di Sara Michelucci

Tra gli anni Ottanta e Novanta il cartone animato giapponese, Belle e Sebastien, creato dalla Mk Company riscosse un discreto successo tra i bambini e anche in Italia la serie tv ebbe il suo seguito. Sul medesimo soggetto e con lo stesso titolo si basa il film francese in live action di Nicolas Vanier. Il regista, che nel 2004 girò Il Grande Nord, torna a prediligere i climi freddi e il contatto con il mondo della natura e degli animali anche nel suo nuovo lavoro.

La storia è ambientata nel corso del 1900 in un villaggio dei Pirenei, tra la Spagna e la Francia, dove Sebastien vive con il nonno adottivo e la nipote di lui. Il ragazzo non ha molti amici, perché è orfano di madre e non è ben voluto dagli altri ragazzi, che non mancano occasione per deriderlo e allontanarlo.

Un giorno, però, Sebastien incontra un enorme cane femmina da montagna, tutto bianco, accusato ingiustamente di terribili misfatti e che tutti gli abitanti del villaggio temono e vogliono catturare. Per salvare il cane, a cui Sebastien dà il nome di Belle, il ragazzo lascerà la sua famiglia adottiva ed inizierà un lungo viaggio verso la Spagna. Ed è qui che inizierà il suo percorso di vita, fatto di tante avventure, nascondigli e voglia di libertà.

Il film riesce ad avere forza grazie alla capacità del regista di dosare i vari registi, dando spazio all’ambiente circostante che diventa protagonista insieme ai personaggi di Belle e Sebastien. Il rapporto tra l’uomo e la natura mette in mostra un legame che è alla base della genesi stessa dell’essere umano. Un contatto che a volte si trasforma in vera e propria lotta, ma anche in ricerca del proprio essere.

Il coraggio di questo ragazzino e del suo cane, che lo porterà a salvare una famiglia di fuggitivi dall’inseguimento dei tedeschi e la ricerca stessa della giustizia vengono valorizzati nella pellicola, che predilige momenti emotivamente forti, ma allo stesso tempo sperimenta l’avventura. Un film azzeccato e che piacerà sia ai grandi che ai più piccoli.

Belle e Sebastien (Francia 2014)

REGIA: Nicolas Vanier
SCENEGGIATURA: Juliette Sales, Fabien Suarez,Nicolas Vanier
ATTORI: Félix Bossuet, Tchéky Karyo, Margaux Chatelier, Dimitri Storoge, Mehdi, Urbain Cancelier
FOTOGRAFIA: Eric Guichard
PRODUZIONE: Radar Films, Epithète Films
DISTRIBUZIONE: Notorious Pictures

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Un sempre bravo Robert Redford veste i panni del protagonista di All Is Lost - Tutto è perduto, film scritto e diretto da J.C. Chandor. Selezionato per partecipare fuori concorso al Festival di Cannes 2013 e vincitore del Golden Globes come migliore colonna sonora, All is Lost vede come unico attore proprio Redford, che interpreta i panni di un naufrago in balia dell’Oceano Indiano. Dopo che il suo yacht ha subito una collisione con un container abbandonato, con l'equipaggiamento di navigazione e la radio fuori uso, l'uomo per sopravvivere deve far affidamento solo su un sestante, delle mappe nautiche e il suo intuito.

Il rapporto tra uomo e natura si fa avvincente in questo film, privo di dialoghi, ma in grado di esprimere tutta la forza di questa relazione. La solitudine dell’uomo contemporaneo sembra essere uno degli elementi sui cui punta il film e la lotta con se stesso e con le forze esterne sono il modo per rappresentare la sua condizione. Una battaglia che sembra impari, ma che è tutta concentrata sul ragionamento e sulla capacità di saper contare su se stessi e le proprie capacità, senza fare affidamento su nient’altro.

È sui gesti di Redford, silenzioso e combattivo, che si concentra l’intera pellicola e la sua capacità interpretativa si evince con estrema forza. Nel suo volto segnato compare la trepidazione dell’uomo di farcela, la salvezza diventa l’obiettivo principale e tutto il resto non conta o assume un significato decisamente minoritario. Un vecchio lupo di mare che con calma e intelligenza affronta le forze esterne e la grandezza dell’oceano. La sfida è anche quella dell’attore che rinuncia al parlato e mette in atto tutta la sua corporalità e gestualità per dare vita a un film che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore e affascina per il suo essere fuori dai soliti schemi.

Un’opera sul coraggio che rivanga i miti del passato, come il pescatore de Il Vecchio e il mare di Hemingway o il capitano Achab di Moby Dick, ma guarda anche al futuro e mette in primo piano la capacità dell’uomo di affrontare le avversità.

All is Lost - Tutto è perduto (Usa 2013)
REGIA: J.C. Chandor
SCENEGGIATURA: J.C. Chandor
ATTORI: Robert Redford
FOTOGRAFIA: Frank G. DeMarco
MONTAGGIO: Pete Beaudreau
MUSICHE: Alex Ebert
PRODUZIONE: Before The Door Pictures, Washington Square Films, Black Bear Pictures
DISTRIBUZIONE: Universal Pictures

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Solo due giorni nelle sale italiane per il film della regista tedesca, Margarethe von Trotta, Hannah Arendt. L’uscita dell’opera è coincisa con il giorno della memoria, il 27 gennaio, che celebra la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta proprio il 27 gennaio del 1945. La pellicola racconta la storia della filosofa e teorica politica ebraico-tedesca, Hannah Arendt, interpretata da un’eccellente Barbara Sukowa.

Ma è anche e soprattutto il racconto di una donna che ha vissuto sulla sua pelle la repressione tedesca, vivendo alcuni mesi in un campo di costrizione francese. Su di lei si scaglia tutta l’opinione pubblica del tempo e anche la maggior parte dei suoi amici quando, dopo aver seguito il processo al nazista Eichmann, rapito in Argentina dai servizi segreti israeliani e processato a Gerusalemme, scrive 5 articoli sul The New Yorker, che saranno la base per il suo libro più noto, La banalità del male.

Secondo la filosofa, Eichmann non era mosso da un’intenzione malvagia, ma era un semplice burocrate e l’Olocausto è nato dall’obbedienza cieca e a tratti inconsapevole a un sistema gerarchico. Secondo la teoria dell’Arendt, l’assenza di memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni criminali porterebbero esseri spesso banali a diventare autentici agenti del male.

Ma quello che scuote maggiormente gli ebrei è la constatazione - da parte della scrittrice - del fatto che i capi delle comunità ebraiche in Europa non abbiamo realmente osteggiato i nazisti. La pupilla di Heidegger affronta una diatriba violenta e intensa per arrivare a spiegare che il male non è per forza di cose qualcosa che appartiene a menti perverse o geniali, ma spesso è racchiuso in persone anche piuttosto insignificanti, come era il gerarca nazista.

Nella spiegazione che dà ai suoi studenti si evince tutta la forza del pensiero critico che le appartiene, il ragionamento che sta alla base dei suoi scritti, scevri da pregiudizi legati al suo passato o alla sua condizione di ebrea. Ed è questa la sua forza e quella delle pagine da lei scritte.

 

La banalità del male
Regia: Margarethe von Trotta
Sceneggiatura: Margarethe von Trotta, Pam Katz
Produttore: Bettina Brokemper
Montaggio: Caroline Champetier
Musiche: André Mergenthaler
Costumi: Frauke Firl
Interpreti: Barbara Sukowa, Freiderike Becht, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Klaus Pohl

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

La solitudine e la ricerca della vita passata, di quegli affetti che hanno fatto parte della propria esistenza, ma che per i motivi più vari si sono persi. È la condizione che si trova ad affrontare John May, un solitario funzionario comunale che ha il compito di rintracciare i parenti delle persone morte in solitudine. Still Life, film scritto, diretto e prodotto da Uberto Pasolini, predilige una scrittura scarna e una narrazione asciutta per descrivere la vita di May e delle persone a cui ha cercato, almeno dopo la morte, di dare una dignità.

Ma ci riesce solo con l’ultimo caso che gli è stato assegnato, prima del licenziamento. May è infatti considerato dal suo capo troppo “lento” nello sbrigare i casi che gli vengono assegnati, perché gli dedica molta attenzione, e soprattutto troppo propenso al funerale rispetto alla cremazione, che costerebbe al comune molto meno. E vista la crisi economica, il suo ufficio sta per essere ridimensionato.

Ma il caso di Billy Stoke, un uomo alcolizzato morto in solitudine a pochi passi da casa sua, non può essere assegnato a nessun altro. Così inizia a raccogliere informazioni sulla sua vita passata, cercando le persone a cui è stato legato. Conosce così Kelly, la figlia di Billy Stoke, abbandonata durante l’infanzia, e nei suoi viaggi, alla ricerca delle persone che hanno conosciuto l’uomo, May riscopre la vita e la possibilità di avere un amore e quindi un futuro diverso da quello dei suoi casi.

Pasolini, che è tra l’altro nipote di Luchino Visconti, sceglie una narrazione che pesca sia dalla commedia che dal dramma, intrecciando registi in un sapiente mixaggio, regalando allo spettatore uno spaccato commovente della vita umana. E l’omaggio finale di tutti quelli a cui May ha cercato di dare degna sepoltura, fa riscoprire una “nuova vita” al suo protagonista. Ed è questo, forse, il senso stesso del film, che anche il titolo richiama, pur alternando altri significati (still life significa anche “natura morta” o “vita ferma”, ndr).

Il film è stato presentato alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior regia nella sezione Orizzonti.

Still Life
(Regno Unito, Italia, 2014)

Regia: Uberto Pasolini
Soggetto: Uberto Pasolini
Sceneggiatura: Uberto Pasolini
Produttore: Uberto Pasolini, Felix Vossen, Christopher Simon
Distribuzione: BiM Distribuzione
Fotografia: Stefano Falivene
Montaggio: Tracy Granger, Gavin Buckley
Musiche: Rachel Portman
Scenografia: Lisa Marie Hall

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Il capitale umano è ciò che valuta un’assicurazione per liquidare il danno subito in un incidente. Ed è l’oggetto che ispira il nuovo film di Paolo Virzì, che lo riprende anche nel titolo. Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Stephen Amidon, il film ha suscitato diverse critiche tra i brianzoli, che hanno accusato il regista di aver dato un’immagine sbagliata della Brianza.

Una notte, sulla provinciale di una cittadina brianzola, alla vigilia di Natale, un ciclista viene investito da un Suv. Questo incidente diviene l’espediente per raccontare la vita di una serie di personaggi e di due famiglie: quella Bernaschi composta da Giovanni, uomo dell’alta finanza, Carla (Valeria Bruni Tedeschi), sua moglie e il loro figlio, e quella Ossola, in cui Dino (Fabrizio Bentivoglio), marito di Roberta (Valeria Golino), psicologa, rappresenta un ambizioso e spregiudicato immobiliarista sull’orlo del fallimento. A completare la famiglia Serena, una giovane ragazza legata sentimentalmente al figlio dei Bernaschi, ma molto diversa nell’approccio alla vita.

Il film, che unisce la commedia all'italiana, da sempre cara al regista livornese, al thriller familiare è una lucida riflessione su certi vizi italiani e nell’accusa a un potere corrotto e completamente privo di morale, che punta al successo personale, senza pensare all’interesse collettivo. La vita vuota di Carla, accondiscendente madre di famiglie che ha messo completamente da parte le sue aspirazioni di attrice per fare solo la moglie di un uomo ricco, ma privo di sentimenti, è un’immagine che purtroppo ci appartiene e che conosciamo fin troppo bene.

Il suo non riuscire a rinunciare al benessere e all’agio, nonostante la passione che sente per il teatro e per il direttore artistico (Luigi Lo Cascio) dell’associazione da lei presieduta, è un chiaro segnale della sconfitta di un intero Paese.

Virzì riesce in una caratterizzazione dei personaggi precisa e acuta e anche grazie alla bravura degli attori scelti, coglie nel segno e lascia l’amaro in bocca. Ma c’è una speranza: quella rappresentata da Serena e dal giovane di cui si è innamorata. Un sentimento destinato a resistere anche alla brutalità.

Il Capitale Umano
(Italia 2014)

Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesco Bruni, Francesco Piccolo
Attori: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Gifuni, Vincent Nemeth, Luigi Lo Cascio, Gigio Alberti, Bebo Storti, Pia Engleberth, Giovanni Anzaldo, Guglielmo Pinelli, Matilde Gioli
Fotografia: Jérôme Alméras, Simon Beaufils
Montaggio: Cecilia Zanuso
Musiche: Carlo Virzì
Produzione: Indiana Production, Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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