posto, e tu?”. Rispondiamo: “Bene, un po’ nervoso”. “Tu nervoso? Non ci credo”, risponde. “Questa è la prima volta che migliaia di persone faranno questa esperienza…”. “Migliaia di persone?”, si domanda Milo, scrutando nervosamente dietro alle nostre spalle. “Hai fatto i compiti?”, gli chiediamo. Il ragazzino abbassa lo sguardo e si mette a camminare verso un piccolo stagno abbozzando qualche scusa imbarazzata, senza guardarci negli occhi; è chiaro, lo abbiamo preso in castagna. Quando gli proponiamo di aiutarlo nella ricerca che deve fare per la scuola, ci chiede di raggiungerlo presso la sua postazione, sulla riva dello stagno; lui ci arriva con un salto spericolato. Sussultiamo.


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