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di Sara Michelucci
Palma d’oro al Festival di Cannes 2013, La vita di Adele, del franco-tunisino Abdellatif Kechiche, racconta con toni decisamente intensi il tema del passaggio all’età adulta e della scoperta della propria sessualità. Non lascia nulla all’immaginazione il regista di Cous cous, ma va dritto allo stomaco e al cuore, mettendo in scena un amore saffico tra la giovane liceale Adele e l’artista Emma.
Siamo trasportati nella quotidianità di una ragazza come tante, che ama la lettura e aspetta il grande amore. La sua è una vita scandita dagli impegni scolastici, da una famiglia “concreta” e dai primi amori. Adele crede che sia Thomas il ragazzo che le piace, quello con cui prova a stare.
Ma la loro storia non è destinata a durare. Con questo ragazzo non riesce a stare bene veramente, ma non dipende da lui, ma da una sua infelicità che non sa spiegare. Non è appagata fino in fondo, non è se stessa e questo la fa stare male. Fino a quando non incontra una misteriosa ragazza dai capelli blu che entra sempre più nei suoi sogni e più intimi desideri.
Ispirato al romanzo grafico, Il blu è un colore caldo, di Julie Maroh, il film è un’introspezione dentro se stessi, attraverso cui il regista riesce a far venire alla luce i lati più intimi e quelli più repressi, mettendo a nudo il concetto stesso di felicità e appagamento. È un’esplosione di sensi e di eros, quello che Kechiche regala, scegliendo una nuova eroina, dopo la danzatrice del ventre di Cous Cous e la schiava africana di Venera Nera. Attraverso il corpo, vitalistico e giovane, si realizza la volontà del proprio spirito e di quell’Es che scavalca la morale e il pensiero collettivo per appagare la propria soddisfazione.
Adele è l’emblema della giovinezza, ma anche di un periodo dell’amore che fa stare male, che resterà sempre legato alla propria esistenza come qualcosa di formativo e al tempo stesso di dannatamente doloroso. Gli sguardi su cui il regista si sofferma, le carezze, i gesti e le espressioni, rendono molto di più di tante parole.
Con Emma, Adele imparerà cosa vuol dire amare e tradire, piangere e gioire. Emma è una pittrice che si circonda di persone colte, spregiudicata e affascinante, che frequenta locali gay e ama le ostriche. Adele è l’opposto: vuole fare la maestra, mangia spaghetti a quantità ed è piuttosto timida e riservata. Ma con Emma la sua vita si trasformerà completamente e il loro incontro rappresenterà il passaggio definitivo verso una nuova fase della vita.
La vita di Adele (Francia, Belgio, Spagna 2013)
Regia: Abdellatif Kechiche
Soggetto: Julie Maroh
Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix
Produttore: Olivier Thery Lapiney, Laurence Clerc
Distribuzione: Lucky Red Distribuzione
Fotografia: Sofian El Fani
Montaggio: Camille Toubkis, Albertine Lastera, Jean-Marie Lengelle, Ghalya Lacroix, Sophie Brunet
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di Sara Michelucci
Rocco Papaleo torna a raccontare il suo Sud. A tre anni da Basilicata Coast to Coast, che ha segnato il successo alla regia dell’attore e musicista, il nuovo lavoro, Una piccola impresa meridionale, lancia un’occhiata a quelli che sono i preconcetti e i tabù di una mentalità tipicamente italiana, che fa fatica a pronunciare parole come omosessualità. Il film è ispirato al romanzo omonimo scritto dallo stesso Papaleo e racconta la storia di don Costantino, da lui interpretato, che si è da poco “spretato”, dopo essersi innamorato di una donna che l’ha prontamente lasciato una volta abbandonato l’abito talare.
Costantino torna nel suo piccolo paese del Sud, tra la Basilica e la Puglia (in realtà il film è stato girato in Sardegna, ad Oristano), dopo che la sorella ha lasciato il marito (Riccardo Scamarcio) per scappare non si sa bene dove. Ma quando l’uomo confessa alla madre Stella, donna d‘altri tempi, di non essere più prete, questa lo confina nella casa sul faro, proprietà di famiglia, affinché non si sappia in giro che non è più un sacerdote.
La donna deve infatti già risolvere le grane piantate da sua figlia Rosa Maria (Claudia Potenza) che ha lasciato il marito Arturo ed è fuggita con un misterioso amante. Il vecchio faro in disuso dovrebbe garantire all'ex prete l'isolamento. Ma non è così. Uno dopo l’altro arrivano i personaggi più curiosi e sopra le righe che ci si possa aspettare, trasformando così il posto in un “refugium peccato rum”.
Fanno visita a Costantino l’ex prostituta Magnolia (Barbara Bobulova), il cognato Arturo e infine una stravagante ditta edile, chiamata per riparare il tetto, composta anche da una bambina che imparerà molto più da quella esperienza che non su un qualsiasi banco di scuola. Tutti quanti dovranno fare i conti con il proprio essere, mettendo in discussione i loro valori e la loro educazione e ripensando così il proprio futuro.
Una commedia molto vivace, quella che il regista lucano sceglie di portare sul grande schermo, ma che non ha l’originalità e la profondità del precedente lavoro e forse tende a edulcorare tematiche difficili, utilizzando un po’ troppo facilmente il lieto fine. Il ritratto della diversità che Papaleo vuole dare è sicuramente un ottimo punto di partenza, ma la sua riuscita lascia a desiderare. Ci si aspettavano toni più surreali e una definizione meno netta nei giudizi e nel finale.
Una piccola impresa meridionale (Italia 2013)
REGIA: Rocco Papaleo
SCENEGGIATURA: Rocco Papaleo, Valter Lupo
ATTORI: Riccardo Scamarcio, Rocco Papaleo, Barbora Bobulova, Sarah Felberbaum, Claudia Potenza, Giuliana Lojodice, Giovanni Esposito
FOTOGRAFIA: Fabio Zamarion
MONTAGGIO: Christian Lombardi
PRODUZIONE: Paco Cinematografica e Warner Bros Entertainment Italia
DISTRIBUZIONE: Warner Bros Italia
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di Sara Michelucci
Daniele Luchetti sceglie ancora una volta una storia dal sapore familiare. Dopo La nostra vita, il regista romano ripropone nel nuovo Anni felici, che vede come protagonisti Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, il racconto di genitori e figli, di amori tormentati e che fanno male e di una lotta con se stessi per poter riemergere da situazioni complicate e sofferte e andare avanti.
Sono gli anni Settanta e Guido e Serena sono innamorati, ma al tempo stesso hanno un rapporto molto tormentato. Guido è uno scultore che vuole affermarsi nel difficile mondo dell’arte d’avanguardia. Il lavoro per lui è al primo posto e non vuole ingerenze da parte della famiglia e di sua moglie in particolare. Per questo le tiene lontana da suo mondo e spesso la tradisce con le modelle che posano nel suo studio, fatto di calchi, polvere e sudore.
Serena lo ama appassionatamente e i due figli si trovano a fare i conti con i continui alti e bassi di una famiglia tutto sommato felice, nella sua instabilità. La voce fuori campo è affidata proprio a Dario, il figlio maggiore, un ragazzino appassionato della cinepresa, che riceverà in regalo dalla nonna materna, e sarà l’occhio attraverso il quale verrà mostrata la fine della storia tra i suoi genitori e la verità dei sentimenti di ciascuno di loro.
In seguito all’ennesimo fallimento artistico di Guido e a un viaggio di evasione in Francia di Serena si giunge ad un momento di rottura. La coppia si separa e Guido è quello che sembra risentirne maggiormente. Ma il raggiungimento, improvviso quanto inaspettato, di un successo artistico, sembra aprirlo verso un periodo di serenità. I due capiranno di non essere fatti per stare insieme, ma non si perderanno mai di vista.
L’artista rimane un po’ sullo sfondo, mentre esce maggiormente fuori la figura dell’uomo e Luchetti sa ben dosare la descrizione dei personaggi con le finalità del racconto. Sullo sfondo rimangono anche i temi politico-sociali, come la rivoluzione sessuale, l’emancipazione della donna e il femminismo che, comunque, servono per creare un sostrato culturale e storico su cui poggiano le singole vicende, a partire dalla relazione amorosa tra Serena e la gallerista tedesca. La scelta, poi, di raccontare le vicende attraverso gli occhi dei figli risulta azzeccata, anche grazie alla bravura degli attori.
Anni Felici (Italia – Francia 2013)
regia: Daniele Luchetti
sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Daniele Luchetti, Caterina Venturini
attori: Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo, Niccolò Calvagna, Benedetta Buccellato, Pia Engleberth
fotografia: Claudio Collepiccolo
montaggio: Mirco Garrone
musiche: Franco Piersanti
produzione: Cattleya con Rai Cinema
distribuzione: 01 Distribution
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di Sara Michelucci
C’è stata decisamente molta curiosità intorno al nuovo film di fantascienza, Gravity, scritto, diretto, montato e prodotto da Alfonso Cuarón. I protagonisti sono gli attori Sandra Bullock e George Clooney, che hanno mostrato di avere la capacità di interpretare un ruolo diverso da quelli a cui li abbiamo visti spesso associati. Il film ha aperto la 70esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, proiettato in anteprima mondiale il 28 agosto scorso nella Sala Grande del Palazzo del Cinema.
La dottoressa Ryan Stone è un’esperta ingegnere biomedico che affronta per la prima volta una missione nello spazio. Assieme a lei, sullo Space Shuttle, l'astronauta Matt Kowalsky, il quale andrà in pensione al rientro da questa che sarà la sua ultima missione. Durante una passeggiata all'esterno dello Shuttle, vengono colpiti da detriti di un satellite che distruggono la navetta spaziale lasciando i due da soli, alla deriva nello spazio.
Fluttuanti nell'oscurità e privi di qualunque contatto con la Terra non hanno apparentemente alcuna chance di sopravvivere anche per via dell'ossigeno che va esaurendosi. Forse l’unico modo per sperare di tornare a casa è quello di addentrarsi nello spazio infinito.
Lo spazio è stato affrontato in diversi modi dal mondo del cinema: dal capolavoro di Kubrick, 2001 Odissea nello Spazio all’orrorifico Alien fino al più comico Man in Black. Esso rappresenta un luogo affascinante che ha sempre attirato la cinematografia, la quale vi ha spesso cercato spunti per trame più o meno avvincenti, creando personaggi come Star Wars, che sono diventati icone dell’immaginario collettivo.
Ma qui non è la rivelazione ad essere al centro della storia: non c’è infatti più nulla da scoprire, come era predominate nei film del passato, ma ci si concentra sui personaggi e sulla loro capacità di affrontare l’ignoto. Insomma, l’esplorazione lascia il passo all’introspezione, dove l’essere umano mette in discussione se stesso e la propria sopravvivenza.
Gravity (Usa 2013)
Regia: Alfonso Cuarón
Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón, Rodrigo Garcia
Attori: George Clooney, Sandra Bullock
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: Alfonso Cuarón
Produzione: Reality Media, Warner Bros. Pictures
Distribuzione: Warner Bros. Italia
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di Sara Michelucci
Non è solito che un documentario si aggiudichi un premio significativo come il Leone d’Oro del Festival del cinema di Venezia. Eppure Sacro Gra, nuova opera di Gianfranco Rosi, ha conquistato la giuria capitanata da Bernardo Bertolucci, portandosi a casa l’ambito premio. Dopo l’India dei barcaioli, il deserto americano dei drop out, il Messico dei killer del narcotraffico, Rosi decide di narrare una parte dell’Italia: il Grande Raccordo Anulare di Roma.
Ed è in questo angolo del Paese che Rosi, girando per più di due anni con un mini-van, racconta la vita di tanti personaggi, scoprendo nuovi mondi, spesso sconosciuti, nascosti dal rumore delle auto e dal fumo degli scappamenti. Un fiume di traffico sempre in movimento che non accenna mai a fermarsi e dal cui sfondo affiorano personaggi invisibili.
E così compaiono un nobile piemontese e sua figlia laureanda, che vivono in un monolocale in un moderno condominio ai bordi del Raccordo; un botanico armato di sonde sonore e pozioni chimiche cerca il rimedio per liberare le palme della sua oasi dalle larve; un principe contemporaneo che fa sport con un sigaro in bocca sul tetto del suo castello assediato dalle palazzine della periferia a un’uscita del Raccordo; un barelliere in servizio sull’autoambulanza del 118 dà soccorso e conforto girando notte e giorno sull’anello autostradale; un pescatore d’anguille vive su di una zattera all’ombra di un cavalcavia sul fiume Tevere.
Il racconto che si dà di un pezzo di Roma è nudo e crudo, per nulla edulcorato come aveva fatto il decisamente bruttino To Rome with love. “Mentre cercavo le location del film - afferma Rosi - portavo con me ‘Le città invisibili’ di Calvino. Il tema del libro è il viaggio, inteso per me come relazione che unisce un luogo ai suoi abitanti, nei desideri e nella confusione che ci provoca una vita in città e che noi finiamo per fare nostra, subendola. Il libro percorre strade opposte, si lascia trascinare da una serie di stati mentali che si succedono, si accavallano. Ha una struttura complessa e il lettore la può rimontare a seconda dei suoi stati d’animo, delle circostanze della sua vita, come è successo a me. Questa guida mi è stata di stimolo nei tanti mesi di lavorazione del film, quando il vero Gra sembrava sfuggirmi, più invisibile che mai”.
Qui la parola è lasciata agli oltre 70 km di autostrada urbana che gira come un anello intorno alla città eterna. E così viene offerto allo spettatore un bagaglio di esperienze uniche e nuove che non si sarebbe aspettato di trovare. Rosi sceglie un nuovo luogo, quasi di confine, per raccontare scorci di umanità inedita. Ma questa volta non sono posti esotici o deserti, bensì una parte d’Italia che ben conosciamo e che, ora, probabilmente, guarderemo con occhi diversi.
Sacro Gra (Italia 2013)
Regia, fotografia, suono: Gianfranco Rosi
Da un’idea originale di: Nicolò Bassetti
Montaggio: Jacopo Quadri
Prodotto da: Marco Visalberghi per Doclab
Distribuzione internazionale: Doc&Film International